Via dall’Italia, via dal vento

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Nicola Boidi

 di Nicola Boidi

Una decina d’anni fa Marco D’Eramo scrisse un libro/reportage sul suo viaggio nei Stati sudisti degli Stati Uniti d’America che aveva lo scopo d’indagare e osservare da vicino come quel mondo, che presentava ancora i tratti regressivi e conservatori dei tempi della guerra civile americana 1861-1865, ugualmente avesse assunto un ruolo così importante e decisivo per le sorti dell’establishment politico-economico dell’intera nazione, e di riflesso per le sorti del mondo (eravamo nell’«era della guerra infinita e della giustizia infinita» dell’amministrazione Bush Junior). Il titolo del saggio/ reportage era Via dal vento, che nel fare il verso al celebre colossal cinematografico hollywoodiano sulla guerra civile americana, indicava che quella realtà, il vento «nuovo/vecchio» che soffiava sul Paese allora, andava indagato e osservato da vicino per essere compreso ma, allo stesso tempo, tenuto a distanza per non essere assimilato, «fatto proprio», per non venire travolti da quel «vento».

Un analogo stato d’animo mostrano – in articoli, lettere o contributi, pubblicati pressoché quotidianamente su giornali cartacei o on line – quei cittadini italiani che osservano il «vento» di casa nostra oramai da lontano, da fuori, dall’estero, o quegli altri, che spesso appartenendo alla stessa categoria generazionale o professionale dei primi, sono costretti tutt’ora a viverlo e a subirlo da vicino, «dall’interno del cortile di casa nostra». I primi sono coloro che «ce l’hanno fatta», che hanno avuto la forza, la volontà, il coraggio o semplicemente la fortuna di non rassegnarsi e andare «a cercare fortuna» all’estero, per realizzare le loro legittime aspirazioni professionali ed esistenziali che qui rimbalzavano contro un muro di gomma. Sono la gran parte di quei emigranti under 40 (approssimativamente 60.000) che ogni anno lasciano l’Italia, di cui si stimano che almeno 45.000 siano laureati. Essi costituiscono la cosiddetta categoria dei «cervelli in fuga».

Gli altri, la seconda categoria di coloro che lasciano per iscritto la loro testimonianza ai giornali, sono invece i «resistenti» (che a volte coincidono con i «rassegnati») che per le più svariate ragioni, pur avendo le stesse qualifiche e classe d’età del primo gruppo, sono rimasti qui, nel Belpaese, a subire tutte le conseguenze del percorso ad ostacoli, delle privazioni, spesso umiliazioni e mortificazioni, che il mercato del lavoro in Italia esige come tributo per l’accesso a una professione qualificata. Sono «aspiranti» avvocati, architetti, medici, farmacisti, ingegneri, giornalisti, ricercatori universitari, insegnanti, fisici, geologi,biologi, etc..

 Accanto a queste due categorie «segnate » dal nostro sistema economico e sociale, ne esiste una terza, forse quella dalla condizione più sofferente e drammatica,la categoria di coloro che hanno avuto modo di compiere un buon tratto di un percorso professionale ed esistenziale – persone dunque ormai giunte nel’«età della maturità», quarantenni/cinquantenni – ma che di colpo, alla prima folata del «vento della recessione globale», si sono ritrovati disoccupati – cassintegrati nella migliore delle ipotesi – o rigettati nella giungla dei contratti di lavoro a tempo determinato, la famosa legge 30 sul lavoro, erroneamente ribattezzata Legge Biagi in modo non innocente dai suoi promulgatori, nella peggiore, con l’enorme difficoltà di rimettersi in gioco su un mercato del lavoro schizofrenico qual’è quello italiano.

Tutte e tre le categorie presentano un’alta percentuale di persone a elevato tasso di scolarizzazione e qualificazione (laurea), e tutte tre le categorie – che per comodità chiameremo, senza voler essere irrispettosi, rispettivamente «cervelli in fuga», «cervelli resistenti » e «cervelli smarriti» – hanno avuto a che fare con il «vento nuovo / vecchio» del nostro sistema economico-sociale. Il «vento di novità» alla nostra economia lo ha apportato l’«uragano» della crisi economico -finanziaria del 2008, e questo è andato «lietamente» a braccetto con l’antico «main stream» delle corporazioni, delle lobby, delle posizioni di rendita e di privilegio pietrificatesi ormai nel corso dei decenni; una «corrente » che reggeva sotto il regime della liretta, che era già in sofferenza pronunciata nella stagnazione dell’economia nazionale congiunta al lancio nella competizione comunitaria dell’euro, e che non poteva che scompaginarsi sotto i colpi della recessione globale.

