di Francesco Bonicelli
Vengo io. La voce, ferma, decisa. Quella sera, l’attesa del quinto volontario per dare, come deciso, il cambio agli ostaggi, si prolungava troppo. Vengo io. A ripeterlo quasi insistente era “Giaculein u straul” che per la sua mansione di spazzino e becchino era spesso tenuto in disparte. La giacca di velluto a righe, quella buona, che aveva con sé, era il segno del suo voler partecipare; l’orgoglio di poter dire un giorno: “C’ero anch’io”. Così si era unito al gruppo. Poi il coro: “andumma c’andumma” come quando si voleva far brigata.
Posso ricordare il suo aspetto secco, asciutto, gli occhi neri, i capelli corti, i denti pochi, trasandato, sì, per nulla affascinante, odoroso di tabacco, qualche sera anche di vino, quando potevi vederlo dalla finestra della sua piccola casina, nelle sue larghe mutande a righe, lo sguardo perso, lungo i binari della stazione, guardando chissà dove, chissà quale treno perduto.
Lo avrò sentito parlare al massimo un paio di volte, compresa quella sera. Lui era sempre silenzioso e molti pertanto lo credevano stupido, com’è logico per chi invece non perde mai occasione per far prendere aria alla lingua. Personalmente, avevo un’idea mia, che Giaculein avrebbe parlato solo per una questione davvero importante. Mai si sarebbe pronunciato su cose come la religione, la guerra, la politica, i tedeschi, etc.
La lingua l’aveva persa, per così dire, quando era ancora giovane ma non così tanto che io non possa ricordare quel momento, quando la sua fidanzata era partita per qualche misteriosa ragione, che nessuno seppe se non, forse, lui. Lei piangeva, i suoi occhi erano liquidi, i suoi capelli morbidi, ricci e castani, nel vento. Lei non era di qui, era una forestiera, forse aveva dovuto semplicemente tornare a casa, forse seguire qualche imperscrutabile strada del Fato. Giaculein la guardava muto, imperturbabile. Lei gli lasciò il suo cane gatto, un cane dolce e mansueto, di razza bastarda, dal pelo lungo e bianco, che seminava un po’ dappertutto. Il cane quando era cucciolo era stato cresciuto da una gatta, la quale gli aveva insegnato tutte le arti e i comportamenti dei gatti, ma soprattutto a lavarsi in continuazione.
La ragazza, di cui non ricordo il nome, si buttò quindi sul primo treno, come trascinata, o meglio, schiaffata dalla mano del destino, facendosi promettere da Giaculein che l’avrebbe raggiunta. Le aveva risposto: “Il mio cuore parte già con te”.
Egli era rimasto lì, come di pietra e da Ponti non si era mai mosso.
Lui parlava con i morti. Sembrava conoscesse l’ora di ciascuno in paese, ma non la rivelò mai a nessuno. La morte arriva come un ladro nella notte. Giaculein con gran senso del dovere e tenerezza antica, di barbaro, seppelliva i morti, la sua pala era gentile e la terra sembrava leggera. Ogni volta bisbigliava qualcosa, fra i cinguettii e le lacrime del camposanto, mentre compiva quel suo gesto antico, che il nonno gli aveva tramandato.
Suo nonno, che era anche spazzino, proprio come Giaculein stesso, gli aveva insegnato anche che non è oro tutto quel che luccica e che ogni cianfrusaglia, carabattola, trovata per terra, lungo la strada o fra la rumenta, può tornare utile a suo tempo. Infatti il nonno gli aveva trasmesso un grande magazzino, una vecchia stalla vuota, un cimitero di pezzi apparentemente inutili di cose apparentemente inesistenti o estinte. Fatto sta però che ogni volta che qualcuno in paese aveva bisogno di un pezzo di ricambio per qualche vecchio strumento o vecchia macchina altrimenti da buttar via, andava a casa del Giaculein ed egli, senza dire una parola, né chiedere nulla in cambio, rifletteva a lungo e alla fine andava a colpo sicuro in un punto del magazzino, trovava e raccoglieva qualcosa, se lo passava fra le mani, lo mostrava, silenziosamente, religiosamente, riparava quel che c’era da riparare e con un cenno salutava.
Sono convinto che Giaculein avesse una sua propria concezione del mondo, della vita, degli uomini, finanche forse addirittura della politica, lo esprimeva con il suo non-so-che, vagava attraverso i giorni, sentendosi prossimo al niente, non trovando ragione perché il suo parlare dovesse essere qualcosa di più che un sì o un no, fatti muovendo la testa. Forse coscientemente, forse no, avvertiva il senso dello smarrimento dell’uomo, che di solito riempiamo di parole, per camuffare il terrore della vita, non della morte, il terrore dell’indeterminatezza che circonda le cose più importanti, sulle quali bisognerebbe avere solo il coraggio di tacere, vivendo, dimentichi, la pura vita.
Così Giaculein, stufo di guerra, ma malgrado tutto, non ancora stufo di vivere la sua vita qualunque, quella sera, facendosi aspettare un po’ per poter dare un’ultima occhiata alla ferrovia, spaventato, ma non esiste coraggio senza paura, non trovando una ragione sensata al suo gesto, poiché egli non era certo un eroe senza paura che trova l’unico senso del suo vivere nel voler perdere la propria vita a tutti i costi, ma intimamente felice di poter far tornare a casa un padre di famiglia, lui che invece non aveva nessuno, se non i ricordi, le carabattole e i morti che aveva già seppellito, messa la giacca di velluto a righe, l’unica che avesse, e pertanto l’unica buona, con passo deciso si avvicinò al gruppo, nessuno lo aspettava, sorprendendo tutti parlò: “Vengo io”.