Venezia, la peste e noi

per Gian Franco Ferraris

Anna Lombroso per il Simplicissimus – 21 luglio 2014

Sabato notte per una volta i veneziani si sono ripresi quel bacino di San Marco violato dal passaggio dei mostri infarciti dei forzati delle crociere.

Era la festa del Redentor che ricorda la fine della pestilenza, durata due anni dal 1575 al 1577, che provocò la morte di più di un terzo della popolazione della città, e l’edificazione per ordine del Senato veneziano   della Chiesa del Redentore quale ex voto per la liberazione dal flagello.

Non ci sono più le pestilenze di una volta, i veneziani ormai sono meno che nel 1577 e il Redentore deve aver distolto lo sguardo dalla città e dai suoi abitanti, che più che mai sono tenuti a salvarsi da soli dal contagio della volgarità, del profitto, dell’oltraggio alla bellezza, all’arte, alla storia.

Ma non sarà facile, se si pensa che le immagini del morbo sono condannate alla clandestinità. Le bellissime istantanee delle Grandi Navi che mastodontiche e sfrontate sfiorano la riva di San Marco, opera di uno dei più grandi fotografi italiani, Berengo Gardin, non hanno trovato ospitalità in nessun “contenitore” istituzionale della città e sono emigrate a Milano, dove hanno avuto accoglienza a Villa Necchi Campiglio grazie al Fai e alle sue campagne per la tutela dei Luoghi del Cuore.

Pare che Venezia non lo sia un Luogo del Cuore e nemmeno della Mente: la ragione latita da queste parti come altrove, e anche il coraggio. Le istituzioni veneziane – a parole contrarie ai cedimenti nei confronti dei corsari delle crociere – preferiscono una provvidenziale rimozione: che non si vedano i panni sporchi sotto forma di foto che mettono i brividi, che sembrano frutto della creatività di un tecnico degli effetti speciali dedicato al colossal/horror, con quei mostri che si stagliano insolenti, più alte della basilica, popolate di passanti svogliati e distratti, anche loro impudenti e irriguardosi. E che a loro volta fotografano per mantenere la memoria della loro superiorità collocati sul ponte più in alto, rispetto a quella che fu una superpotenza e che ora è condannata a meschina disneyland, che non vale la pena di visitare. Ci si passa, e via a bersi il moijto, sui bordi della piscina, cinguettando dallo smartphone: si abbiamo visto Venezia. È bella, ma non ci vivrei.

Non sarà facile tra scandali, risapute correità, sordide alleanze che escludono i cittadini e l’assennatezza in favore di decisioni e sistemi inderogabili, che si fondano sulla deroga primaria, se durante la visita pastorale a Venezia, ospitato dal partito che pare avere di più le “mani in pasta”, il supercommissario Cantone ha dovuto ammettere che le misure pensate per l’Expo di Milano non sono applicabili al Mose e al Consorzio, istituto interamente privato e che ha agito ed agisce in regime di libera e gioiosa esenzione dal sistema degli appalti, della gare, sia pure viziate, della concorrenza e della competitività. E suona ancora più patetica e impraticabile qui la soluzione ”lombarda”: esautorare i padroni e far continuare le opere alle maestranze in amministrazione controllata, il tutto senza interrogarsi se l’Expo, così come il Mose valgano e abbiano valso tanto sperpero, tanta dissipazione di denaro, lavoro e intelligenze, se non esista la possibilità di alternative e destinazioni più utili e coerenti con l’interesse generale.

