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di Luca Billi, 01 giugno 2017
Giovedì 8 giugno ci saranno le elezioni politiche nel Regno Unito. Ve lo ricordo perché di questo appuntamento elettorale in Italia si parla assai poco. Eppure di solito ci raccontano tutto delle elezioni degli altri paesi: anche perché a noi non ci fanno votare e quindi ci lasciano sfogare facendo il tifo in quelle degli altri. Da mesi sappiamo che a settembre si voterà in Germania e sulle elezioni francesi – e su Macron in particolare – ci hanno travolto di notizie: la signora Brigitte è diventata un argomento ricorrente dei giornali italiani. Della perfida Albione invece nulla o quasi; è come se ci fosse una Brexit di fatto: se loro non vogliono stare in Europa, neppure noi vogliamo loro, anzi facciamo già come se non ci fossero.
Io – ormai lo sapete – sono un malpensante e credo che non ci parlino del voto inglese di proposito, e non per una meschina rivalsa nazionalista. Non ce ne parlano per almeno due buone ragioni.
La prima è proprio perché c’è questo voto. Il 18 aprile scorso il primo ministro del Regno Unito Theresa May ha annunciato che sarebbero state indette le elezioni anticipate, perché era consapevole che il suo governo, nato dopo la sconfitta di David Cameron al referendum sulla Brexit, era indebolito dal fatto di non avere una legittimazione elettorale. Immagino che May – che non è esattamente un’educanda – voglia usare queste elezioni anche per far crescere il proprio potere all’interno del suo partito, regolando alcuni conti in sospeso, comunque è giustificabile che di fronte alla difficile trattativa con l’Unione europea serva un governo che goda di una piena legittimazione politica. E dopo meno di due mesi dall’annuncio i cittadini sono chiamati al voto.
Evidentemente è possibile. Da noi trovano sempre qualche scusa per non fare le elezioni: la finanziaria, un vertice internazionale, il giubileo, l’expo, il compleanno della nonna del presidente del consiglio; e poi arrivano le vacanze e se ne riparla dopo qualche mese. In una democrazia parlamentare votare non è un trauma; certo non si può votare ogni sei mesi, ma non è nemmeno giustificabile l’allarme con cui gli organi di informazione annunciano le elezioni. Alla notizia che forse si farà l’accordo sulla legge elettorale è cominciato il fuoco di sbarramento delle notizie catastrofiche: il crollo della borsa, le speculazioni internazionali, il terremoto! l’inondazione! le cavallette! No, votare si può, in alcuni casi si deve. E lo si può fare in poco tempo, con scarso preavviso, anche durante un vertice e anche prima della scadenza naturale della legislatura, se questo serve. E non ci sono ragioni che possano giustificare questo continuo rimandare le elezioni.
L’altro motivo per cui non parlano delle elezioni del Regno Unito è che il principale antagonista del partito conservatore è il Labour di Jeremy Corbyn. Anzi il Labour potrebbe perfino vincere: è difficile, ma non impossibile. All’annuncio del voto questa possibilità sembrava francamente remota, mentre ora i sondaggi – di cui non possiamo fidarci troppo né allora né oggi – dicono che è sempre meno improbabile. Comunque sia il Labour di Corbyn è uno dei due più grandi partiti del Regno Unito. Se si parla di quelle elezioni bisogna per forza parlare anche di Corbyn, che non è rassicurante come Schultz, che in fondo è una Merkel con la barba, o come quei socialisti la cui bandiera è così sbiadita da farci dimenticare che un tempo è stata rossa.
Non ci parlano volentieri delle elezioni inglesi, perché al di là di come andranno, Jeremy Corbyn rappresenta un passaggio storico, perché grazie a lui la sinistra europea, in uno dei paesi più grandi e importanti del nostro continente, riacquista il suo vocabolario, che avevamo perduto in questi vent’anni. Il “vecchio” Corbyn all’improvviso ci ricorda che la sinistra esiste ancora e non in qualche remoto angolo del mondo, ma a Londra, in una delle città più moderne del pianeta.