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di Luca Billi, 22 gennaio 2018
Magari possiamo crederlo quando siamo ragazzi, ma invecchiando scopriamo che non è vero che gli eroi son tutti giovani e belli. E crescendo scopriamo anche che i nostri maestri non sono le persone che pensavamo che fossero. Scopriamo che gli scrittori, gli artisti, i filosofi che ci hanno insegnato a vivere, che hanno formato la nostra personalità e la nostra cultura, non sono le persone che ci eravamo immaginati dalle loro opere. Scopriamo che erano bugiardi, adulteri, giocatori, invidiosi, ladri e anche peggio, ma, nonostante tutto, mostriamo verso di loro indulgenza, perché siamo grati di quello che ci hanno lasciato – e spesso le loro opere sono figlie di questi vizi – e anche perché quelle colpe sono anche le nostre. Siamo indulgenti verso di loro perché lo siamo verso di noi e perché riusciamo sempre a trovare una giustificazione per noi, e quindi anche per loro.
Ma cosa succede quando la colpa è qualcosa di terribile, qualcosa per cui non riusciamo a provare indulgenza? Cosa succede quando un artista che amiamo fa qualcosa per cui proviamo orrore, è colpevole di qualcosa di così grave da far vacillare persino la nostra idea, così saldamente radicata, che nessun reo meriti la morte? La violenza verso i bambini è per me – come credo per moltissimi di voi – uno di questi crimini che non possono avere né giustificazione né perdono. E se di questo crimine viene giudicato colpevole un mio maestro? Continuerò a considerarlo tale? Continuerò a leggere, a guardare, a studiare le sue opere?
Non si tratta di un caso di scuola, di una sorta di esercitazione filosofica, ma di qualcosa di cui devo occuparmi perché uno dei registi che amo di più, l’autore di Io e Annie e Zelig e di molti altri film, è accusato di aver molestato la propria figlia adottiva, quando aveva solo sette anni. Vorrei non fosse così, lo vorrei soprattutto per la vita di quella giovane ragazza che comunque è la vittima di questa storia, perché, anche nel caso che le accuse fossero inventate, si troverebbe al centro di un drammatico e implacabile conflitto familiare, di cui lei certamente non ha colpa.
Accettiamo che le accuse siano vere – sono comunque verosimili – e credo che abbiano fatto bene alcuni attori – da ultimo è stato Colin Firth – ad annunciare che non sono più disponibili a lavorare con Woody Allen, anche se questo atteggiamento, se diventasse condiviso da molti, potrebbe portare al fatto che il regista newyorkese non potrà più fare film. Ma cosa dovremmo fare con i film che ha già fatto? Dovremmo smetterli di guardarli, di consigliarli, di considerarli bellissimi, come effettivamente sono? Dovremmo smettere di cercare di capire il rapporto tra donne e uomini attraverso quei film? E nessuno sa raccontare le donne come lui. Dovremmo rinunciare a interrogarci sulla colpa e sull’identità, altri temi sempre presenti nell’opera di Allen? O dovremmo smettere di ridere o di essere cullati dalla nostalgia, perché il loro autore è un molestatore di bambini?
Maestro deriva da una forma contratta del latino magister, che ha la stessa radice di magnus, grande, e ne è un comparativo: il maestro è etimologicamente colui che è più grande di noi e quindi ha il diritto di insegnarci. Un maestro che commette una colpa così grave non è più grande di noi e quindi dovrebbe perdere tale diritto. Però ci sono le sue opere e quelle continuano a fare quello che devono. Capisco che può apparire gesuitica e ipocrita questa distinzione tra l’autore e le sue opere, eppure mi pare l’unico modo per affrontare questo tema così delicato.
In Crimini e misfatti, un altro dei grandissimi film di Allen, l’unico personaggio positivo pare il professor Louis Levy, l’intellettuale capace di capire il dramma degli uomini e di trovarne una possibile soluzione. Nel documentario che girano su di lui il professore dice tra le altre cose: “La felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione, siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all’universo indifferente. Eppure la maggior parte degli esseri umani sembra avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici: nel loro lavoro, nella loro famiglia e nella speranza che le generazioni future possano capire di più.”