Voto ‘inutile’ e malinconia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 21 novembre 2017

Già lo vediamo, e crescerà sino al parossismo. Saremo bombardati dal ‘voto utile’. Da associare al Pd per non far vincere la destra, o al M5S. Per lo stesso motivo. E se consideriamo che per le destre siamo sempre quel fantasma da esorcizzare, contro di noi sarà blaterato un malleus maleficarum senza fine. Diabolizzati, reietti, irrisi e maledetti. All’unisono. Una litania che proseguirà sino a che non saremo stati interamente rimossi e consegnati per sempre alla damnatio memoriae. Che peraltro già è in atto come una concausa dell’astensionismo.

Ma nel coro generale del ‘voto inutile’ dato alla sinistra ci sono (e saranno) anche amici e compagni della diaspora. Non parlo dei narcisi che ogni volta si avvicinano solo per abbandonarsi al beau geste facendo saltare il tavolo in nome della loro presunta ‘purezza’ o ‘superiorità’. Gli indùsinistri della società civile, quei sedicenti radico-bramini che dissimulano la loro inconsistenza denunciando il contagio coi paria politicanti. Ma di quelli che invitano a ‘saltare un giro’, ad astenersi,o a votare scheda bianca, rilanciando un’idea della sinistra come pura pratica sociale o costruzione di una perfetta welthanschauung. Atteggiamenti affioranti in tutta la lunga storia della sinistra, ma che qui si ri-presentano potenziati dalla grande crisi fiduciaria, introiettata come una condizione esistenziale che involve lo spirito e ogni sua aspettativa.

E’ la condizione dolente che consegue a una irredimibile delusione, la sofferenza per un legame andato reciso. Vissuta la quale ogni re-ingaggio, proprio come nelle relazioni amorose andate in frantumi, è temuto come fonte di ulteriori sofferenze. In realtà, come nella sindrome melancholica, questa disposizione, che pure ha cause reali e incontrovertibili, non è che la proiezione in chiave colpevolistica di una sostanziale sfiducia nelle proprie capacità affettive e razionali, cioè orientate alla costruzione di nuovi legazmi politici.

Una malattia che induce non a praticare le rivendicate strategie ‘autentiche’, di re-insediamento sociale o di ordinamento teorico-progettuale, ma alla chiusura nel proprio mondo, al solipsismo. Una solitudine che però non si vive pacificamente per sè, come placata condizione eremitica, ma deve essere rinfacciata ossessivamente alle persone o alle istanze rispetto alle quali è intervenuta la rottura fiduciaria. Una invocazione ad essere ascoltati nelle proprie rimostrane In un nevrotico rapporto di dipendenza. E qui, per venire a capo della questione producendo una guarigione, non basta certo una lista, e men che meno Recalcati. Ci vorrebbe un partito. Una autorità dura e inflessibile.

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