Valeria Parrella e Corrado Augias: gli uomini possono parlare di femminismo?

per Susanna D’Ambrosio Susanna
Autore originale del testo: Susanna D’Ambrosio

Il 2 luglio si è conclusa la settantaquattresima edizione del Premio Strega: nonostante le difficoltà connesse alla situazione post-covid il modus operandi è rimasto pressoché invariato, come invariate sono rimaste le polemiche connesse al sessismo. La vicenda che ha provocato scalpore in questo caso riguarda Valeria Parrella, unica finalista donna nella sestina di quest’anno. Alla conclusione della tradizionale intervista il conduttore Zanchini l’ha congedata invitandola ad ascoltare l’intervento preparato da Augias circa il MeToo e la condizione femminile nella contemporaneità, sostenendo che il tema fosse strettamente correlato ai disagi vissuti dalle protagoniste del suo romanzo, Almarina.

Parrella sorride ed ironicamente domanda -E ne vuole parlare con Augias? Auguri!-, inducendo Zanchini a riproporre il dubbio dell’autrice ad Augias stesso, che ha risposto sostenendo che sia in un qualche modo scontato che un uomo si occupi anche di ciò che non lo scalfisce direttamente. Che cosa vi è di problematico in questo dialogo? Quali sono le contestazioni del femminismo della quarta ondata?

Occorre innanzitutto precisare che sul tema della partecipazione maschile al dibattito femminista le prospettive non sono affatto monolitiche, e che una domanda di questo genere -quanto a fondo un maschio cisgender di sett’anni è in grado di comprendere il femminismo? È corretto lasciare che siano (per l’ennesima volta) gli uomini a guidare il dibattito?- porta con sé dilemmi intellettuali ben più fitti di quelli che potrebbero scaturire da un interrogativo del genere: -è giusto che siano gli uomini a prendere decisioni che riguardano strettamente la vita delle donne? È eticamente plausibile che a scegliere se abbassare o meno l’IVA sugli assorbenti siano soltanto uomini?-. Nel secondo caso la risposta è alquanto scontata, tant’è che le discussioni parlamentari circa l’esempio citato erano state riconosciute all’unanimità come ridicole e anacronistiche. Nel primo caso, invece, le risposte possibili sono almeno due:

da un lato vi è chi (come Non una di meno) ritiene che gli uomini possano schierarsi al fianco delle donne nelle loro battaglie soltanto come alleati, perché è una lotta che non li vede protagonisti, una terra (una delle uniche) non loro. Dall’altro vi è chi sostiene che chiunque, a scapito del proprio genere, abbia il diritto di prendere parola sul tema e schierarsi attivamente nella battaglia.

La seconda risposta potrebbe forse apparire più razionale: è assurdo pensare di poter raggiungere vittorie significative escludendo aprioristicamente dalla lotta la metà della popolazione, il sessismo può avere effetti devastanti anche sugli uomini (mascolinità tossica, machismo, violenze domestiche non denunciate nel timore di apparire ridicoli etc) e dunque il movimento femminista li riguarda a tutti gli effetti. Ma la prima poggia su un nucleo di verità ormai incontestabili: l’atteggiamento di Zanchini e Augias è una forma di mansplaining (uomini che spiegano paternalisticamente alle donne cose che loro conoscono profondamente, sebbene gli interlocutori maschili le immaginino eternamente bambine, ignoranti, impreparate), è effettivamente assurdo che pur di non lasciare spazio ad una voce femminile si sia scelto di far parlare di femminismo Corrado Augias, non proprio un esperto in fatto di gender studies.

Tra le due risposte si insinua un’altra verità, a cui vorrei premettere due moniti: a tutti gli attivisti chiedo di ricordarsi che l’indignazione non serve a niente se non a radicalizzare le posizioni di chi si sente “oppresso dal politicamente corretto”, è il caso di imparare da quanto accaduto a Sanremo e strutturare un dibattito diverso, più attento e più complesso. A chi non trova nulla di sbagliato in quanto accaduto ieri sera chiedo invece di fare mente locale e ripensare al recentissimo dibattito in merito alla questione Destà-Montanelli e domandarsi chi ha preso voce in capitolo (giornalisti di sesso maschile e di origine caucasica) e in quali termini l’ha fatto (aberranti, adoperando un lessico -“sposare” invece di comprare, “avere rapporti sessuali” invece di stuprare- che minimizza il problema ed è coltello nella piaga di ogni donna vittima di molestie).

La terza verità è la seguente: gli uomini non devono ritrarsi dall’occupare gli spazi della lotta femminista per via del loro genere, un uomo che ha studiato a fondo questi argomenti può intervenire nel dibattito poiché ha le competenze per farlo. Quella di chi sostiene che gli uomini debbano situarsi in secondo piano ed evitare di parlare di femminismo non è tanto la conclusione ineluttabile di un sillogismo aprioristico, quanto più un’allergia, un’insofferenza, una frustrazione che è legittima se pensate a quanto miopi e retrogradi siano i punti di vista degli uomini che da decenni continuano a pretendere di avere una voce in capitolo.

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