Il voto del 4 marzo e il percorso da riprendere

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 7 marzo 2018

In molti si sono lanciati in queste ore in una analisi del voto e della sconfitta. C’è modo e modo di fare questa analisi. Si può puntare soprattutto l’aspetto sociale, la difficoltà di rappresentare il malessere e la precarietà, di porre ascolto e dare voce ai marginali, a chi è stato colpito dalla crisi, ecc. E di esprimere una politica che fosse ‘maschera’ di questo disagio sociale, vi si gettasse a capofitto, quasi lo mimasse, quasi la politica dovesse operare la metamorfosi di diventare sociale essa stessa, assumendone i caratteri, dandogli voce in termini immediati. Tutto giusto, tutto quasi doveroso. C’è poi, però, un aspetto ‘politico’ della sconfitta, altrettanto urgente. Che per molti si riduce alle colpe del gruppo dirigente ex PD, e alla sua presunta “impresentabilità”. A esser seri questo capitolo ‘politico’ è persino più rilevante di quello sociale, e di sicuro non riducibile alla narrazione su “Bersani e D’Alema”. Che cosa è accaduto in questi anni e, ancora, in campagna elettorale? Questo: la definizione tout court delle ‘alleanze’ quali ‘inciuci’, con un foga identitaria, puristica, che si è accompagnata alla dichiarazione unanime sull’impossibilità purchessia di fare ‘accordi’ anche parlamentari. Si è creata una legge per 2/3 proporzionale, ma si è narrato, come corollario, che le alleanze sarebbero state una sorta di tradimento ai danni dell’elettorato. Ed è stato come tagliare il ramo su cui si sedeva. Ovviamente, si negavano le alleanze ma poi si facevano inciuci, quelli veri, nelle segrete stanze (dal patto del Nazareno, a quello Renzi-Berlusconi per una Grosse Koalition alla amatriciana, all’accordo pattuito nel centrodestra, solo elettorale e finto come una crosta di pittura) da onorare dopo il voto in Parlamento. Tra uomini veri. Eh!

Questo ‘dagli all’inciucio’ ha prodotto quel che ha prodotto: ossia l’imbarazzo generale dinanzi alla necessità di un accordo per assicurare una guida e un governo del Paese. “Non si era mai visto un dopo elezioni in cui nessuno dei vincitori reclama per sé la guida del Governo”, ha scritto Francesco Verderami sul ‘Corsera’ di oggi. Donde questo impaccio? Dalla cultura politica (o meglio, antipolitica) promossa in questi anni di Seconda Repubblica, quella degli sbiaditi contenitori di centrodestra e centrosinistra, confezionati prima delle elezioni, con l’annesso tabù di non poter avviare, eventualmente, alcun tipo di accordo parlamentare successivo (definito tout court ‘tradimento’). Un tabù tale da produrre, ovviamente, un esercito di ‘responsabili’ e ‘uomini di buona volontà’ pronti a tappare le falle rappresentative del sistema, nonché a speculare sulla rigidità dei suoi protagonisti. Una spinta identitaria e puristica, ma senza più i partiti in campo: questo è il paradosso che scontiamo! La campagna elettorale appena conclusa ha riprodotto questo atteggiamento, seppure in presenza di una legge proporzionale che stimolava, al contrario, la possibilità di accordi alla luce del sole in base al risultato elettorale conseguito da ogni forza politica. Ciò dà l’idea di come siano miopi e sciocchi gli attuali protagonisti e gli attuali leader, che puntano a trarre il maggior vantaggio in termini di consenso dalla esibita ‘purezza’ politica, ma poi ne pagano le amare conseguenze nella prassi politica e istituzionale. Aver sparato sulla democrazia rappresentativa, inanellando una serie di leggi maggioritarie che hanno spezzato le reni ai partiti, aver puntato tutto sulla comunicazione e sui ‘leader’, aver infangato il nobilissimo concetto di ‘mediazione’ (politica, culturale, sociale, persino linguistica), oggi sospinge tutti verso il baratro, con grave nocumento per la democrazia in generale.

Veniamo a noi. La sinistra democratica, quella radicalmente riformista, LeU per dire con il suo milione di elettori, che invece fa (o dovrebbe fare) della mediazione, del gioco parlamentare, delle alleanze sociali, del rispetto istituzionale, della rappresentanza e della partecipazione organizzata la sua base politica e culturale, in questo mare magnum di politici ‘sparapugni’ e di elettorato che ritiene la dialettica politica un vergognoso ‘inciucio’ e la democrazia rappresentativa, quella dei partiti, una zavorra, si trova clamorosamente a disagio. La sua nicchia di mercato elettorale si è obiettivamente ristretta (era di un milione di voti nel 2013 con SEL, è tale e quale oggi con LeU). La sua capacità di mediare e di indicare l’interesse generale del Paese si scontra con uno spazio politico ridotto a palestra, anzi a campo di calcio. Eppure Dio sa quanto mediazione e rappresentanza sarebbero indispensabili a ristabilire più giustizia, maggiore equità, più partecipazione organizzata. Hai voglia a fare la lista delle omissioni e degli errori, come ogni brava analisi della sconfitta dovrebbe fare, quando poi si sta giocando un ‘gioco’ sempre più complicato, in cui sconti un progressivo disagio politico!

Non voglio dire che il 4 marzo non si potesse far meglio, anzi. Voglio dire che per fare qualcos’altro (che sia ‘meglio’ non so) serviva forse, in campagna elettorale, un diverso posizionamento oppure entrare nel coro antipolitico e populista che ci sovrastava e persino competere con esso (con la destra, con il movimentismo populista) a pari livello. Ma dovevamo esserne, in entrambi casi, molto consapevoli. Essere sinistra identitaria (ancorché democratica e radicalmente riformista) implica la possibilità che si possa anche divenire una ‘ridotta’, che si divenga pochi ma buoni, magari buonissimi. E che questa possa essere, però, la base per una ripartenza. Oggi, ripeto, LeU è di fatto titolare di una nicchia di mercato politico attualmente circoscritta, ma una volta più ampia. Per cui va tutto bene, per carità, anche la legittima difesa dello spazio conquistato. Purché lo si sappia e si operi di conseguenza. Coerentemente. È il dilemma, in fondo, a cui oggi siamo tutti davanti, al di là dell’analisi che ognuno di noi possa opporre della sconfitta. Si dovrà scegliere, al dunque, tra un nuovo riposizionamento, oppure accettare la sfida antipolitica contro gli antipolitici, o puntare sul mantenimento e sulla difesa dello spazio (oggi circoscritto rispetto a quanto fosse un tempo) che già occupiamo. Qui, dinanzi a questo ‘trivio’ si deve scatenare, secondo me, il dibattito politico e, possibilmente, dipanare il percorso congressuale del futuro Partito del Lavoro. È il modo migliore per rispondere alla domanda politicissima: che fare?

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.