Una riflessione su di noi

per Gabriella
Autore originale del testo: Andrea Bagni
Fonte: albasoggettopoliticonuovo.it
Url fonte: http://www.albasoggettopoliticonuovo.it/2014/08/andrea-bagni-una-riflessione-su-di-noi/

di Andrea Bagni

Noi dell’Altra Europa è chiaro che stiamo vivendo un momento di transizione e di difficoltà. È più facile mettere insieme una sigla che si presenti alle elezioni e intercetti un bisogno che esiste di alternativa al presente, che costruire una soggettività politica “dei rappresentati”, all’altezza delle trasformazioni di questo presente. E tuttavia è il caso di sottolineare, dopo tante polemiche, che non abbiamo messo insieme una lista qualunque, ma – quasi miracolosamente – siamo stati capaci di dare segnali di una storia nuova, di una prospettiva non residuale. Però da un lato il piccolo gruppo che ha realizzato il miracolo – l’egemonia di una visione che dava più spazio alla cittadinanza attiva, politica, che alla sommatoria di sigle da tempo tristemente sulla scena – si è non poco logorato nel dopo elezioni e adesso ci lascia quasi del tutto privi di una qualche forma di direzione autorevole. Dall’altro la nostra base, i famosi territori, se mantiene una sacrosanta esigenza di contare e partecipare all’elaborazione e alle decisioni, mi sembra anche parecchio frammentata ed evanescente come tessuto di collegamenti (il che rende molto arduo quel compito di elaborazione), nonché un po’ semplificatoria in alcune richieste di radicale basismo, diciamo così. Come se bastasse spostare tutto verso il basso e il locale per coinvolgere le persone (come chiedessero solo di decidere e non di appartenere) e risolvere questioni complesse di analisi e prospettive.

A tutto questo si aggiunge, lo sappiamo bene, la questione legata ai due o tre partiti che fanno parte della nostra esperienza. Che hanno progetti politici non esattamente affini fra loro, né con noi – almeno noi di Alba. Alla fine a volte mi sembra si generi una stana convergenza tra partiti organizzati e base disgregata intorno all’immaginare luoghi decisionali democratici dove democraticamente ci si conti per stabilire decisioni, vittorie e sconfitte. Gruppi dirigenti e linee. Secondo me sarebbe un disastro di competizione e sbranamenti. E un disastro annunciato. Per questo mi viene spesso di insistere sulle qualità relazionali e quasi affettive, sulla pazienza e la virtù dell’ascolto, da sviluppare in una dimensione che prima ancora che di soggetto politico è di comunità.

D’altra parte la fase politica che viviamo a me pare tutt’altro che deprimente. Oppure è talmente deprimente e di crisi da aprire possibilità vivaci di vita. Non mi pare che valga la pena entrare nel merito delle vicende costituzionali e di politica economica che conosciamo bene, ma è chiaro che disegnano uno scenario coerente quanto “totalitario” e sterile – almeno dal punto di vista delle soluzioni alla crisi (per quanto ci sia da diffidare parecchio di tutti gli annunci di crisi irreversibile, irrisolvibile etc, che hanno funestato la mia adolescenza e poi l’età adulta).

Un fatto nuovo e decisamente positivo da sottolineare per me è invece il ritorno sulla scena dell’opposizione della Fiom e di Landini (che a me sembra sia stato uno di quelli che invece hanno contribuito piuttosto colpevolmente all’enorme, spropositata, apertura di credito alla capacità innovativa di Matteo Renzi: come innovativo volesse dire tout court liberatorio).

La manifestazione di ottobre potrebbe mettere in scena un’altra Italia, quella che ha sentito come indecente la vicenda istituzionale del voto blindato al Senato per una riforma addirittura costituzionale, concordata segretamente con Verdini e Berlusconi, da parte di un governo non eletto e di un parlamento eletto su base incostituzionale. È un’Italia indubbiamente di minoranza ma non credo minoritaria, né tristemente monolitica: c’è dentro il mondo liberale che non vuol saperne di strapoteri a uomini della provvidenza, la democrazia radicale che non si limita a scegliere il prodotto più attraente cui affidarsi fra quelli offerti dal mercato, l’antagonismo sociale e “personale” che immagina e pratica un’altra forma dell’economia, della polis, dell’uscita dalla crisi, un’idea di sapere e lavoro alternative alla miseria materiale e immaginaria attuale. Insomma l’Italia e l’Europa per le quali ci siamo mossi fin dal manifesto di Alba. Peraltro si tratta in larga misura, credo, del mondo che ci ha votato il 25 maggio. Un voto largamente di opinione, anche se il termine non ci piace gran che – però secondo me anche il mondo che potrebbe, se riusciamo a portarlo sulla scena (cosa non facile perché il disincanto e la delusione fanno da padroni ormai dappertutto), potrebbe dare una spinta al progetto di soggettività politica che inauguri altre strade delle relazioni e delle pratiche politiche. Se il nostro riferimento oggi resta quello dei militanti di partito o degli attivi della società civile, tutti sulla scena da un pezzo, affetti da un “eccesso di sapere” che determina esperte diffidenze universali, io la vedo dura…

Chiaro che su quella scena dell’autunno non basta esserci. Bisogna tentare di dare a quel mondo non solo una rappresentanza istituzionale, ma anche una dimensione collettiva decente, minimamente organizzata. Cioè una soggettività politica nuova. Quella famosa. Che è per noi di Alba tutto sommato la ragione della nostra esistenza.

