Zagrebelsky: “Usiamo il metodo di Bobbio, maestro di comprensione contro ogni intolleranza”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Cesare Martinetti
Fonte: La Stampa

Zagrebelsky: “Usiamo il metodo di Bobbio, maestro di comprensione contro ogni intolleranza”

Il costituzionalista: «La sua filosofia insegna a convivere con chi pensa diversamente. L’adesione al fascismo per la cattedra fu formale, senza alcun cedimento sostanziale»

Professor Zagrebelsky, i ragazzi che studiano all’Università di Torino nell’aula intitolata a Norberto Bobbio non sanno chi fosse. Si stupisce?
«No, i ragazzi si muovono in un mondo tutto loro, ma se si riesce a fargli spalancare gli occhi su realtà che non sono immediatamente evidenti sono sensibilissimi. Spesso perfino stupiti e lo stupore è un impulso alla conoscenza».

Che cosa ci può servire di Bobbio, oggi?
«La virtù del pensiero di Bobbio corrisponde a un’esigenza perenne: comprendere. Il tempo in cui viviamo è quello della difficoltà e della rinuncia alla comprensione e ciò conduce facilmente all’ignavia, a lasciarsi andare. Il suo pensiero si aggirava nel mondo delle idee giuridiche e politiche in modo assai caratteristico e molto produttivo e fascinoso. Il mondo del diritto e della politica, soprattutto oggi, non è semplificabile, se non a rischio di semplicismo. È abitato da tante visioni, concezioni, teorie, dottrine. Bobbio, per la mia generazione, è stato un maestro, anzi “il” maestro dell’ordine delle idee. In questo senso la sua lezione, fino a quando ci saranno persone interessate a pensare il mondo politico e giuridico senza confusioni, approssimazioni, illusioni, durerà al di là del suo nome. Lui stesso diceva senza illusioni: tra due o tre generazioni, chi, non filosofo di professione, passerà davanti alla mia tomba si chiederà: chi era costui?».

A proposito del suo metodo è noto il procedere per dicotomie. Che cosa significa?
«Le dicotomie sono figure concettuali e retoriche, sulle quali si può costruire un discorso bipolare chiarificatore, particolarmente utile per districarsi nei grovigli delle idee. Dicotomia, semplificando, significa divisione concettuale in due: tutto ciò che sta da una parte non può stare dall’altra. Tra le due parti c’è incompatibilità radicale e, inoltre, tertium non datur. Ripeto: separazione concettuale. Per esempio, Destra o Sinistra, fascismo o antifascismo, tolleranza o intolleranza, pubblico o privato, democrazia o autocrazia, liberalismo o socialismo, eccetera. Bobbio, in quanto studioso, era homo dicotomicus. Ma sapeva che le dicotomie, spostate dal piano teorico in quello pratico si trasformano facilmente in ideologie intolleranti, in dogmi chiusi. E “i dogmatici” non si parlano, ma si fanno la guerra».

Dove ci porta questo metodo?
«Al dialogo tra persone non intolleranti. Il dialogo onesto e produttivo ha una sua etica stringente. Innanzitutto, deve esistere un interesse comune, cioè intendersi e non sopraffarsi, convivere e non cercare di tagliarsi la testa. Questo è il fine superiore. Bobbio, che sul piano teorico è un separatore di concetti, sul piano pratico è piuttosto un mediatore, nei limiti del possibile».

Come si deve intendere la tolleranza? Non è un concetto ambiguo?
«Sì. Può nascondere un dislivello tra chi tollera e chi è tollerato. Il tollerato gode di un favore, non di un diritto e il favore può venir meno quando le circostanze consentono a chi era tollerante di non esserlo più. È la tolleranza gesuitica. Se, invece si considera la tolleranza una virtù reciproca, cioè basata sull’uguale diritto d’essere rispettato (o tollerato), in concetto si scioglie beneficamente nella convivenza in cui l’uno riconosce non solo il diritto dell’altro di esistere, ma anche l’arricchimento che viene dal dialogo paritario. Un uomo che non era mite per natura ma lo era per cultura, in un momento in cui era in vena di confessioni, ha detto di sé: “detesto i fanatici con tutta l’anima”».

