Warfare vs. Welfare – senza pace e lavoro

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Guido Viale
Fonte: L'Altra Europa Roma

di Guido Viale – 1 agosto 2014

Senza pace e lavoro. Una riflessione sulla democrazia economica che rende muta e impotente l’Unione Europea sul dramma dei conflitti che esplodono ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina

Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria svi­lup­pa­tasi a par­tire dal 2008 e della gestione dell’austerità con cui, soprat­tutto in Europa, si è pre­teso di con­tra­starla (copiando dagli Usa, che però quelle poli­ti­che le pre­di­cano ma non le appli­cano) era, ed è, una ulte­riore ridu­zione delle quote di Pil desti­nate a lavoro, pen­sioni, sanità e istru­zione e, soprat­tutto, la pri­va­tiz­za­zione delle imprese e dei ser­vizi pub­blici, del ter­ri­to­rio e dell’ambiente. Il tutto a bene­fi­cio della finanza inter­na­zio­nale, a cui era stato da tempo tra­sfe­rito il diritto di creare denaro attra­verso il cosid­detto «divor­zio» tra Governi e Ban­che centrali.

In que­sto qua­dro si è svi­lup­pata fino al paros­si­smo una cul­tura di governo ragio­nie­ri­stica, attenta fino allo spa­simo (poli­tico) a cen­tel­li­nare le risorse dedi­cate al lavoro e al benes­sere delle popo­la­zioni per pro­teg­gere i grandi inte­ressi finan­ziari che hanno sca­te­nato la crisi e che con­ti­nuano a beneficiarne.

Quella cul­tura e quelle poli­ti­che da ragio­nieri, gestite dalle isti­tu­zioni dell’Unione Euro­pea di cui i Governi degli Stati mem­bri, soprat­tutto nella zona euro, sono meri ese­cu­tori, hanno aperto una vora­gine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sem­pre più debole, delle con­di­zioni di vita della mag­gio­ranza dell’elettorato. Ma ha reso anche assai meno attrat­tivo l’obiettivo di unirsi alla com­pa­gine euro­pea per quelle nazioni che ne sono ai mar­gini: vedere come l’Unione Euro­pea stra­pazza il popolo greco, ma anche quelli ita­liano, spa­gnolo, por­to­ghese, irlan­dese e ora anche fran­cese (ma sem­pre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.

Sfu­mata quella della Tur­chia, le richie­ste di nuove ade­sioni, come quella del Governo ucraino, nascono più per non rima­nere schiac­ciati dai con­flitti gene­rati dall’espansionismo della Nato (cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Euro­pea mostra sem­pre più la pro­pria sud­di­tanza) che dall’attesa di qual­che bene­fi­cio. Ma quella sud­di­tanza è la con­se­guenza della cul­tura ragio­nie­ri­stica con cui viene gover­nata l’Unione, che la rende muta e impo­tente di fronte all’esplodere di con­flitti sem­pre più gravi ai suoi con­fini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.

Molti di que­sti con­flitti, com­preso uno nella stessa Israele, sono nati da rivolte popo­lari con­tro le poli­ti­che libe­ri­ste dei rispet­tivi governi, e sono poi stati schiac­ciati o assor­biti dalle guerre per­ché non hanno tro­vato in Europa una sponda ade­guata. Ora, men­tre si mol­ti­pli­cano i ver­tici sui decimi di punto di sfo­ra­mento del defi­cit da con­ce­dere ai governi di paesi ormai al col­lasso per via di vin­coli ben più sostan­ziosi impo­sti da debiti e trat­tati inso­ste­ni­bili che non ven­gono messi in discus­sione (una rie­di­zione del dibat­tito sul sesso degli angeli che impe­gnava i gover­nanti di Bisan­zio men­tre i Tur­chi la sta­vano espu­gnando), i ter­ri­tori che cir­con­dano l’Europa si infiammano.

Le con­se­guenze non tar­de­ranno a farsi sen­tire. Per­ché quei paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento ener­ge­tico dell’Europa, e la potreb­bero por­tare al col­lasso. Per­ché tutto il con­ti­nente verrà inve­stito sem­pre più da flussi di pro­fu­ghi di dimen­sioni bibli­che: oggi si trova inso­ste­ni­bile l’arrivo di qual­che decina di migliaia di dere­litti, che pagano la loro fuga con un pesan­tis­simo tri­buto di morte, senza ren­dersi conto che i pro­fu­ghi pro­dotti dalle guerre che ormai cir­con­dano l’Europa sono milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospi­tano i paesi limi­trofi: Tur­chia, Gior­da­nia, Iraq, come già Siria e Gior­da­nia ai tempi della guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cer­che­ranno un rifu­gio in Europa; e che i paesi a cui si vor­rebbe affi­dare il com­pito di fer­mare quei flussi sono quelli che li ali­men­te­ranno sem­pre di più.

Per­ché una quota cre­scente della popo­la­zione euro­pea è com­po­sta da nativi di paesi scon­volti da con­flitti che non tar­de­ranno a riper­cuo­tersi anche qui, intrec­cian­dosi con con­flitti sociali sem­pre più aspri. Per­ché guerra chiama guerra e senza stru­menti per pro­muo­vere la pace (una poli­tica estera di ampio respiro e risorse con­si­stenti, umane, eco­no­mi­che e cul­tu­rali) se ne fini­sce travolti.