Come fare?

Purtroppo non ho grandi idee, un po’ perché la mia esperienza di organizzazioni politiche è scarsa, un po’ perché qui molto si tratta di inventare, non mi pare abbondino i modelli di riferimento, e questo può essere entusiasmante ma è anche sempre un casino. Siamo inoltre passati continuamente da uno “stato di emergenza” a un altro, da CambiareSiPuò all’Altra Europa e adesso alle maledette regionali… Peraltro pensare di esistere e radicarsi nei territori come soggettività che vuole incidere anche sulla rappresentanza, saltando le scadenze elettorali che portano sulla scena pubblica le questioni e gli ordini simbolici che connotano l’intera società e la sua rappresentanza istituzionale, non è che sia facilissimo.

Io penso, non andando molto oltre il banale buon senso forse, che un “corpo sociale” abbastanza diffuso e connesso al nostro progetto si può costruire stando in primo luogo dentro la pratica dei conflitti che esistono oggi, incidono sulle nostre vite e sul nostro immaginario. I primi che è facile elencare:

a) la crisi economica che dura malgrado “le riforme” – anzi grazie alle riforme. E produce “innovazione” modello precarizzazione universale e TTIP. Analisi e proposte alternative al pensiero mainstream della nuova costituente liberista;

b) l’attacco spaventoso, quasi volgare, alla cultura costituzionale. Il passaggio da una democrazia della partecipazione politica, dei corpi intermedi, all’affidamento agli esecutivi. La democrazia dell’investitura, come mi pare qualcuno l’abbia chiamata. Una sorta di oligarchia iper-decisionista elettiva.

c) le questioni della scuola e dell’università, di nuovo come ogni estate nell’occhio del ciclone con la proposta di una nuova riforma, magari per via amministrativa, che introduca gerarchia e meritocrazia, un sapere modellato sulla competitività di mercato e quasi di antropologia;

d) le questioni internazionali, l’Europa e il tema della pace.

Però il punto è che oltre a esistere nei conflitti a tutti i livelli, una soggettività politica si costruisce, in secondo luogo, se dentro quelle pratiche inventiamo forme nuove delle relazioni collettive. Sia delle relazioni orizzontali, fra le persone, gli uomini e le donne, le ragazze e i ragazzi (la cui presenza dovrebbe essere una sorta di cartina di tornasole del grado di significatività politica di quello che facciamo); il livello di qualità del dialogo e dell’accoglienza verso le storie diverse, personali, che arrivano. Sia dei rapporti fra realtà locali, base e livello nazionale (ed europeo) dell’elaborazione e della decisione. Della sintesi e della proposta.

Può apparire molto facile e banale (anzi lo è di sicuro), ma penso non ci sia altra soluzione per la democraticità dei luoghi dell’elaborazione e della decisione, che praticare una sorta di “andata e ritorno” della riflessione teorica. Noi sappiamo di avere persone nel nostro gruppo che hanno capacità di analisi storica e proposta politica assolutamente straordinarie. La ricchezza di questa dimensione intellettuale è qualcosa che spesso ci viene imputata: molte/i di noi sono i professoroni, le accademie, i salotti – tipo il “culturame” non mi ricordo più di chi, forse di Scelba. Chiaro che questa caratteristica si riflette anche sul voto che abbiamo ricevuto alle europee, come ha benissimo mostrato Marco. E non è certo positivo che ci votino solo quelli che leggono giornali e libri. Però di saper praticare un pensiero critico noi tutti dobbiamo essere orgogliosi. Siamo quelli che non riducono il popolo a plebe, la comunicazione a spot, la gentilezza ai sorrisini. Per me perfino il disastro oratorio che spesso caratterizza Barbara Spinelli (salvo il 19 a Roma) ha un suo fascino: non veniamo dalle scuole di formazione per sorridenti brillanti venditori televisivi. Si “perde” su quel piano, ma forse si trasmette anche che ci muoviamo da un’altra parte, che non partecipiamo a quella gara spettacolare. Se avete ancora in mente il primo faccia a faccia in streaming fra Grillo e Renzi capite che voglio dire.

