Fonte: Micromega
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Le prospettive economiche del Paese si sono ulteriormente degradate. Occorre abbandonare la fallimentare “austerità espansiva” con una manovra finanziaria di impatto sulla domanda aggregata, al di fuori dei perimetri imposti dai Trattati europei. Per riattivare, prima che sia troppo tardi, un processo di ripresa dell’occupazione e della crescita. Ecco come.
di Riccardo Achilli e Lanfranco Turci
LO SCENARIO
Le prospettive macroeconomiche del Paese si sono ulteriormente degradate. La previsione di ripresa, sulla quale il Governo aveva fondato le sue proiezioni di finanza pubblica in sede di DEF, è saltata. Potremmo chiudere il 2014 con una recessione dello 0,3-0,4. Ed il 2015, secondo le ultime previsioni, potrebbe chiudere a crescita zero. Nel frattempo, il mercato del lavoro continua a degradarsi. Nei primi sei mesi del 2014, l’occupazione non è cresciuta significativamente. Il tasso di posti vacanti è pressoché nullo, indicando come le imprese non abbiano spazi per fare assunzioni. L’aumento degli inattivi e della durata della disoccupazione segnalano un consolidamento strutturale della stessa.
Nel frattempo, la crisi sta cambiando natura, perché alla recessione produttiva si sta affiancando, per insufficienza dei redditi disponibili, di crescita della disoccupazione e di ristagno degli investimenti, anche la deflazione. Ad agosto e settembre abbiamo registrato un tasso di inflazione negativo, mentre quello nell’area euro è pressoché pari a zero (+0,4% su base annua).
Uno scenario deflattivo, che le politiche monetarie messe in atto dalla Bce non sembrano, al momento, arrestare (occorrerà aspettare, per un giudizio definitivo, il completamento dell’operazione di rifinanziamento alle banche a dicembre, ma la situazione attuale, molto simile ad una trappola della liquidità, non lascia ben sperare sull’efficacia del meccanismo di trasmissione di politica monetaria), rischia di far svanire anche gli effetti dei sacrifici sin qui prodotti per generare un avanzo primario consistente. Senza un po’ di inflazione, e con un tasso di crescita reale del PIL ancora negativo, il rispetto dei parametri di deficit/PIL e di debito/PIL non potrà che saltare.
LE POLITICHE SIN QUI SEGUITE E UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
Siamo quindi davanti ad un crinale della crisi per certi aspetti inedito. E’ di tutta evidenza che proseguire sulla strada segnata dai Trattati Europei e dai parametri del Patto di Stabilità, di fronte a questa torsione della crisi, è un suicidio. E’ evidente anche che le cosiddette riforme strutturali non abbiano di per sé prospettive di rilancio della crescita. Non serve flessibilizzare ulteriormente le modalità contrattualistiche del lavoro, se le imprese non assumono. E’ compito delle politiche macroeconomiche far sì che si ricostituiscano condizioni di domanda tali da creare spazi per una ripresa dell’occupazione e della crescita.
Gli stessi provvedimenti annunciati dal Governo, come il mantenimento del bonus degli 80 euro nel formato attuale, oppure qualche modesto incentivo fiscale sul costo del lavoro e sugli investimenti, in vigenza del rispetto del vincolo del 3% di rapporto fra deficit e PIL, non appaiono sufficienti a stimolare l’economia nel momento in cui i soggetti non sono disposti a spendere, stanti le prospettive deflazionistiche.
Dietro alla presentazione della prossima legge di stabilità, che secondo le prime anticipazioni dovrebbe contenere almeno 20 miliardi di tagli di spesa pubblica, a fronte di ben modesti interventi per la crescita, vi è una prosecuzione dell’idea di “austerità espansiva”, alla radice delle politiche con le quali l’Europa ha affrontato la crisi dei debiti sovrani, che si è rivelata profondamente errata, per motivi evidenti. Il moltiplicatore fiscale evidenzia i legami fra ciclo economico e conti pubblici. Più bassi sono i moltiplicatori, meno negativi gli effetti dell’austerità sul ciclo. Le politiche di compressione dei deficit decise dall’Europa poggiano sull’ipotesi che i moltiplicatori fiscali siano attorno allo 0,5%. Viceversa, tale moltiplicatore, per l’Italia, si colloca in un intorno fra 1,5 e 2,2 punti (come mostrano i dati del DEF relativi alla differenza fra deficit complessivo e strutturale, “ripulito” cioè dagli effetti del ciclo economico e di misure una tantum).
Evidentemente, con moltiplicatori fiscali più alti delle stime ufficiali, gli effetti sulla crescita di politiche di riduzione del deficit sono molto più distruttivi, e, parallelamente, gli effetti sui conti pubblici di una crescita negativa del PIL sono molto più disastrosi del previsto. Con tassi di interesse sul debito positivi per via della deflazione, alti moltiplicatori fiscali e crescita negativa, soltanto per mantenere immutato il debito pubblico occorre che il saldo primario migliori costantemente, con effetti ulteriormente recessivi sull’andamento del PIL, che, a sua volta, genera un peggioramento del debito, richiedendo nuove misure di austerità per migliorare il saldo primario, e così via.
