Una post-globalizzazione?

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 9 novembre 2016

È successo. E non in un posto qualsiasi, ma negli Stati Uniti, un luogo che anticipa tendenze storiche, le interpreta, sperimenta soluzioni. Elezioni ‘distopiche’ è stato scritto, che si svolgono in un futuro terribile e lo preannunciano. Altri hanno detto, invece, che Trump per noi è il passato (il nostro 2013) ma per fortuna avremmo già trovato una soluzione (Renzi). No comment. Il fatto vero è un altro, ossia che i conti non tornano più. Che una fase storica si sta chiudendo, quella della globalizzazione, del mondo ‘aperto’ anzi spalancato, delle merci che ci inondano da ogni lato, dei migranti che sciamano verso dove ci sono risorse e dove sembra che vi sia anche la pace. Un’epoca di cosmopolitismo, di élite gioiose, di viaggi, di barriere cadute (almeno apparentemente). Questa libera ‘circolazione’ di persone e merci, tuttavia, è stata solo un aspetto della fase, il più evidente nei media, il più ‘propagandato’, lo specchio delle allodole. E siccome la cronaca (non solo la storia) la scrivono i vincenti, ci hanno anche fatto credere che fosse il solo volto esistente, quello della fine della storia e del pensiero unico. Ci hanno nascosto, però, e non per sbadataggine, che c’è anche un lato oscuro della ‘forza’ che sconvolgeva il mondo e che arricchiva i ricchi, mentre impoveriva i poveri, consolandoli con gadget e sogni sempre più distanti, sbiaditi e irrealizzabili.

L’altra faccia, quella nascosta, scansata, rimossa, era quella dei perdenti. Che ci sono sempre, ogni qualvolta la storia e la cronaca producano un’accelerazione. Il capitalismo in questi anni ha mostrato il volto più accattivante (vetrine e vetrine di cose, sogni e ancora sogni), nascondendo però quello feroce, quella della ‘distruzione creativa’ che ha prodotto effetti tremendi sulle persone e sul tessuto sociale. È bastata una crisi, un inceppamento del meccanismo economico per far venire a galla il ‘rimosso’, che per molti era soltanto un rozzo residuo sociale e un avanzo da scartare rispetto alle ‘magnifiche sorti e progressive’, cosmopolitiche, contemporanee. Un ‘rimosso’ che è invece costituito da donne e uomini senza lavoro, ceti medi proletarizzati e working class, le cui aspettative sono pesantemente regredite rispetto ai traguardi di consumo che il capitalismo neoliberale pure suggeriva dai media. Città impoverite e territori abbandonati completano il panorama. Un regresso anche culturale, oltre che sociale. Un impoverimento della civiltà, che ha spesso trasformato donne e uomini in rozzi e inguardabili interpreti delle tendenze in atto, e in massa di manovra dei populisti e dei razzisti. Negli USA come in Europa.

Fatto sta che il divario sociale si è ampliato, l’abisso tra masse ed élite si è allargato sino all’inverosimile, la fiducia nelle istituzioni e nella politica-politica è crollato. Non è vero che la società contemporanea in genere è refrattaria alla grande politica e ai partiti di massa: sono le tendenze del capitalismo feroce di questi anni a smembrare le coscienze sino a renderle nulla, sino a trasformare tutti in individui che godono delle merci e basta, e perdono così senso della socialità e della solidarietà. La ferita più grossa è nelle coscienze. Il divario sociale è così alto, i perdenti così arrabbiati, che ciò ha fatto strame delle altre differenze, e le ha subordinate agli effetti del disastro sociale prodotto dal capitalismo globalizzato. Un’elettrice donna che si sente lontana dalle élite e che si ritrova ‘perdente’, è comunque altrove, lontana rispetto alla ‘candidata dell’establishment’, rispetto alle élite urbane. Scrive Repubblica (Raffaella Menichini) che “il “fattore donna” alla fine non ha giocato il ruolo centrale che avrebbe potuto […] Hillary è il volto della politica lontana dai cittadini, anche se lei l’ha praticata fin da giovanissima in mezzo ai più diseredati. […] Neanche le volgarità sessiste di Trump, rivelate in piena campagna, sono riuscite a spostare il voto delle donne, che evidentemente hanno contribuito in modo massiccio a portare Trump alla Casa Bianca. ‘Vogliono una donna presidente, ma non questa donna’, osservava prima del voto la sondaggista Ann Selzer”.

Tutti dicono che indietro non si torna, che la globalizzazione detterà ancora le sue leggi, che la storia è a senso unico, che Trump ha le mani legate. Può darsi. Può darsi che il ‘progresso’ alla fine vinca. Io che invece non credo alla ideologia del progresso, sono più scettico. Non sottovaluterei i disastri sociali, come è stato fatto per la Brexit e ora per Trump. Non penserei affatto che la freccia abbia un solo verso. La storia è piena di post-qualcosa, di fasi che all’inizio non hanno un nome e poi invece lo assumono, indicando nuove direzioni di marcia, trasformazioni profonde, discontinuità. Chi lo ha detto che una fase di post-globalizzazione non possa aprirsi di getto? Fatta di muri, di nazionalismi, di rigurgiti locali, di crisi ancora più intense? E di identità che riemergono con forza dall’anonimato del mercato globale? Ma se tutto ciò è già davanti ai nostri occhi!

Chi può dire, insomma, che la storia sia davvero finita, che altri eventi non possano accadere, altre svolte e altri scenari che non abbiano più il segno forte del capitalismo globale, ma siano il frutto di una nuova anarchia, di piccole patrie, di mercati sempre più ristretti? Fasi anche peggiori, e più dure della presente! Solo aprendo gli occhi, facendo funzionare la testa e riscoprendo il gusto dello studio e della analisi, oltre che auspicando una rinnovata presenza di politica e partiti in quei ribollenti residui sociali, sarà possibile trovare soluzioni giuste, eque, democratiche a una situazione che si sta già spalancando mentre attorno gli sciocchi ancora ammiccano. La sinistra, per esempio, batta un colpo. Sennò che ci sta a fare? E poi dicono che questo presente (questo presente foriero di novità) sia solo per noi un passato. E Renzi una specie di provvidenziale panacea. Poveraccio.

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