Ecco, bisogna trovare le forme perché questo livello alto di elaborazione trovi i luoghi giusti, distesi e decentemente sereni, per poter proporre mediazioni alte fra le diverse opzioni che esistono fra noi e con i partiti. Io, malgrado le ambiguità incredibili che caratterizzano la linea di Sel e la rigidità che vedo ancora nel linguaggio e nelle pratiche di Rifondazione, non penso che possiamo rassegnarci a rappresentare una proposta politica che si aggiunge a Sel o a Rifondazione. Più un nuovo soggetto che un soggetto nuovo. Saremmo vissuti malissimo, come un altro frammento della solita esplosione. Un elemento di forza per noi credo sia anche la dimensione unitaria dell’alternativa al renzismo. So benissimo che quella unità, senza un cambiamento davvero radicale di relazioni e pratiche, non affascina nessuno e non produce nessun percorso unitario. Però non credo che possiamo continuare a procedere per esclusioni, né di persone né di sigle. Dobbiamo provare a trovare mediazioni accettabili e costruire un tessuto relazionale, di base e di vertice, che permetta nei tempi possibili, di sciogliere le contraddizioni e le diffidenze. Avendo peraltro anche presente che queste sigle sono tutt’altro che amate da quel mondo nuovo che vogliamo coinvolgere – l’equilibrio da trovare è ancora forse quello che in fondo ha caratterizzato la nostra “genesi” come lista, quando una proposta forte, non mediata in un certo senso, ha permesso di trovare mediazioni.

Questa elaborazione dovrebbe essere di stimolo per i diversi luoghi territoriali in cui esistiamo – perché non possiamo certo nascere mandando il messaggio che tutte le partite si giocano a livello nazionale, giocate da chi ha le relazioni giuste; che lì si elabora la linea e poi la si trasmette alla base perché si allinei, educata. Per quanto siano approssimativi i contributi che, soprattutto in questa fase confusa e difficile, arriveranno, una dimensione di condivisione ed elaborazione comune dobbiamo praticarla. E un gruppo nazionale autorevole in grado di dare direzione e indicazioni ci serve.

Non sarà facile. Però noi abbiamo intercettato bene o male un mondo di pensiero e desideri alternativi all’esistente. Per me quel mondo esiste ancora, anzi si è allargato. Sta, certo, molto in attesa. Non si fida gran che della sinistra e forse giudica più che partecipare. Però esiste. Ci voterebbe volentieri se fossimo un po’ credibili. Il che vuol dire, oggi, altri e altre dallo scenario politico istituzionale, alternativi al centrosinistra defunto di Renzi, e altro anche dalla tradizione delle divisioni e delle “unità” elettorali della sinistra. E poi oltre che darci il voto credo che potrebbe partecipare ai luoghi che possiamo costruire, se questi luoghi fossero un po’ decenti, aperti ai racconti, ai desideri, alle passioni delle persone in carne e ossa. Che sono tutte abbastanza orfane – non solo di rappresentanza, ché si può vivere anche senza rappresentanza, più o meno rassegnati. Ma orfane di dimensione politica, cioè di relazioni interpersonali, di pratiche collettive di condivisione e ricerca di soluzione dei problemi.

Insomma c’è una felicità politica di cui si soffre la mancanza. E nessun Renzi o nessun centro commerciale la può soddisfare. Tutt’al più possono raccogliere e festeggiare la rabbia e la depressione che la sua perdita produce. Ma restano povera cosa.

Un abbraccio, fresco del ferragosto fiorentino
Andrea Bagni

Noi dell’Altra Europa è chiaro che stiamo vivendo un momento di transizione e di difficoltà. È più facile mettere insieme una sigla che si presenti alle elezioni e intercetti un bisogno che esiste di alternativa al presente, che costruire una soggettività politica “dei rappresentati”, all’altezza delle trasformazioni di questo presente. E tuttavia è il caso di sottolineare, dopo tante polemiche, che non abbiamo messo insieme una lista qualunque, ma – quasi miracolosamente – siamo stati capaci di dare segnali di una storia nuova, di una prospettiva non residuale. Però da un lato il piccolo gruppo che ha realizzato il miracolo – l’egemonia di una visione che dava più spazio alla cittadinanza attiva, politica, che alla sommatoria di sigle da tempo tristemente sulla scena – si è non poco logorato nel dopo elezioni e adesso ci lascia quasi del tutto privi di una qualche forma di direzione autorevole. Dall’altro la nostra base, i famosi territori, se mantiene una sacrosanta esigenza di contare e partecipare all’elaborazione e alle decisioni, mi sembra anche parecchio frammentata ed evanescente come tessuto di collegamenti (il che rende molto arduo quel compito di elaborazione), nonché un po’ semplificatoria in alcune richieste di radicale basismo, diciamo così. Come se bastasse spostare tutto verso il basso e il locale per coinvolgere le persone (come chiedessero solo di decidere e non di appartenere) e risolvere questioni complesse di analisi e prospettive.