Se leggiamo i resoconti dei neo-emigranti ad alta qualificazione dall’estero vi troveremo un misto di  rimpianti per l’Heimat perduto (la patria intesa come lingua madre, cultura condivisa, costumi, abitudini, cerchie di parenti ed amici, relazioni sociali in genere, etc.) e di sollievo per essere «via dal vento» della selva di regole dei contratti di lavoro, o degli ordini e album professionali, «precondizioni» di accesso al lavoro diventate oggettivamente insostenibili e incommensurabili alle condizioni di approdo di questa «emigrazione intellettuale». Proprio l’incommensurabile confronto evidenzia che, se l’«acclimatazione» all’estero non è semplice, perlomeno in quel «altrove da casa» vi sono regole certe ed eque di accesso alle professioni, contratti di lavoro non vessatori, riconoscimento e valorizzazione delle qualifiche e competenze professionali, anzi in molti casi una loro «avida» ricerca, e paracaduti di sostegno sotto forma di ammortizzatori sociali in caso di difficoltà temporanee d’impiego.

Da quel confronto si palesa e contrario, in termini ancora più forti, che qui da noi «tira proprio una brutta aria» sotto le forme della precarizzazione del lavoro, della mancanza di protezioni sociali, della possibilità di versamenti di contributi pensionistici modesti e della conseguente prospettiva di una pensione di fame. In Italia sotto l’effetto della crisi mondiale tra il 2010 e il primo semestre 2013 si sono persi un milione di posti di lavoro under 35 (il 15% della categoria anagrafica, da 6,3 milioni a 5,3) con il calo del tasso di occupazione relativo dal 45,9% al 40, 4%, e se allarghiamo lo sguardo vediamo che tra il 2011 e il 2013 hanno chiuso 74.500 negozi o esercizi commerciali, con la perdita di circa 325.000 posti di lavoro, in particolare nei settori dell’abbigliamento, dei bar, della ristorazione e dei negozi specializzati nell’arredamento (beni evidentemente non considerati strettamente primari ma voluttuari). Il tasso di occupazione generale è passato nello stesso periodo dal 65, 9 al 60, 2% ( era il 70, 1 % nel 2007). L’imbuto nell’occupazione è causato in parte dalla stretta sull’accesso alla pensione che ha tenuto al lavoro i più anziani (nel triennio considerato il tasso di occupazione per i lavoratori tra i 55 e i 64 anni è passato dal 36,6% al 42,1%) e in parte dal generale calo dell’occupazione nelle imprese private e dallo stop delle assunzioni nell’impiego pubblico.

In un Paese in cui, per la prima volta nell’anno accademico 2010/2011, gli iscritti all’università sono 288.000, 6.400 in meno dell’anno precedente, (2,2%) la punta di un trend negativo nelle immatricolazioni iniziato nell’anno accademico 2004/2005, che a sua volta si accompagna all’annosa questione italiana del basso tasso di laureati rispetto al numero delle iscrizioni – il 15,1% tra gli uomini e il 22,6% tra le donne per le lauree specialistiche e rispettivamente il 25, 5% tra gli uomini e il 37% tra le donne per le lauree brevi, triennali – i laureati di nuovo conio o di antico corso vanno spesso e volentieri incontro a un destino di precarizzazione o di disoccupazione.

Un comune sentire emerge dalle testimonianze sui blog o nelle lettere aperte indirizzate ai giornali. Così per l”informatico «frontaliero» trasferitosi a vivere con la famiglia sul confine con la Svizzera, che una volta perduto il proprio lavoro da informatico dei cyber crime (crimini informatici) in Italia – specialità forense in grande sviluppo e con sempre maggiore importanza – ha trovato lavoro in Svizzera con un adeguato stipendio, tutele sociali e un mercato aperto di opportunità. O per il giornalista disabile (non vedente), impossibilitato a svolgere la sua professione in Italia presso la Rai, e che ha conosciuto, tramite master, nuove opportunità di collaborazioni nel suo campo, con possibilità sia di contratti a tempo indeterminato che di lavoro come free lance, prima a Bruxelles e poi presso la Bbc di Londra.

