Una vita spesa per la legalità: intervista a Vincenzo Musacchio

per Vincenzo Musacchio
Autore originale del testo: Lucia De Sanctis

Una persona competente e determinata ma al tempo stesso umile e alla mano, così ci è apparso Vincenzo Musacchio, cinquantadue anni, ha speso gran parte della sua vita al servizio della diffusione della legalità nelle scuole d’Italia, collaborando con il giudice Antonino Caponnetto e lavorando a stretto contatto con il professor Giuliano Vassalli.

Che cosa ricorda dei luoghi dove è nato ed ha vissuto?

Io sono nato a Termoli in Molise ma ho vissuto gran parte della mia vita a Portocannone un paese di origini albanesi, dove fino a pochi anni fa tradizioni e valori della comunità “arbereshe” erano un bagaglio culturale irrinunciabile. Avevo il mare a pochissimi chilometri e da piccolo con i miei amici mi recavo a piedi o in bicicletta anche solo per fare una semplice passeggiata e bagnare i piedi. Ricordo la spensieratezza, lo studio severo e il rispetto delle persone. Ricordo anche le passeggiate al Corso (era una via più lunga delle altre e noi la chiamavamo così) con i miei amici, qualche marachella e tanta spensieratezza e gioia di vivere.

Tutti bei ricordi?

Non tutti ovviamente, ma la gran parte decisamente sì. Nel mio cuore c’è posto anche per i ricordi angosciosi riguardanti la perdita dei miei genitori e di una zia che mi ha guidato negli studi e senza la quale probabilmente non mi sarei mai laureato. Ho studiato a Larino frequentando il liceo scientifico e avendo professori che hanno contribuito molto alla mia crescita culturale e sociale. All’Università di Teramo ho avuto la fortuna di avere come docente di diritto penale il professor Vincenzo Scordamaglia. E’ stato per me un incontro importante perché mi ha consentito di fare un percorso di studio che mi ha portato alla tesi di laurea sui temi della lotta alla mafia dal titolo “Appalti pubblici e normativa antimafia”. Nel 1992 diventai il più giovane docente a contratto d’Italia e da allora non ho mai più smesso di occuparmi di lotta alle mafie e di diritto penale.

I suoi incarichi e le sue collaborazioni soprattutto fuori dall’Italia non si contano quali ritiene siano stati i più proficui?

Parto dal presupposto che “nemo propheta in patria sua” per cui le maggiori soddisfazioni sono arrivate dall’estero. Presentando il mio curriculum studiorum sono diventato associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies di Newark negli Stati Uniti d’America occupandomi principalmente dei sistemi di lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione. Con le medesime modalità concorsuali sono diventato ricercatore presso l’Alta Scuola di Studi Strategici sulla criminalità organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Il più bel riconoscimento in assoluto tuttavia proviene dal mio Paese. Nel 2019 a Casal di Principe mi è stata conferita la menzione speciale al Premio Nazionale “don Peppe Diana” dai familiari del sacerdote assassinato dalla camorra. Un’emozione ineguagliabile e irripetibile.

Lei giovanissimo studente in giurisprudenza ricevette anche una lettera di Giovanni Falcone che impressione ebbe quando la aprì?

Ho ancora in mente il giorno in cui trovai la lettera sotto il portone. Non avevamo ancora la cassetta postale e il postino infilava le lettere sotto la porta di casa. Era una busta bianca con intestazione blu proveniente dalla Procura della Repubblica di Palermo. Un profumo agrodolce misto all’odore di tabacco impregnava la busta. La aprii, il profumo aumentò, mi tremavano le mani perché immaginavo il suo contenuto, cominciai a leggere la sua lettera: “Caro dott. Musacchio, innanzitutto grazie per la bella lettera che mi ha inviato. Anche io come lei sono convinto che il mio posto sia a Palermo (io ero contrario a che Falcone lasciasse la Procura) ma ci sono momenti in cui occorre fare delle scelte e impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla mafia. Mi creda il mio non è un abbandono. Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali. Cordialmente, Giovanni Falcone”. Quella lettera fu allora ed è ancor oggi un invito ai giovani, in qualsiasi luogo e situazione si trovino, a rinnovare l’incontro con la legalità, con Giovanni Falcone, a prendere la decisione di cercarlo ogni giorno senza sosta come esempio da seguire. È necessario essere consapevoli che per sconfiggere le illegalità, l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri e lottare insieme. Questo fu il suo messaggio.