A tutto questo si aggiunge, lo sappiamo bene, la questione legata ai due o tre partiti che fanno parte della nostra esperienza. Che hanno progetti politici non esattamente affini fra loro, né con noi – almeno noi di Alba. Alla fine a volte mi sembra si generi una stana convergenza tra partiti organizzati e base disgregata intorno all’immaginare luoghi decisionali democratici dove democraticamente ci si conti per stabilire decisioni, vittorie e sconfitte. Gruppi dirigenti e linee. Secondo me sarebbe un disastro di competizione e sbranamenti. E un disastro annunciato. Per questo mi viene spesso di insistere sulle qualità relazionali e quasi affettive, sulla pazienza e la virtù dell’ascolto, da sviluppare in una dimensione che prima ancora che di soggetto politico è di comunità.

D’altra parte la fase politica che viviamo a me pare tutt’altro che deprimente. Oppure è talmente deprimente e di crisi da aprire possibilità vivaci di vita. Non mi pare che valga la pena entrare nel merito delle vicende costituzionali e di politica economica che conosciamo bene, ma è chiaro che disegnano uno scenario coerente quanto “totalitario” e sterile – almeno dal punto di vista delle soluzioni alla crisi (per quanto ci sia da diffidare parecchio di tutti gli annunci di crisi irreversibile, irrisolvibile etc, che hanno funestato la mia adolescenza e poi l’età adulta).

Un fatto nuovo e decisamente positivo da sottolineare per me è invece il ritorno sulla scena dell’opposizione della Fiom e di Landini (che a me sembra sia stato uno di quelli che invece hanno contribuito piuttosto colpevolmente all’enorme, spropositata, apertura di credito alla capacità innovativa di Matteo Renzi: come innovativo volesse dire tout court liberatorio).

La manifestazione di ottobre potrebbe mettere in scena un’altra Italia, quella che ha sentito come indecente la vicenda istituzionale del voto blindato al Senato per una riforma addirittura costituzionale, concordata segretamente con Verdini e Berlusconi, da parte di un governo non eletto e di un parlamento eletto su base incostituzionale. È un’Italia indubbiamente di minoranza ma non credo minoritaria, né tristemente monolitica: c’è dentro il mondo liberale che non vuol saperne di strapoteri a uomini della provvidenza, la democrazia radicale che non si limita a scegliere il prodotto più attraente cui affidarsi fra quelli offerti dal mercato, l’antagonismo sociale e “personale” che immagina e pratica un’altra forma dell’economia, della polis, dell’uscita dalla crisi, un’idea di sapere e lavoro alternative alla miseria materiale e immaginaria attuale. Insomma l’Italia e l’Europa per le quali ci siamo mossi fin dal manifesto di Alba. Peraltro si tratta in larga misura, credo, del mondo che ci ha votato il 25 maggio. Un voto largamente di opinione, anche se il termine non ci piace gran che – però secondo me anche il mondo che potrebbe, se riusciamo a portarlo sulla scena (cosa non facile perché il disincanto e la delusione fanno da padroni ormai dappertutto), potrebbe dare una spinta al progetto di soggettività politica che inauguri altre strade delle relazioni e delle pratiche politiche. Se il nostro riferimento oggi resta quello dei militanti di partito o degli attivi della società civile, tutti sulla scena da un pezzo, affetti da un “eccesso di sapere” che determina esperte diffidenze universali, io la vedo dura…

Chiaro che su quella scena dell’autunno non basta esserci. Bisogna tentare di dare a quel mondo non solo una rappresentanza istituzionale, ma anche una dimensione collettiva decente, minimamente organizzata. Cioè una soggettività politica nuova. Quella famosa. Che è per noi di Alba tutto sommato la ragione della nostra esistenza.

Come fare?

Purtroppo non ho grandi idee, un po’ perché la mia esperienza di organizzazioni politiche è scarsa, un po’ perché qui molto si tratta di inventare, non mi pare abbondino i modelli di riferimento, e questo può essere entusiasmante ma è anche sempre un casino. Siamo inoltre passati continuamente da uno “stato di emergenza” a un altro, da CambiareSiPuò all’Altra Europa e adesso alle maledette regionali… Peraltro pensare di esistere e radicarsi nei territori come soggettività che vuole incidere anche sulla rappresentanza, saltando le scadenze elettorali che portano sulla scena pubblica le questioni e gli ordini simbolici che connotano l’intera società e la sua rappresentanza istituzionale, non è che sia facilissimo.