La dram­ma­ti­cità del momento, che si somma al col­lasso degli equi­li­bri eco­no­mici su cui avrebbe dovuto reg­gersi il pro­getto euro­peo rende evi­dente che ci tro­viamo non alla vigi­lia, ma già nel bel mezzo di una svolta epo­cale che ci impone di affron­tare, den­tro la prassi quo­ti­diana e den­tro le lotte in difesa delle pro­prie con­di­zioni di vita, una pro­fonda revi­sione dell’orizzonte entro cui ci muo­viamo: una revi­sione che riguarda innan­zi­tutto i con­cetti di demo­cra­zia e di lavoro.

Due entità con­giunte, come peral­tro pre­vede l’articolo 1 della Costi­tu­zione ita­liana, ancor­ché discusso e varato in un con­te­sto del tutto dif­fe­rente. Occorre ela­bo­rare e poi con­trap­porre al pen­siero unico, che esalta la com­pe­ti­ti­vità, l’individualismo pro­prie­ta­rio, il con­sumo come motore dello svi­luppo, il merito come san­zione di una pre­sunta supe­rio­rità di chi si è affer­mato (e il ser­vi­li­smo, che ne è la diretta con­se­guenza) una cul­tura nuova, che pro­muova la soli­da­rietà, la con­di­vi­sione, la sobrietà, la cura del pros­simo, della natura e del vivente: tutte cose che costi­tui­scono l’orizzonte di una rifon­da­zione inte­grale della democrazia.

Non è solo una bat­ta­glia cul­tu­rale da affi­dare all’elaborazione teo­rica di pochi e all’intelligenza col­let­tiva dei più; deve inve­stire anche gli affetti e il vis­suto quo­ti­diano di tutti: là dove il pen­siero unico è riu­scito spesso a far brec­cia e ad anni­darsi in cia­scuno di noi senza che nem­meno ce ne avve­des­simo. E’ un lavoro di scavo che richiede un reci­proco inter­ro­garsi e rimet­tersi in gioco, il cui esito non può che essere quella con­ver­sione eco­lo­gica di cui par­lava Alex Langer.

Un pro­cesso che inve­ste con­te­stual­mente il nostro sen­tire, le nostre con­vin­zioni, i nostri atteg­gia­menti, i nostri com­por­ta­menti sog­get­tivi e le forme della par­te­ci­pa­zione e del con­flitto sociale per tra­sfor­mare la strut­ture del con­te­sto in cui ope­riamo, a par­tire da quello eco­no­mico: che cosa pro­du­ciamo, per chi, con che cosa, come e dove. Per­ché o la demo­cra­zia rie­sce a inve­stire anche l’ambiente eco­no­mico, l’impresa, la sua orga­niz­za­zione, il suo mer­cato, il suo rap­porto con il ter­ri­to­rio e chi lo governa, o, se resta ai mar­gini o al di fuori di que­ste cose, non ha più modo di esistere.

È solo facen­dosi pro­ta­go­ni­sta di una lotta poli­tica e cul­tu­rale per que­ste forme di demo­cra­zia inte­grale che l’Europa, cioè i suoi popoli, pos­sono offrire al resto del mondo, e innan­zi­tutto a chi abita ai suoi con­fini, una pro­spet­tiva di pace e di soli­da­rietà che ne fac­cia un modello. E che pro­spetti una strada per sot­trarsi a quello stato di guerra per­ma­nente in cui si tra­duce ormai da tempo la con­vin­zione che dall’Europa così com’è, dai suoi modelli di vita e dalla fero­cia che eser­cita verso i suoi stessi cit­ta­dini non c’è niente da atten­dere e niente da riprendere.

Ma demo­cra­zia e lavoro si intrec­ciano ine­stri­ca­bil­mente. Non il lavoro nelle forme coatte in cui esso si eser­cita oggi in tutto il mondo; cioè emar­gi­nando e depri­mendo salute, vita, desi­deri, capa­cità e crea­ti­vità di chi lo svolge – così come si deva­sta la natura e il vivente per rica­varne solo la mil­le­sima parte, e la peg­giore, di quello che potreb­bero dare – ma poten­ziando al mas­simo, attra­verso con­flitti con cui recu­pe­rare gra­dual­mente per tutti una capa­cità di auto­go­verno: sia sul ter­ri­to­rio che all’interno delle imprese che sulle grandi que­stioni di indi­rizzo; in modo da ren­dere la crea­ti­vità di cia­scuno il vero motore di uno «svi­luppo» radi­cal­mente diverso.

In que­sta dimen­sione un red­dito di cit­ta­di­nanza uni­ver­sale è oggi non solo un obiet­tivo uni­fi­cante per le lotte dei pre­cari e dei disoc­cu­pati, gio­vani e anziani, come dei lavo­ra­tori non più pro­tetti dall’articolo 18, ma una con­di­zione per poter imporre scelte pro­gres­si­va­mente sem­pre più libere su come e dove lavo­rare, e per quanto tempo, e se sotto padrone o per pro­prio conto, e per fare che cosa; cioè per tra­sfor­mare il lavoro in un’attività più libera. Che è ciò che appros­sima mag­gior­mente, in un con­te­sto in cui par­te­ci­pa­zione e con­flitto si intrec­ciano senza solu­zione di con­ti­nuità, la società che vogliamo e che abbiamo il com­pito di pro­porre a tutti.

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