O per il giovane brillante architetto che insoddisfatto della mansione lavorativa – lavoretti ad ore, responsabilità ridotte all’osso, salari da fame, una gavetta procrastinabile sine die – a cui era destinato nello studio di architettura italiano, si lancia, sempre tramite master, in un progetto in industrial design nella megalopoli brasiliana di San Paolo. O per la laureata in Beni Culturali presso l’università Ca’ Foscari di Venezia che approda a Parigi dove trova un lavoro all’altezza delle sue aspettative senza alcun appoggio da parte della sua università. Questo comune sentire appartiene anche al racconto dell’ingegnere edile approdato a Monaco di Baviera (più di 1000 nel 2012 gli italiani giunti nella capitale della Baviera di cui la maggior parte tra i 21 e i 36 anni) alla ricerca di una regolarizzazione e stabilizzazione nel contratto di lavoro da lui ritenute impercorribili in patria. Infatti dopo aver lavorato per alcuni anni per lo stesso titolare dell’impresa e prima di essere licenziato, negli ultimi sei mesi non ha percepito stipendio. Percepiva uno stipendio di 900 euro al mese e viveva a casa dei genitori. O ancora all’architetta ventisettenne inviata a fare praticantato a Monaco ma che poi ha deciso di rimanere lì.

In che cosa consiste questo comune sentire? Nella constatazione che in Italia manca un governo generale dei processi economici e sociali, mancano delle direttive politiche precise che regolamentino il mercato del lavoro, manca il riconoscimento del merito, così come mancano dei diffusi costumi civici che li supportino. Si osserva che in generale vige la logica dello sfruttamento: appena uscito dall’università lavori perché costi poco, ma quando hai accumulato troppa esperienza, non puoi più venire sfruttato come si vorrebbe; di conseguenza troppi talenti in Italia, nelle imprese così come nelle università, rimangano inoccupati o sottoccupati o parcheggiati, e qui da noi le risorse umane non vengono adeguatamente valorizzate, sono destinate a lavori di ripiego e non utilizzate in tutto il loro potenziale. Non stupisce dunque che questo sentimento diffuso tra i «nuovi emigranti» trovi una sua conferma e accentuazione «dall’interno», in quei recenti sondaggi che ci dicono che il 51% dei giovani intervistati sono pronti a lasciare l’Italia per motivi di lavoro, e che anche il 47% dei giovani che hanno un lavoro non lo trovano soddisfacente e sarebbero pronti a lasciare il paese, e che ben il 73% dei giovani ritiene che l’Italia non possa offrire un futuro. Una potenziale emigrazione di massa.

La «tagliola» che cattura una parte rilevante di questa «classe lavoratrice» ad alta qualificazione e tasso d’istruzione (e che riguarda circa il 28 % dei laureati) è predisposta tra i regolamenti di accesso ai 27 ordini o album professionali, le «libere professioni» esistenti in Italia (oltre ai tradizionali ordini di avvocati, medici, farmacisti, notai, architetti, anche veterinari, infermieri, giornalisti, geologi, tecnici di radiologia, biologi, agronomi, consulenti del lavoro, agrotecnici, guide alpine, periti agrari, assistenti sociali, tecnologi alimentari, commercialisti, consulenti in proprietà industriali) da una parte, e la legislazione sul lavoro temporaneo in vigore dal 2003 – la legge 30 sul lavoro – dall’altra parte.

Normalmente le regole di accesso agli ordini professionali dovrebbero servire a un ‘importante e imprescindibile funzione: a regolamentare mercati «anomali», «asimmetrici», in cui l’informazione di cui il consumatore,cliente o paziente, ha necessità per accedervi è detenuta da un solo attore del rapporto commerciale, il venditore del servizio. Per scegliere un avvocato per una causa o un medico per una diagnosi e terapia, se non si ha la possibilità di verificarne direttamente le credenziali o se non si conosce qualcuno che ha usufruito direttamente dei suoi servizi, gli ordini professionali danno una certificazione in anticipo che l’operatore di quel servizio soddisferà le esigenze dell’utente, garantirà che il professionista abbia uno specifico titolo di studio, abbia sostenuto un esame abilitante, abbia svolto un tirocinio adeguato, e che si conformi a un codice deontologico. La funzione degli ordini professionali dovrebbe dunque essere quella di proteggere il consumatore, escludendo dal mercato tutti i professionisti non degni di tale nome.