Io penso, non andando molto oltre il banale buon senso forse, che un “corpo sociale” abbastanza diffuso e connesso al nostro progetto si può costruire stando in primo luogo dentro la pratica dei conflitti che esistono oggi, incidono sulle nostre vite e sul nostro immaginario. I primi che è facile elencare:

a) la crisi economica che dura malgrado “le riforme” – anzi grazie alle riforme. E produce “innovazione” modello precarizzazione universale e TTIP. Analisi e proposte alternative al pensiero mainstream della nuova costituente liberista;

b) l’attacco spaventoso, quasi volgare, alla cultura costituzionale. Il passaggio da una democrazia della partecipazione politica, dei corpi intermedi, all’affidamento agli esecutivi. La democrazia dell’investitura, come mi pare qualcuno l’abbia chiamata. Una sorta di oligarchia iper-decisionista elettiva.

c) le questioni della scuola e dell’università, di nuovo come ogni estate nell’occhio del ciclone con la proposta di una nuova riforma, magari per via amministrativa, che introduca gerarchia e meritocrazia, un sapere modellato sulla competitività di mercato e quasi di antropologia;

d) le questioni internazionali, l’Europa e il tema della pace.

Però il punto è che oltre a esistere nei conflitti a tutti i livelli, una soggettività politica si costruisce, in secondo luogo, se dentro quelle pratiche inventiamo forme nuove delle relazioni collettive. Sia delle relazioni orizzontali, fra le persone, gli uomini e le donne, le ragazze e i ragazzi (la cui presenza dovrebbe essere una sorta di cartina di tornasole del grado di significatività politica di quello che facciamo); il livello di qualità del dialogo e dell’accoglienza verso le storie diverse, personali, che arrivano. Sia dei rapporti fra realtà locali, base e livello nazionale (ed europeo) dell’elaborazione e della decisione. Della sintesi e della proposta.

Può apparire molto facile e banale (anzi lo è di sicuro), ma penso non ci sia altra soluzione per la democraticità dei luoghi dell’elaborazione e della decisione, che praticare una sorta di “andata e ritorno” della riflessione teorica. Noi sappiamo di avere persone nel nostro gruppo che hanno capacità di analisi storica e proposta politica assolutamente straordinarie. La ricchezza di questa dimensione intellettuale è qualcosa che spesso ci viene imputata: molte/i di noi sono i professoroni, le accademie, i salotti – tipo il “culturame” non mi ricordo più di chi, forse di Scelba. Chiaro che questa caratteristica si riflette anche sul voto che abbiamo ricevuto alle europee, come ha benissimo mostrato Marco. E non è certo positivo che ci votino solo quelli che leggono giornali e libri. Però di saper praticare un pensiero critico noi tutti dobbiamo essere orgogliosi. Siamo quelli che non riducono il popolo a plebe, la comunicazione a spot, la gentilezza ai sorrisini. Per me perfino il disastro oratorio che spesso caratterizza Barbara Spinelli (salvo il 19 a Roma) ha un suo fascino: non veniamo dalle scuole di formazione per sorridenti brillanti venditori televisivi. Si “perde” su quel piano, ma forse si trasmette anche che ci muoviamo da un’altra parte, che non partecipiamo a quella gara spettacolare. Se avete ancora in mente il primo faccia a faccia in streaming fra Grillo e Renzi capite che voglio dire.

Ecco, bisogna trovare le forme perché questo livello alto di elaborazione trovi i luoghi giusti, distesi e decentemente sereni, per poter proporre mediazioni alte fra le diverse opzioni che esistono fra noi e con i partiti. Io, malgrado le ambiguità incredibili che caratterizzano la linea di Sel e la rigidità che vedo ancora nel linguaggio e nelle pratiche di Rifondazione, non penso che possiamo rassegnarci a rappresentare una proposta politica che si aggiunge a Sel o a Rifondazione. Più un nuovo soggetto che un soggetto nuovo. Saremmo vissuti malissimo, come un altro frammento della solita esplosione. Un elemento di forza per noi credo sia anche la dimensione unitaria dell’alternativa al renzismo. So benissimo che quella unità, senza un cambiamento davvero radicale di relazioni e pratiche, non affascina nessuno e non produce nessun percorso unitario. Però non credo che possiamo continuare a procedere per esclusioni, né di persone né di sigle. Dobbiamo provare a trovare mediazioni accettabili e costruire un tessuto relazionale, di base e di vertice, che permetta nei tempi possibili, di sciogliere le contraddizioni e le diffidenze. Avendo peraltro anche presente che queste sigle sono tutt’altro che amate da quel mondo nuovo che vogliamo coinvolgere – l’equilibrio da trovare è ancora forse quello che in fondo ha caratterizzato la nostra “genesi” come lista, quando una proposta forte, non mediata in un certo senso, ha permesso di trovare mediazioni.