Quindi elogio della tolleranza o, detto in altri termini, della mitezza, il titolo d’un suo celebre, breve scritto. Ma, fin dove tolleranza e mitezza? Non ci sono dei limiti?
«Grande questione che solo gli intolleranti possono permettersi di ignorare. Ma non un uomo come Bobbio e i suoi discepoli. Per essere coerenti, il tollerante deve esserlo anche con l’intollerante? Se sì, rischia di soccombere alla violenza esercitata dall’intollerante su di lui; se no, sembra contraddire se stesso nel suo essere tollerante. Non sono giochi di parole o acrobazie concettuali. È la questione, in certi momenti infelici della vita molto concreta, di come rispondere alla violenza, con una violenza contraria o con la non-violenza?».

Come risponde Bobbio?
«La sua risposta è oscillante. Soprattutto, non è categorica. Non è un gandhiano e neppure aderisce per principio all’etica evangelica del “porgere l’altra guancia”. Si affida – caso piuttosto raro in lui – a un’aspettativa ottimistica risposta nella natura umana e nella virtù diffusiva che la tolleranza potrebbe racchiudere in sé: l’intollerante, il violento, messo di fronte all’atteggiamento mite del tollerante, potrebbe sperabilmente farsene conquistare e, in certo senso, convertirsi a quella virtù che prima non praticava, o forse nemmeno conosceva. Il mite tollerante risulterebbe così un maestro di virtù. Naturalmente, a suo rischio e pericolo».

Ma, esistono limiti al dialogo? Si deve dialogare con tutti?
«Sì, è la risposta alla prima domanda, che implica il no alla seconda. C’è un limite di decenza. In una delle ultime pagine di La Banalità del male di Hannah Arendt racconta che i gerarchi nazisti Herman Goering e Robert Ley, prima di suicidarsi nell’imminenza del processo di Norimberga, meditavano di aprire un dialogo con i sopravvissuti di Auschwitz. Giustizia riconciliativa o osceno tentativo d’ingannare e di lavarsi la coscienza?».

Che rapporto ha avuto Bobbio con la religione?
«Si sa che anche lui, come molte altre persone eminenti estranee alla vita della Chiesa cattolica a dire, sono state esortate, o tentate, a dire qualche parola che potesse interpretarsi come una vittoria della religione attraverso una conversione in limine vitae. Cosa che non è avvenuta: si sa anche questo per espressa avversione di Bobbio stesso, pur essendosi dichiarato “rispettoso della religione dei padri”. Tuttavia, con i mondi delle fedi religiose egli intrattenne rapporti rispettosi e perfino, in certi casi, cordiali. Il terreno d’incontro era il mistero. Da dove veniamo, chi siamo, perché? I senso del mistero lo distingueva dai razionalisti puri, totali, cioè da coloro che confidano illimitatamente nella ragione e nella scienza che è sua figlia, e credono ch’essa, nel suo cammino, raggiungerà il suo fine: la conoscenza e la spiegazione integrale delle grandi domande finora senza risposta. Diceva scherzando: non credo nel lume della ragione, ma nel suo lumicino. Flebile ottimismo, contro l’orgoglio illimitato degli “scientisti”».

Ritorniamo alla politica e alla dicotomia che l’ha impegnato a fondo: liberalismo e socialismo.
«Ha avuto l’avventura – a ben pensarci intrinseca al modo di muoversi in pratica tra le dicotomie riconosciute nella teoria – d’essere accusato da destra d’essere troppo condiscendente con la sinistra, e da sinistra, d’essere troppo benevolo con la destra. Troppo socialista o troppo liberale. Queste erano le premesse tutt’altro che promettenti per l’apertura d’un dialogo tra i due mondi, soprattutto negli anni della grande divisione tra il “mondo libero” e il mondo comunista. La posizione di Bobbio, nella polemica con Togliatti e Galvano della Volpe sviluppata all’inizio degli anni ’50, si basava sull’idea che le libertà individuali, la democrazia, la divisone dei poteri, eccetera, erano, sì, conquiste liberali, ma valide universalmente come difese dall’arbitrio del potere. Come tali, anche il mondo socialista avrebbe dovuto aderirvi, farle proprie. D’altra parte, il socialismo contiene l’aspirazione alla giustizia sociale e all’uguaglianza, che non avrebbe dovuto lasciare indifferenti coloro partivano da l punto di vista liberale, delle libertà degli individui. Su questa duplice base egli ha intessuto un dialogo racchiuso nella formula del socialismo liberale, una formula non teorica, un compromesso pratico in cui ciascuno ha da acquisire qualcosa dall’altro. Il tentativo ha avuto successo? Sì e no, dipende dai punti di vista. Per me, più sì che no».