E’ quindi il modello liberista di uscita dalla crisi a non funzionare. Come evidenziato dal grafico sotto riportato, la globalizzazione produce, sui lavoratori, una competizione internazionale tramite le reti globali di produzione, supportate dagli accordi di libero scambio e la mobilità dei capitali. Sulla destra, programmi da “small goverment” spingono sulla deregolamentazione, senza alcun riguardo rispetto ai pericoli che essa impone. Dal basso, la flessibilizzazione del mercato del lavoro distrugge le tutele dei lavoratori ed i supporti al mercato del lavoro. Infine, l’abbandono dell’impegno politico verso il pieno impiego, in nome della lotta all’inflazione, genera ulteriori pressioni deflattive sul salario, mantenendo bacini stabili di disoccupazione e sottoccupazione.
Il box delle politiche neoliberali
Fonte: T. Palley, Europe’s crisis without end: The consequences of neoliberalism run amok, Imk, WP n. 111, Marzo 2013
Questo modello ha abbandonato il tradizionale circolo virtuoso keynesiano, che tramite gli investimenti promuove la produttività, creando spazi per la crescita dei salari, della domanda, dei mercati, quindi della produzione e dell’impiego, generando ulteriori risorse per gli investimenti. Evidentemente, il modello keynesiano tradizionale non può essere riproposto in modo identico al suo funzionamento nei “Trenta Gloriosi”, perché non tiene conto di economie molto più aperte ed interrelate fra loro (con l’affacciarsi sulla ribalta dell’economia mondiale di Paesi ad elevata competitività sul versante del rapporto fra produttività e costo dei fattori). Richiede quindi aggiornamenti sul versante di investimenti finalizzati al potenziamento della competitività dal lato dell’offerta, per disporre di un sistema economico più resiliente alla concorrenza internazionale. Però la logica per la quale la domanda aggregata rimane fondamentale per promuovere una crescita armoniosa rimane centrale.
Una nuova proposta di sinistra, per le politiche economiche, può quindi riassumersi nel grafico sottoriportato. Il punto centrale consiste nell’inserire le multinazionali ed i mercati finanziari, in luogo dei lavoratori, nel box centrale della regolamentazione, in modo da evidenziare come siano tali soggetti, nel mondo attuale, a necessitare una più stringente azione di controllo politico e regolamentare.
Detta azione si estrinseca con politiche esplicitamente destinate al pieno impiego, con una globalizzazione regolamentata su base internazionale, con un programma economico interno non più neoliberale, ma socialdemocratico e con reti di solidarietà sul mercato del lavoro, ed una politica dei redditi che restituisca al lavoro, in una quota maggiore di quanto verificatosi sinora, i guadagni di produttività.
Il box delle politiche neokeynesiane strutturali
Fonte: T. Palley, Europe’s crisis without end: The consequences of neoliberalism run amok, Imk, WP n. 111, Marzo 2013
A tale box manca, peraltro, una componente, che è quella del rispetto dell’ambiente, dimensione fondamentale di uno sviluppo equilibrato. Più in generale, la sinistra deve battersi per un nuovo modello di sviluppo che punti sul rilancio della domanda e sulla riqualificazione dell’offerta, basata sulla qualità, sull’innovazione, sul recupero dei fattori strutturali alla base del ristagno, oramai ventennale, della produttività totale dei fattori (infrastrutture strategiche, materiali e non, educazione e formazione permanente, ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica, sostegno alla riconfigurazione del modello di specializzazione produttiva ed al superamento del nanismo imprenditoriale, riqualificazione del ruolo programmatico della pubblica amministrazione, ma anche velocizzazione delle procedure amministrative, ricostruzione di capitale sociale e di reti fiduciarie).
A fronte del cambiamento di natura della crisi, del fallimento delle politiche economiche sin qui condotte, e dell’esigenza di un nuovo modello di sviluppo, sopra illustrata, un documento più analitico per affrontare il tema di un nuovo modello di politiche economiche e sociali è pubblicato a cura del Network per il Socialismo Europeo, in http://www.ricostruire.info/
UNA PROPOSTA DI LEGGE DI STABILITA’ ALTERNATIVA
A valle del documento generale sopra rammentato, avendo a mente la situazione di avvitamento della crisi sopra evidenziata, un gruppo di organizzazioni socialiste (Iniziativa 21 giugno) propone un rimedio di urgenza, mirato a riattivare, prima che sia troppo tardi, un processo di ripresa della domanda. Una sorta di “rianimazione” dell’economia, prima di passare ad una terapia strutturale vera e propria. Vedi http://www.spazioliblab.it/?p=4652
Avanziamo, in tal senso, una proposta di legge di stabilità che si collochi al di fuori dei perimetri imposti da Trattati europei che si stanno manifestamente rivelando prociclici. E che impone evidentemente anche una battaglia in sede europea, finalizzata ad allentare i vincoli dei Trattati. La legge di stabilità che proponiamo non rispetta, quindi, i limiti del Patto di Stabilità e Crescita, ed ha un ammontare di 40 miliardi, così composto:
a) 4,5 miliardi di riduzione di imposte (da stabilirsi in quota fifty/fifty per imprese e per famiglie), destinate ad un mix fra incremento delle tax expenditures, riduzione delle aliquote per il primo scaglione di reddito, parziale deducibilità del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap ed introduzione di una parziale detassazione degli incrementi di capitale netto delle imprese;
b) 5 miliardi per un programma di almeno 3.000 piccole opere pubbliche immediatamente cantierabili, segnalate dagli enti locali e dalle Regioni, prioritariamente rivolte alla riqualificazione di immobili pubblici, a strutture pubbliche per servizi ai cittadini, alla difesa del suolo, alla prevenzione del rischio idrogeologico ed alla tutela ambientale, da collocare fuori dal Patto di stabilità, ed aggiuntive rispetto ai programmi di investimento già in corso o definiti.