Questa elaborazione dovrebbe essere di stimolo per i diversi luoghi territoriali in cui esistiamo – perché non possiamo certo nascere mandando il messaggio che tutte le partite si giocano a livello nazionale, giocate da chi ha le relazioni giuste; che lì si elabora la linea e poi la si trasmette alla base perché si allinei, educata. Per quanto siano approssimativi i contributi che, soprattutto in questa fase confusa e difficile, arriveranno, una dimensione di condivisione ed elaborazione comune dobbiamo praticarla. E un gruppo nazionale autorevole in grado di dare direzione e indicazioni ci serve.

Non sarà facile. Però noi abbiamo intercettato bene o male un mondo di pensiero e desideri alternativi all’esistente. Per me quel mondo esiste ancora, anzi si è allargato. Sta, certo, molto in attesa. Non si fida gran che della sinistra e forse giudica più che partecipare. Però esiste. Ci voterebbe volentieri se fossimo un po’ credibili. Il che vuol dire, oggi, altri e altre dallo scenario politico istituzionale, alternativi al centrosinistra defunto di Renzi, e altro anche dalla tradizione delle divisioni e delle “unità” elettorali della sinistra. E poi oltre che darci il voto credo che potrebbe partecipare ai luoghi che possiamo costruire, se questi luoghi fossero un po’ decenti, aperti ai racconti, ai desideri, alle passioni delle persone in carne e ossa. Che sono tutte abbastanza orfane – non solo di rappresentanza, ché si può vivere anche senza rappresentanza, più o meno rassegnati. Ma orfane di dimensione politica, cioè di relazioni interpersonali, di pratiche collettive di condivisione e ricerca di soluzione dei problemi.

Insomma c’è una felicità politica di cui si soffre la mancanza. E nessun Renzi o nessun centro commerciale la può soddisfare. Tutt’al più possono raccogliere e festeggiare la rabbia e la depressione che la sua perdita produce. Ma restano povera cosa.

Un abbraccio, fresco del ferragosto fiorentino
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Noi dell’Altra Europa è chiaro che stiamo vivendo un momento di transizione e di difficoltà. È più facile mettere insieme una sigla che si presenti alle elezioni e intercetti un bisogno che esiste di alternativa al presente, che costruire una soggettività politica “dei rappresentati”, all’altezza delle trasformazioni di questo presente. E tuttavia è il caso di sottolineare, dopo tante polemiche, che non abbiamo messo insieme una lista qualunque, ma – quasi miracolosamente – siamo stati capaci di dare segnali di una storia nuova, di una prospettiva non residuale. Però da un lato il piccolo gruppo che ha realizzato il miracolo – l’egemonia di una visione che dava più spazio alla cittadinanza attiva, politica, che alla sommatoria di sigle da tempo tristemente sulla scena – si è non poco logorato nel dopo elezioni e adesso ci lascia quasi del tutto privi di una qualche forma di direzione autorevole. Dall’altro la nostra base, i famosi territori, se mantiene una sacrosanta esigenza di contare e partecipare all’elaborazione e alle decisioni, mi sembra anche parecchio frammentata ed evanescente come tessuto di collegamenti (il che rende molto arduo quel compito di elaborazione), nonché un po’ semplificatoria in alcune richieste di radicale basismo, diciamo così. Come se bastasse spostare tutto verso il basso e il locale per coinvolgere le persone (come chiedessero solo di decidere e non di appartenere) e risolvere questioni complesse di analisi e prospettive.

A tutto questo si aggiunge, lo sappiamo bene, la questione legata ai due o tre partiti che fanno parte della nostra esperienza. Che hanno progetti politici non esattamente affini fra loro, né con noi – almeno noi di Alba. Alla fine a volte mi sembra si generi una stana convergenza tra partiti organizzati e base disgregata intorno all’immaginare luoghi decisionali democratici dove democraticamente ci si conti per stabilire decisioni, vittorie e sconfitte. Gruppi dirigenti e linee. Secondo me sarebbe un disastro di competizione e sbranamenti. E un disastro annunciato. Per questo mi viene spesso di insistere sulle qualità relazionali e quasi affettive, sulla pazienza e la virtù dell’ascolto, da sviluppare in una dimensione che prima ancora che di soggetto politico è di comunità.

D’altra parte la fase politica che viviamo a me pare tutt’altro che deprimente. Oppure è talmente deprimente e di crisi da aprire possibilità vivaci di vita. Non mi pare che valga la pena entrare nel merito delle vicende costituzionali e di politica economica che conosciamo bene, ma è chiaro che disegnano uno scenario coerente quanto “totalitario” e sterile – almeno dal punto di vista delle soluzioni alla crisi (per quanto ci sia da diffidare parecchio di tutti gli annunci di crisi irreversibile, irrisolvibile etc, che hanno funestato la mia adolescenza e poi l’età adulta).

Un fatto nuovo e decisamente positivo da sottolineare per me è invece il ritorno sulla scena dell’opposizione della Fiom e di Landini (che a me sembra sia stato uno di quelli che invece hanno contribuito piuttosto colpevolmente all’enorme, spropositata, apertura di credito alla capacità innovativa di Matteo Renzi: come innovativo volesse dire tout court liberatorio).