Tale funzione fondamentale degli ordini professionali viene però spesso e volentieri distorta dal suo fine e usata strumentalmente per ridurre la competizione sul mercato e restringere l’offerta dei propri iscritti. Questo «costume » diffuso finisce per squalificare la funzione stessa dell’ordine e per favorire gli interessi di lobby. La distorsione si attua già a partire dall’applicazione dei regolamenti degli esami di accesso alla libera professione. Le regole di accesso comuni a tutti gli ordini contemplano: 1) un test d’ingresso subordinato al titolo di laurea o al diploma; 2) l’obbligo di svolgere corsi di specializzazione a pagamento e dei tirocini; 3) il controllo del numero dei professionisti abilitati ad accedere (per alcune categorie tra cui notai e farmacisti); 4) codici di deontologia professionale estremamente restrittivi.

Emerge in modo singolare che:

1) il test d’ammissione agli ordini in Italia è giudicato dagli stessi membri dell’ordine della città nella quale si richiede l’iscrizione all’albo (un evidente conflitto d’interessi in giudici che devono decidere del destino di loro futuri potenziali concorrenti). Vi è inoltre una anomala variabilità nella percentuale di superamento dell’esame da sede a sede.

2) Se i corsi di specializzazione a pagamento sono pressoché obbligatori ma non vi è alcun obbligo di retribuzione o adeguato indennizzo per i tirocini che i praticanti svolgono presso i loro datori di lavoro/formatori, già solo questo fatto seleziona e restringe molto il campo di coloro che possono accedere alla libera professione. Solo i rampolli di famiglie benestanti, in grado di sobbarcarsi tutte le spese, potranno svolgere la loro attività formativa, mentre per tutti gli altri si prospetta unicamente la possibilità /necessità di trovare un’altra attività lavorativa con cui mantenersi durante tutto il periodo di praticantato, che può avere una durata «indefinita». Inoltre la possibilità di avere manodopera gratuita porta spesso il datore di lavoro a non preoccuparsi eccessivamente della resa lavorativa e del lavoro di formazione del tirocinante (solo con un decreto legge del marzo 2012 del governo Monti è stato imposto che il tirocinio non possa durare più di 18 mesi e preveda un rimborso forfettario a partire dal sesto mese, sempre e comunque per una modesta cifra variabile tra i 300 e i 450 euro).

3) La restrizione del numero dei posti disponibili per accedere a una professione (notai e farmacisti su tutti) è fondata su criteri demografici e socioeconomici che determinano immeritate rendite di posizione di agenti economici che possiedono il diritto esclusivo sulla vendita di un servizio o un prodotto.

4) Per quanto riguarda i codici di deontologia professionale, un sistema che dovrebbe tutelare il cliente o consumatore finisce spesso e volentieri solo per ridurre la diversità dell’offerta professionale e per innalzare i costi per il consumatore, come è il caso del controllo delle tariffe minime, i cosiddetti «prezzi amministrati» decisi all’interno degli ordini.

Un altro fattore fortemente incidente nell’influire sull’avvio di una carriera nella libera professione è il ben conosciuto ruolo svolto dai legami familiari, e l’incidenza di questo fattore può essere intesa in un doppio senso. Se da una parte l’avere un familiare iscritto in un ordine professionale predispone ed «educa» una determinata persona a accumulare competenze specifiche fin dalla giovinezza, dall’altra parte però è molto diffuso il fenomeno del «familismo» per cui avere un genitore libero professionista semplifica «automaticamente » l’accesso a quell’ordine e predispone un notevole supporto nella formazione del portafoglio clienti anche a prescindere dalla presenza di un talento, di una predisposizione, di una «vocazione » della persona in questione a svolgere quella professione.

L’indice di indagine statistica Ics che rileva l’incidenza dell’eredità familiare nell’accesso alle singole professioni presenta valori generalmente alti nell’ambito degli ordini professionali, con prevalenza per le categorie dei medici, dei farmacisti e degli avvocati. Questo indice presenta valori d’incidenza molto più bassi là dove non esiste un ordine professionale specifico. Questi costumi «lobbistici» non sono però patrimonio esclusivo degli ordini professionali ma si estendono, come è ben noto, anche all’iter professionale di ricercatori e professori universitari, nel cui campo l’opacità dell’esito dei concorsi pubblici, spesso legata anche qui all’importanza del cognome portato, manifesta comportamenti palesemente devianti da una regola deontologica.

La «chiusura della morsa», valevole ormai oggi in modo generalizzato, tanto per i lavoratori cognitivi quanto per i lavoratori a basso tasso di qualificazione, è compiuta dalla riforma legislativa sui contratti di lavoro a tempo determinato entrata in vigore nel 2003: la famosa legge 30 sul lavoro.