Lei ha conosciuto e collaborato con Antonino Caponnetto, che ricordo ha di lui?

Gli piaceva lo chiamassi nonno Nino e per me è stato eccezionale, di un’umanità ineguagliabile e di una grande bontà d’animo, pari alla sua rettitudine morale. Un uomo capace di essere autorevole e spiritoso al tempo stesso. Era il 17 febbraio 1995 e grazie all’intercessione di Maria Falcone riesco a contattare e portare a Termoli come relatore sul tema “La lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e prospettive” il giudice Antonino Caponnetto. Parlammo tanto nei nostri incontri ed ho memoria del fatto che più volte sottolineò che Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la loro morte. Mi disse che tutti gli attacchi subiti facevano molto male a Falcone, anche se lui non lo dava a vedere. Mi raccontò della sua mancata nomina, dopo il suo pensionamento, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli. Il che era legittimo ma sconcertante non con il senno del poi, ma già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del maxiprocesso. Tutto il pool antimafia non riusciva a comprendere come fosse possibile sbagliarsi così tanto su Falcone e Borsellino mentre erano vivi! Su Paolo Borsellino mi raccontò che sapeva di essere nella lista della mafia e che il tritolo per lui fosse già arrivato a Palermo. Mi raccontò che Borsellino aveva chiesto già un mese prima della strage alla Questura palermitana di voler disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante all’abitazione della madre. Era affranto e incredulo su questo fatto. Gli domandai della sua frase straziante alle telecamere subito dopo la Strage di via d’Amelio: “È finito tutto!”. Mi rispose che in quel momento avrebbe voluto morire anche lui. Evidenziò il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto e mi disse che quelle parole da allora in poi dovevano essere un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. Caponnetto diventò il primo rappresentante della società civile, girò l’Italia in lungo e in largo per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia. Ci sentimmo molte volte, ebbi il privilegio di avere il telefono di casa a Firenze dove se non ricordo male, abitava in Via Baldasseroni e partecipammo insieme ad alcuni incontri soprattutto con gli studenti. Quando ripenso a quei momenti, mi pervade un’enorme sensazione di felicità. Quando il 6 dicembre del 2002 morì in un ospedale fiorentino piansi come quando si perde un familiare. Ancora oggi mantengo la promessa che gli feci e che lui direttamente mi chiese di mantenere. Mi disse: Vincenzo mi devi promettere una cosa… Spero di onorare la mia promessa e mi auguro che da lassù lui mi possa guidare.

Che cosa le chiese di promettergli Caponnetto?

Non l’ho mai detto a nessuno perché fu un momento molto intimo che vorrei restasse tale, ma credo non sia difficile poterlo intuire.

A lei è mai capitato di temere per la sua vita?

Ho subito qualche minaccia e per un periodo ho avuto anche la sorveglianza dell’abitazione ma nulla di realmente preoccupante. Io sono uno studioso, un teorico. Devo dire però che stranamente le uniche minacce arrivarono proprio quando mi occupai dei rapporti tra mafia e politica.

Qual è il lascito morale di uomini come Caponnetto, Falcone e Borsellino alle nuove generazioni?

Penso che sia indispensabile che i giovani conoscano questo pezzo di storia del nostro Paese e comprendano quale forza morale e sociale avessero uomini come Caponnetto, Falcone e Borsellino, il cui obiettivo primario era la difesa dello Stato e delle istituzioni, nell’interesse della democrazia e del bene comune. Oggi troppo spesso si agisce in nome di interessi personali ed egoistici.

Dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino, la lotta alla mafia ha fatto progressi?

Penso che dopo la morte di Falcone e Borsellino la lotta alla mafia non sia stata più una priorità dello Stato. Si è abbassata la guardia dando occasioni a queste organizzazioni di agire e di fortificarsi nel silenzio più assoluto. Questa a mio avviso è una delle colpe più grandi dei vari Governi che si sono succeduti negli anni compreso quello vigente. Bisogna diffidare di tutti quelli che dicono che le mafie sono state sconfitte. Non solo non sono state sconfitte ma sono più forti di prima, solo che fanno meno rumore.

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