La manifestazione di ottobre potrebbe mettere in scena un’altra Italia, quella che ha sentito come indecente la vicenda istituzionale del voto blindato al Senato per una riforma addirittura costituzionale, concordata segretamente con Verdini e Berlusconi, da parte di un governo non eletto e di un parlamento eletto su base incostituzionale. È un’Italia indubbiamente di minoranza ma non credo minoritaria, né tristemente monolitica: c’è dentro il mondo liberale che non vuol saperne di strapoteri a uomini della provvidenza, la democrazia radicale che non si limita a scegliere il prodotto più attraente cui affidarsi fra quelli offerti dal mercato, l’antagonismo sociale e “personale” che immagina e pratica un’altra forma dell’economia, della polis, dell’uscita dalla crisi, un’idea di sapere e lavoro alternative alla miseria materiale e immaginaria attuale. Insomma l’Italia e l’Europa per le quali ci siamo mossi fin dal manifesto di Alba. Peraltro si tratta in larga misura, credo, del mondo che ci ha votato il 25 maggio. Un voto largamente di opinione, anche se il termine non ci piace gran che – però secondo me anche il mondo che potrebbe, se riusciamo a portarlo sulla scena (cosa non facile perché il disincanto e la delusione fanno da padroni ormai dappertutto), potrebbe dare una spinta al progetto di soggettività politica che inauguri altre strade delle relazioni e delle pratiche politiche. Se il nostro riferimento oggi resta quello dei militanti di partito o degli attivi della società civile, tutti sulla scena da un pezzo, affetti da un “eccesso di sapere” che determina esperte diffidenze universali, io la vedo dura…

Chiaro che su quella scena dell’autunno non basta esserci. Bisogna tentare di dare a quel mondo non solo una rappresentanza istituzionale, ma anche una dimensione collettiva decente, minimamente organizzata. Cioè una soggettività politica nuova. Quella famosa. Che è per noi di Alba tutto sommato la ragione della nostra esistenza.

Come fare?

Purtroppo non ho grandi idee, un po’ perché la mia esperienza di organizzazioni politiche è scarsa, un po’ perché qui molto si tratta di inventare, non mi pare abbondino i modelli di riferimento, e questo può essere entusiasmante ma è anche sempre un casino. Siamo inoltre passati continuamente da uno “stato di emergenza” a un altro, da CambiareSiPuò all’Altra Europa e adesso alle maledette regionali… Peraltro pensare di esistere e radicarsi nei territori come soggettività che vuole incidere anche sulla rappresentanza, saltando le scadenze elettorali che portano sulla scena pubblica le questioni e gli ordini simbolici che connotano l’intera società e la sua rappresentanza istituzionale, non è che sia facilissimo.

Io penso, non andando molto oltre il banale buon senso forse, che un “corpo sociale” abbastanza diffuso e connesso al nostro progetto si può costruire stando in primo luogo dentro la pratica dei conflitti che esistono oggi, incidono sulle nostre vite e sul nostro immaginario. I primi che è facile elencare:

a) la crisi economica che dura malgrado “le riforme” – anzi grazie alle riforme. E produce “innovazione” modello precarizzazione universale e TTIP. Analisi e proposte alternative al pensiero mainstream della nuova costituente liberista;

b) l’attacco spaventoso, quasi volgare, alla cultura costituzionale. Il passaggio da una democrazia della partecipazione politica, dei corpi intermedi, all’affidamento agli esecutivi. La democrazia dell’investitura, come mi pare qualcuno l’abbia chiamata. Una sorta di oligarchia iper-decisionista elettiva.

c) le questioni della scuola e dell’università, di nuovo come ogni estate nell’occhio del ciclone con la proposta di una nuova riforma, magari per via amministrativa, che introduca gerarchia e meritocrazia, un sapere modellato sulla competitività di mercato e quasi di antropologia;

d) le questioni internazionali, l’Europa e il tema della pace.

Però il punto è che oltre a esistere nei conflitti a tutti i livelli, una soggettività politica si costruisce, in secondo luogo, se dentro quelle pratiche inventiamo forme nuove delle relazioni collettive. Sia delle relazioni orizzontali, fra le persone, gli uomini e le donne, le ragazze e i ragazzi (la cui presenza dovrebbe essere una sorta di cartina di tornasole del grado di significatività politica di quello che facciamo); il livello di qualità del dialogo e dell’accoglienza verso le storie diverse, personali, che arrivano. Sia dei rapporti fra realtà locali, base e livello nazionale (ed europeo) dell’elaborazione e della decisione. Della sintesi e della proposta.