Presupposto originario della legge formulata dal giuslavorista Marco Biagi agli inizi degli anni duemila era che la flessibilità in ingresso del mercato del lavoro si presentava come lo strumento migliore, nella congiuntura economica del momento, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro, per rispondere meglio alle esigenze del mercato del lavoro globalizzato, attraverso la proliferazione di nuove figure professionali (i cosiddetti contratti atipici di lavoro), e che la rigidità del sistema crea spesso alti tassi di disoccupazione. Dunque una generale riduzione del tasso di disoccupazione in Italia, il beneficiare di sgravi fiscali nonché un maggiore fattore di ricambio del personale da parte delle aziende, avrebbero dovute essere, secondo i suoi fautori, gli effetti positivi dell’introduzione delle tipologie contrattuali previste dalla legge 30 sul lavoro. La previsione allora era che con il passare degli anni quei contratti a tempo determinato avrebbero avuto la tendenza, almeno per un 70% dei casi, a tramutarsi in contratti a tempo indeterminato.

Ma alcune caratteristiche differenzianti la legge 30 o legge Maroni dal nome del suo primo firmatario, l’allora ministro del lavoro del governo Berlusconi, rispetto alla legge originaria sui contratti di lavoro a tempo determinato promulgata da Treu, il ministro del lavoro del governo Prodi, nel 1997, avrebbe dovuto far suonare un campanello di allarme su queste previsioni ottimistiche. L’allora legge Treu, sotto la sigla di Co.Co.Co. («collaborazione coordinata continuativa») prevedeva infatti la possibilità di assunzione sotto la forma di lavoro di collaborazione a tempo determinato ma con tutte le garanzie del lavoro a tempo indeterminato: ferie, malattia, permessi di maternità. Inoltre nel suo progetto originario di legge il giurista del lavoro Marco Biagi prevedeva una parte relativa agli ammortizzatori sociali, primo fra tutti l’estensione generalizzata del sussidio di disoccupazione e le politiche attive in favore dei disoccupati in cerca di nuova occupazione.

Di tutto questo nella Legge 30 o Legge Maroni effettivamente promulgata nel 2003 non è rimasto nulla. Della numerosa tipologia di contratti previsti dalla legge 30 – 1) somministrazione, 2) apprendistato, 3) contratto di lavoro ripartito, 4) contratto di lavoro intermittente, 5) lavoro accessorio, 6) lavoro occasionale, 7) contratto a progetto, 8) contratto di lavoro a chiamata – le aziende si sono limitate ad utilizzarne solo alcune e tra queste in particolare il Co.Co.Pro. («Collaborazione coordinata a progetto») che nella legge 30 è venuta a sostituire il Co.Co.Co. di Treu. Questa tipologia di contratto prevede l’indicazione della tipologia dell’assunzione, lo scopo e l’osservanza della durata del contratto, ma abolisce ogni forma di diritti del lavoratore; anche i versamenti pensionistici non hanno un ugual valore di quelli di un lavoratore a tempo indeterminato. Tale tipologia di contratto inoltre è spesso abusata, poiché non prevede né un periodo di prova, né un percorso di formazione professionale, che porti ad un’assunzione a tempo indeterminato. Il lavoratore rimane un precario cronico senza partecipazione alla gestione dell’azienda, senza formazione e senza possibile progettualità di vita.

Altre forme di precariato permanente istituzionalizzate dalle tipologie contrattuali previste dalla legge Maroni sono il lavoro interinale o «in affitto» e il lavoro intermittente. Sono poi esplose forme di lavoro parasubordinato, quelle della flessibilità delle partite Iva utilizzate all’interno delle aziende, gli stage che diventano sostituzioni del lavoro, le forme improprie di collaborazione, tutte modalità utilizzate dalle aziende per ridurre il costo del lavoro. Sullo sfondo della dualità tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari del mercato del lavoro italiano si staglia poi l’assoluta mancanza di «paracaduti» di forme universali di ammortizzatori sociali e un meccanismo per niente agile di reinserimento nel mondo del lavoro una volta perso l’impiego precedente. In generale nel mercato del lavoro italiano le retribuzioni e i livelli di qualifica sono inferiori al livello d’istruzione crescente delle ultime generazioni, oltre ad essere inferiori alle retribuzioni dei colleghi addetti alle medesime mansioni professionali assunti con contratti a tempo indeterminato.