Non sarà facile fermare le grandi navi, se adesso munificamente la città si apre ancora di più alle auto, si, come vorrebbero quei “foresti”, che a Piazzale Roma interrogano dalla loro vettura gli indigeni chiedendo che strada devono fare per andare a Piazza San Marco. Se per il nuovo terminal per l’arrivo del tram a San Basilio è arrivato anche il si, sia pure condizionato a prescrizioni di carattere ambientale, della Soprintendenza, con parere largamente favorevole al progetto predisposto dal Comune d’intesa con l’Autorità Portuale. Pronubo il sindaco decaduto per corruzione che per attuare l’accordo ha revocato il precedente piano regolatore generale di Santa Maria e San Basilio, modificando le destinazioni a uso e verde pubblico e residenziale delle zone interessate all’intervento e quell’organismo, insieme all’Autorità del Porto, che con agli armatori, è l’unico soggetto che gode davvero dei profitti del passaggio delle maxi navi, destinandoli a altri scavi, altri canali, altre ferite alla città, altri attentati alla laguna. Ed è probabile, che grazie al suo assetto istituzionale sia proprio il Consorzio Venezia Nuova ad occuparsi e a vigilare su quelle prescrizioni ambientali, a garantire così che quella cordata di padroni sciagurati, amministratori infedeli, controllori sleali, politici corrotti continui a operare indisturbata.

Tra le novità del progetto – sigillo sulla grande menzogna che racconta della riduzione del passaggio delle Grandi Navi in Bacino di San Marco – la realizzazione di un ottavo punto di attracco per le navi da crociera, condito da un accordo che propone che il Comune investa 15 milioni per finanziare un collegamento tramviario,   un nuovo approdo di fronte al nuovo terminal del tram e   un ponte pedonale sul canale della Scomenzera al servizio del porto passeggeri. Mentre generosamente l’Autorità Portuale ci metterà del suo – anzi del “nostro” – 24 milioni   costruendo un nuovo terminal da 28 mila metri cubi al posto del piazzale d’imbarco dei traghetti.

Non sarà facile, perché Venezia sembra proprio essere diventata il laboratorio sperimentale dell’esproprio delle città e della democrazia rappresentativa, dove si sviluppa l’humus che nutre le strategia della svendita del Bel Paese, facendo largo alle misure eccezionali, alle false emergenze che legittimano interventi urgenti, incontrollabili e incontrollati, dove si manipolano storia e tradizione di un luogo aperto a altri mondi, altre culture, altre novità e alla modernità per autorizzare brutture e oltraggi, quelli che sembrano nascere effimeri ma poi durano a oltranza, come i sacchetti di plastica che soffocano il mare, come il cemento sulle coste sarde, come dighe, ferrovie, ponti, esposizioni inutili che offendono territorio e buonsenso.

Sarà probabilmente destinato a queste icone della dinamica contemporaneità lo scatolone pensato dalla Fondazione di Venezia, mastodontico Museo del Novecento (9.200 mq, 100 milioni di euro di costo), “un polo culturale di nuova concezione,”, recita il sito istituzionale, “con un museo, spazi espositivi, una mediateca-archivio, aree per le attività didattiche e servizi al pubblico, che nasce per far conoscere il passato, comprendere il presente e avere fiducia nel futuro: sarà un luogo in cui rappresentare, studiare e interrogarsi sulla modernità e la contemporaneità”. E infatti simbolicamente la ditta vincitrice dell’appalto la Maltauro, una delle protagoniste dello scandalo dell’Expo, e chi più di quella adatta a essere innalzata a allegoria dei nostri tempi moderni.

La Fondazione, una propaggine della potentissima Cassa di Risparmio, si vanta di essere un soggetto autonomo, moderno e innovatore, un sistema “tuttofare” al servizio dello sviluppo civile del territorio veneziano, la cui missione è favorita dalla sua trasformazione in partner attivo, capace di garantire “la filiera della produzione, dalla progettazione delle iniziative fino alla gestione operativa delle stesse”, proprio sul modello del Consorzio.

Eh si, tutto congiura al consolidamento di una ideologia del profitto che costruisce scatole vuote a sua immagine di contenitore privo di idee, pensiero e futuro. E così mette la prima pietra di un museo che non ha niente da custodire, non ha tesori da conservare e mostrare, perfetto per una città che non avrà più cittadini.

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