Fonte: deriveapprodi.org
Url fonte: http://www.deriveapprodi.org/2014/09/unidea-di-liberta/
UN’IDEA DI LIBERTA’ – di ALBERTO MAGNAGHI – ed. DERIVEAPPRODI
(San Vittore 1979 – Rebibbia 1982)
Prefazione di Alberto Asor Rosa – Postfazione di Rossana Rossanda
Alberto Magnaghi fu tra i fondatori di Potere operaio. Dopo lo scioglimento del gruppo, nel 1973, abbandonò la militanza politica attiva e si dedicò alla ricerca e all’insegnamento universitario divenendo direttore del Dipartimento di Scienze del Territorio della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Il 21 dicembre 1979 si ritrovò inaspettatamente arrestato nel quadro dell’inchiesta giudiziaria cosiddetta «7 aprile» contro l’Autonomia operaia. Scontò così tre anni di carcerazione preventiva. E fu durante quella carcerazione che scrisse questo libro: Un’idea di libertà.
Un diario della sua esperienza quotidiana dello spazio-tempo coatto del carcere. Ma – come sottolinearono lo scrittore Antonio Porta e il critico Mario Spinella – questo testo è soprattutto un’opera di straordinaria levatura letteraria. E, proprio per questo, capace di trascendere il tempo e il contesto in cui è stata scritta. In ciò risiede la sua straordinaria attualità di critica della supposta funzione sociale di rieducazione e risocializzazione dell’istituzione carceraria. I racconti apparentemente «minimali» di Magnaghi (ad esempio, l’autocostruzione di un tavolino con lattine di birra vuote, di mensole con pacchetti di cartone della pasta o di un aliante con materiali vari di riuso) sono esemplificazioni delle strategie di resistenza che il prigioniero mette in atto contro l’annientamento psicofisico del biopotere carcerario, descritto con sintetica lucidità nelle sue funzioni di macchina che alterna ottusità brutale e violenta a raffinatezza del controllo scientifico sui corpi.
Con disegni dell’autore.
Storia di un tavolo – 29 gennaio 1980
Mille di queste storie possono essere raccontate. Qualche giorno fa chiedo al brigadiere di raggio se è possibile avere qualche tavolo in più per studiare. Siamo in cinque – in ogni cella – con due tavoli. Il brigadiere mi risponde che i tavoli ci sono, ma occorre l’autorizzazione del direttore. Chiedo il colloquio col direttore e vengo ricevuto da una vicedirettore (come sempre) cui consegno la domanda scritta e motivata. I tavoli non si possono avere. Perché? Perché li abbiamo già negati ad altri. Insisto, dal momento che – «nuovo» di galera – non mi pare una motivazione possibile e ribadisco i motivi della richiesta. Con l’autorità che solo il rito può conferire, mi viene risposto, ossessivamente, allo stesso modo. Torno in cella: vogliamo rinnovare le richieste, insistere tutti insieme. Nel frattempo decidiamo di arrangiarci, secondo l’arte dell’autocostruzione degli arredi carcerari. Tentiamo la costruzione di un tavolo di fortuna. Iniziamo con una gamba. È montata con lattine di birra affiancate tre a tre, sovrapposte, fasciate di tela e irrigidite con vinavil. La gamba è solida e tiene bene, la decoriamo a strisce colorate con le tempere. Domenica mattina c’è la «perquisa» dei carabinieri, con la rituale devastazione degli arredi autocostruiti; ma, con stupore, al nostro rientro in cella, fra le macerie, vediamo la nostra gamba del tavolo al suo posto. Ci diciamo soddisfatti: è stata la decorazione dipinta a intenerirli o a metterli in soggezione. Potenza dell’arte! Decidiamo di iniziare la costruzione del piano del tavolo. Con i cartoni delle birre, lattine, strisce di tela e colla, lavoriamo due giorni intensamente. Se ne parla, nel raggio; tutti cooperano mandandoci le lattine vuote, poiché ne occorrono molte: il piano è sostenuto da una struttura a «cassettoni», con travi e travetti di lattine fasciate e incollate. È un’opera grandiosa, il piano è rigido, tiene bene, anche se è molto grande. Siamo molto soddisfatti: tutti passano, tornando dall’aria a vedere l’opera, chiedono informazioni tecniche sulla costruzione. Pensiamo di costruire con lo stesso sistema scaffali per i libri, mensole e piani d’appoggio per la cucina. Oggi, mentre lavoravamo agli ultimi ritocchi del piano del tavolo, si affaccia una guardia e chiede che cosa è. E il piano di un tavolo che ci serve per studiare. Non potete tenerlo. Alla perquisizione non è stato sequestrato. Alla prossima verrò anch’io, così ve lo porto via. La guardia se ne va. Dopo pochi minuti arrivano cinque guardie con il brigadiere, irrompono nella cella; il brigadiere vuol portare via il tavolo. Iniziano lunghe discussioni; cerchiamo disperatamente di opporre la logica semplice di un bisogno elementare a insulti volgari e provocazioni. Chiedo intanto alla guardia perché era andato dal brigadiere: Un detenuto di un’altra cella mi ha insultato. Ma cosa c’entra col nostro tavolo? Lui mi ha insultato. Il brigadiere sentenzia: Lo sequestriamo per sospetto che ci sia nascosto qualcosa. Se ne vanno col tavolo. Rumori nel cortile del tavolo che viene sfasciato. Brandelli della riforma del ’75 che rotolano con le nostre lattine di birra.