La recente proposta di riforma del mercato di lavoro – il cosiddetto Job act del governo Renzi – non sembra aver apportato alcuna miglioria sostanziale alla Legge 30, anzi nel suo carattere unanimemente riconosciuto come confuso e pasticciato, pare averla aggravata. Da qui il suo destino di « essere sedata» e differita sotto cumuli di centinaia di emendamenti a cui il progetto di legge è andato incontro, e nel cui stato attualmente giace, nelle discussioni nei due rami del parlamento.

Questa «selva oscura» davanti a cui si trovano i lavoratori precari ha anche un forte potere deterrente nel dissuadere già in partenza coloro che vorrebbero intraprendere una determinata carriera professionale dal perseguire quella strada, se non si ha una famiglia alle spalle in grado di supportare, persuadendo che è meglio accontentarsi di percorsi meno impegnativi ma anche meno gratificanti.

Nelle condizioni date a questa emigrazione di massa intellettuale non vi è ovviamente alcuna corrispondenza in ingresso in Italia di altrettanta forza lavoro ad alta qualificazione, con un conseguente impoverimento delle nostre classi dirigenti presenti e e future. Tante risorse spese dalla collettività oltre che dagli individui per formare ai massimi livelli rappresentanti delle più svariate categorie professionali vanno così dissipate con una leggerezza e noncuranza delittuose.

Questo trend di «fuga dal vento » di casa nostra potrebbe essere invertito solo se delle profonde riforme portate avanti dalla classe politica e supportata dalle parti sociali di questo Paese fossero messe in campo. La necessità di riforma delle regolamentazioni degli ordini professionali chiama in causa a sua volta una profonda necessità di riforma delle leggi sul lavoro; ma la loro combinazione a loro volta, a cascata, pone l’istanza di un urgente riforma del sistema degli ammortizzatori sociali. Quest’ultimo però richiede un adeguato e ingente reperimento di risorse finanziarie da parte dello Stato, il che non può che passare da una profonda riforma del sistema fiscale.

Ogni elemento vive e agisce solo in stretta interrelazione e interdipendenza con gli altri elementi del sistema, in una rete che il modello della linguistica esteso ad altri campi disciplinari, e che ha conosciuto un importante successo nella cultura del novecento, chiamava «struttura». Ogni problema e ogni concetto applicato ad esso per comprenderlo e risolverlo, ogni idea, come suggerirebbero i filosofi Walter Benjamin e Theodor Adorno, si accende e s’illumina solo nella «costellazione di concetti» che si relazionano e raccolgono intorno al primo, si stratificano in esso.

Se vogliamo, semiologia strutturalista e filosofia dialettica del pensiero in costellazione offrono un importante variante dell’ermeneutica filosofica intesa quale «scienza dell’interpretazione dei segni» troppo spesso in senso «esoterico» («segreto») e ontologico. Un ‘altra ermeneutica, un’altra scienza dei segni, un’«ermeneutica storica» o «delle scienze sociali» se vogliamo, è invece proprio quella che pur sprofondandosi come analisi e «alienazione» dello studio nei singoli e specifici problemi economici, sociali, politici, culturali, e dei loro riflessi a livello della psicologia soggettiva, con l’uso di tutti gli strumenti e i dati oggettivi più aggiornati delle singole discipline, ricava il senso o il significato dell’indagine solo da un quadro d’insieme, «strutturale» o per «stratificazione dialettica e analogica di concetti», dell’oggetto indagato. Ma, come suol dirsi, questa digressione di carattere teorico-speculativo è «un’altra storia» rispetto al discorso che qui si è inteso svolgere.

 

 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

 Saggi :

 Emanuele Ferragina, Chi troppo, chi niente, Bur Rizzoli, Milano 2013,

 Tito Boeri, La crisi non è uguale per tutti, Rizzoli, Milano 2009

 Tito Boeri, Un nuovo contratto per tutti, Chiarelelettere, Milano 2009.

Articoli :

Redazione Il fatto quotidiano: «Crisi, dal 2010 un milione di under 35 in meno al lavoro. E 75 mila negozi falliti», Il fatto quotidiano on line, 15 settembre 2013.

 Loretta Napoleoni : «Le falle della proposta di lavoro per i giovani», Il fatto quotidiano on line, 30 giugno 2013.

 Mario Portanuova: «Legge Biagi? Soltanto a metà. Il governo Berlusconi “dimenticò “ il welfare precario», Il fatto quotidiano on line, 19 marzo 2012.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.