c) 6 miliardi destinati ad un Fondo per gli Investimenti Strategici, gestito dalla CDP, mirato a sostenere investimenti delle imprese nei settori della ricerca applicata ed industriale e dell’innovazione tecnologica nelle aree determinate dal Piano Nazionale della Ricerca; della formazione del personale; dell’internazionalizzazione commerciale; dell’acquisizione di servizi reali. Altri 2 miliardi finanzieranno start-up e spin off nei settori ad alta tecnologia e nell’industria culturale e creativa. In relazione alle esigenze delle imprese ed alle condizioni del mercato del credito, tale fondo potrà essere erogato scegliendo fra contributi a fondo perduto, in conto interessi, prestazione di garanzie pubbliche o strumenti di partecipazione al capitale di rischio.
d) 10 miliardi per il bonus degli 80 euro rimodulato, ovvero decrescente al crescere del reddito, fino a 24.000 euro, e non cumulabile da più percettori nell’ambito di un solo nucleo familiare, al fine di recuperare risorse per estendere il beneficio a chi è collocato sotto la soglia di incapienza fiscale ed ai pensionati al minimo;
e) 12,5 miliardi per uno strumento di tutela universalistica che unifichi la sperimentazione del reddito di inserimento (SIA) che sarà ampliata con gli 800 Meuro già previsti a valere sul PON Inclusione Sociale 2014-2020, e il Naspi previsto dal Jobs Act, andando ad aggiungersi alle fonti finanziarie già reperite dal Governo. Uno strumento, dunque, di sostegno monetario mirato sia all’inserimento lavorativo, sia alle fasce povere della popolazione che non hanno uno specifico problema di inserimento lavorativo (ad es. nuclei familiari di pensionati, working poors) affiancato da strumenti individualizzati di formazione/ricollocamento lavorativo, e contro l’esclusione sociale.
I predetti provvedimenti saranno coperti per circa 22 miliardi da un insieme di interventi, tra i quali: recupero di evasione fiscale imperniata sull’introduzione dello scontrino telematico e della fatturazione telematica (12 miliardi ); previsione di minor costo del servizio del debito pubblico (3 miliardi); una spending review mirata (3 miliardi), centrata su riduzione delle spese militari, riduzione stipendi degli alti dirigenti, pubblicazione telematica degli appalti pubblici e della G.U, razionalizzazione dei corpi di polizia; aumento del gettito sui tabacchi e su lotto, lotterie e giochi (1,5 miliardi); ed inoltre, dismissione di immobili pubblici non aventi preminenti interessi storico-artistici e rinegoziazioni dei contratti di locazione di immobili in uso alle P.A., o da queste locati a terzi.
I restanti 18 miliardi sarebbero coperti da aumento del debito pubblico (1,15% del PIL). Tale manovra porterebbe il rapporto fra deficit pubblico e PIL attorno al 4,2%, ed avrebbe un effetto espansivo pari a circa 1,2 punti di PIL, lasciando sostanzialmente inalterato, ma con una lievissima riduzione rispetto al livello attuale, il rapporto debito/PIL.
Non si dovrà, inoltre, dar seguito alle iniziative, ventilate o allo studio, volte alla cessione di significative quote, direttamente o indirettamente in mano al Tesoro, di aziende operanti in settori strategici ed a elevata tecnologia in quanto, oltre che comportare il venir meno di ogni capacità di indirizzo pubblico, vi sarebbe per il Tesoro, a fronte di un beneficio “una tantum”, il venir meno di entrate significative e durevoli nel tempo.
Con la legge di stabilità per il 2016, l’incremento iniziale di debito pubblico prodotto con quella del 2015, e conseguente alla sopra descritta manovra, potrebbe essere in parte sterilizzato da un’imposta sulle grandi ricchezze con aliquota progressiva a partire da una ricchezza netta superiore a 800.000 euro. Secondo le stime della CGIL, ciò comporterebbe un gettito strutturale di circa 10-13 miliardi, che sarebbe portato ad abbattimento dello stock di debito pubblico.