Può apparire molto facile e banale (anzi lo è di sicuro), ma penso non ci sia altra soluzione per la democraticità dei luoghi dell’elaborazione e della decisione, che praticare una sorta di “andata e ritorno” della riflessione teorica. Noi sappiamo di avere persone nel nostro gruppo che hanno capacità di analisi storica e proposta politica assolutamente straordinarie. La ricchezza di questa dimensione intellettuale è qualcosa che spesso ci viene imputata: molte/i di noi sono i professoroni, le accademie, i salotti – tipo il “culturame” non mi ricordo più di chi, forse di Scelba. Chiaro che questa caratteristica si riflette anche sul voto che abbiamo ricevuto alle europee, come ha benissimo mostrato Marco. E non è certo positivo che ci votino solo quelli che leggono giornali e libri. Però di saper praticare un pensiero critico noi tutti dobbiamo essere orgogliosi. Siamo quelli che non riducono il popolo a plebe, la comunicazione a spot, la gentilezza ai sorrisini. Per me perfino il disastro oratorio che spesso caratterizza Barbara Spinelli (salvo il 19 a Roma) ha un suo fascino: non veniamo dalle scuole di formazione per sorridenti brillanti venditori televisivi. Si “perde” su quel piano, ma forse si trasmette anche che ci muoviamo da un’altra parte, che non partecipiamo a quella gara spettacolare. Se avete ancora in mente il primo faccia a faccia in streaming fra Grillo e Renzi capite che voglio dire.

Ecco, bisogna trovare le forme perché questo livello alto di elaborazione trovi i luoghi giusti, distesi e decentemente sereni, per poter proporre mediazioni alte fra le diverse opzioni che esistono fra noi e con i partiti. Io, malgrado le ambiguità incredibili che caratterizzano la linea di Sel e la rigidità che vedo ancora nel linguaggio e nelle pratiche di Rifondazione, non penso che possiamo rassegnarci a rappresentare una proposta politica che si aggiunge a Sel o a Rifondazione. Più un nuovo soggetto che un soggetto nuovo. Saremmo vissuti malissimo, come un altro frammento della solita esplosione. Un elemento di forza per noi credo sia anche la dimensione unitaria dell’alternativa al renzismo. So benissimo che quella unità, senza un cambiamento davvero radicale di relazioni e pratiche, non affascina nessuno e non produce nessun percorso unitario. Però non credo che possiamo continuare a procedere per esclusioni, né di persone né di sigle. Dobbiamo provare a trovare mediazioni accettabili e costruire un tessuto relazionale, di base e di vertice, che permetta nei tempi possibili, di sciogliere le contraddizioni e le diffidenze. Avendo peraltro anche presente che queste sigle sono tutt’altro che amate da quel mondo nuovo che vogliamo coinvolgere – l’equilibrio da trovare è ancora forse quello che in fondo ha caratterizzato la nostra “genesi” come lista, quando una proposta forte, non mediata in un certo senso, ha permesso di trovare mediazioni.

Questa elaborazione dovrebbe essere di stimolo per i diversi luoghi territoriali in cui esistiamo – perché non possiamo certo nascere mandando il messaggio che tutte le partite si giocano a livello nazionale, giocate da chi ha le relazioni giuste; che lì si elabora la linea e poi la si trasmette alla base perché si allinei, educata. Per quanto siano approssimativi i contributi che, soprattutto in questa fase confusa e difficile, arriveranno, una dimensione di condivisione ed elaborazione comune dobbiamo praticarla. E un gruppo nazionale autorevole in grado di dare direzione e indicazioni ci serve.

Non sarà facile. Però noi abbiamo intercettato bene o male un mondo di pensiero e desideri alternativi all’esistente. Per me quel mondo esiste ancora, anzi si è allargato. Sta, certo, molto in attesa. Non si fida gran che della sinistra e forse giudica più che partecipare. Però esiste. Ci voterebbe volentieri se fossimo un po’ credibili. Il che vuol dire, oggi, altri e altre dallo scenario politico istituzionale, alternativi al centrosinistra defunto di Renzi, e altro anche dalla tradizione delle divisioni e delle “unità” elettorali della sinistra. E poi oltre che darci il voto credo che potrebbe partecipare ai luoghi che possiamo costruire, se questi luoghi fossero un po’ decenti, aperti ai racconti, ai desideri, alle passioni delle persone in carne e ossa. Che sono tutte abbastanza orfane – non solo di rappresentanza, ché si può vivere anche senza rappresentanza, più o meno rassegnati. Ma orfane di dimensione politica, cioè di relazioni interpersonali, di pratiche collettive di condivisione e ricerca di soluzione dei problemi.

Insomma c’è una felicità politica di cui si soffre la mancanza. E nessun Renzi o nessun centro commerciale la può soddisfare. Tutt’al più possono raccogliere e festeggiare la rabbia e la depressione che la sua perdita produce. Ma restano povera cosa.

Un abbraccio, fresco del ferragosto fiorentino
Andrea Bagni

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