All’epoca ci fu una polemica che Marcello Veneziani ha ripreso pochi giorni fa in un’intervista a La Stampa. Poneva l’alternativa: o Bobbio è stato fascista o il fascismo non era così illiberale. Che ne pensa?
«Bobbio certamente non è stato fascista, non ha scritto alcun servo encomio. Bisogna immedesimarsi nelle condizioni dell’epoca. Egli aveva una vocazione, certamente non politica ma scientifica. Questa è stata la ragione della lettera famosa, non l’adulazione del potere. Chi si erge a giudice faccia lo sforzo di giudicare se stesso, se posto in quelle condizioni. La dittatura, s’è detto, è corruttiva: costringe ad azioni che sarebbero riprovevoli in regime di libertà, e sono invece necessitate nelle condizioni di illibertà per ottenere ciò che è giusto. La dittatura è corruttrice. Questo è il punto principale della questione, a mio parere; non se il fascismo non era poi così brutto come si dice».

Bobbio si vergognò molto per quella lettera, e lo disse pubblicamente più volte. Troppo, come amichevolmente gli rimproverarono Vittorio Foa e Galante Garrone. È stata anche quella un’altra sua lezione?
«Bobbio, nella fase della sua vita in cui l’ho conosciuto, era un intransigente, soprattutto verso se stesso. A mio modo di vedere, esagerava, come se volesse avere di sé un’immagine specchiata. In certo senso, in quella vicenda, egli è stato vittima di se stesso, della durezza morale ch’egli praticava. Se fosse stato meno intransigente con se stesso, avrebbe vissuto quel dramma in altro modo, ugualmente degno e umano».

Nella sua vita si è molto speso per i diritti umani. In che modo rientrano nel suo metodo?
«Su questo tema si vede all’opera un altro aspetto dell’atteggiamento pratico delle sue concezioni scientifiche: il realismo. Rifuggiva dalle fumisterie prive di aggancio con la realtà del suo tempo. Non era affatto machiavellismo o subordinazione delle idee alla “bassura” della vita. Era la considerazione che sia il diritto che la politica sono scienze “pratiche” e hanno valore solo se, almeno tendenzialmente o imperfettamente, hanno o possono avere applicazioni nella prassi. Ultimamente, visto lo stato del mondo costruito sull’ideologia dei diritti, il mondo che i mezzi di comunicazione di massa ci riversano tutti i giorni nelle nostre case, era giunto a questa sconsolata conclusione: se ne avessi la forza e il tempo scriverei non L’età dei diritti (un suo libro famoso), ma L’età dei doveri».

Torniamo all’inizio, come, il professor Bobbio può essere riconoscibile ai ragazzi di oggi a vent’anni dalla morte?
«Bobbio non c’è più, e molti problemi sono nuovi. Pace e guerra presentano aspetti allora non previsti che mettono in crisi l’idea del nemico, la definizione dell’aggressore e della vittima, pongono domande sull’uso di certa nuova tecnologia bellica. Che cosa direbbe sui problemi posti dalla intelligenza artificiale? E sulla piega che ha preso il movimento di emancipazione delle donne, ch’egli aveva salutato come una forza fondamentale del progresso umano? E sul me-too? E sul woke? E sui temi delle identità sessuali, che tanto coinvolgono l’attenzione e l’esperienza delle nuove generazioni? Certo, Bobbio è fuori tempo rispetto a questi temi e a questo tempo, ma il suo metodo, no. Un bravo professore, dalla cattedra, sa che se non è facile proporre Bobbio come persona e l’opera di sua come oggetto diretto di studio, certo saprà usare il suo metodo e così ridargli continuamente vita e fecondità».

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