Fonte: Il campo delle idee
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Nell’intervista a Roberto Seghetti (riportata sotto), Vincenzo Visco dice molte cose sensate, il linguaggio tuttavia è tattico, politichese. Nella sostanza questa manovra del governo Renzi è un danno all’Italia per 2 motivi parimenti gravi: 1) i numeri sono campati in aria, le coperture mediante taglio degli sprechi ed evasione fiscale sono proclami, specchietti per le allodole, privi di piani concreti 2) la manovra avrà effetti recessivi, perchè mancano investimenti privati (assenza di un piano industriale) e pubblici (continuerà ad aumentare la spesa corrente compresa quella per pagare gli interessi del debito pubblico)per assenza opere pubbliche.
A nessuno dei tre mediocri governi precedenti Berlusconi/Tremonti, Monti, Letta/Saccomanni, sarebbe venuto alla mente di fare una manovra così sbagliata. Ragionate: qualunque famiglia o azienda che facesse una manovra simile fallirebbe. La verità è che si tratta di una manovra per allocchi – e qui Renzi dimostra la sua vera natura: ritiene gli italiani dei fessi e porta avanti il piano per consolidarsi al Potere con determinazione e rara spietatezza. In primavera scaricherà la colpa sul parlamento e sui parlamentari del proprio partito e tenterà di andare alle elezioni- plebiscito. (g.f.)
di Roberto Seghetti
Visco: “Dopo l’accordo con la Ue è diventata una manovra restrittiva”
“L’impostazione iniziale della manovra era migliore, anche se non era espansiva come si diceva, ma almeno non era restrittiva come è diventata dopo le modifiche concordate con la Commissione Ue”. Vincenzo Visco, presidente del Nens ed ex ministro del Tesoro e delle Finanze, dà una lettura critica della legge di stabilità, soprattutto dopo gli ulteriori accordi presi con l’Unione Europea.
“Se si considerano i vincoli dati come se non si potessero mettere in discussione – afferma Visco – diciamo che il voto sulla manovra arriva alla sufficienza. Ma vi sono problemi e incertezze”. A cominciare dal tema di fondo: “Invece di concentrarsi sulle deroghe, sui margini di flessibilità, che pure sono importanti per carità, il governo avrebbe dovuto porre sul tavolo europeo il problema politico di un cambiamento di direzione generale della politica economica comunitaria, sulla base dell’esempio degli Usa o della Gran Bretagna. Avrebbe dovuto porre apertamente il tema del cambiamento. E aprire un dibattito alla luce del sole. Così non è stato e i risultati negativi di questa mancata sfida saranno da un lato il cammino difficile che continueranno ad avere l’economia italiana e quella europea, dall’altro l’ostilità crescente di coloro che subiscono le ripercussioni della crisi e che non sono stati messi in grado di capire le diverse posizioni, le ragioni: si rischia che finiscano per odiare l’euro e per chiedere, sbagliando, di uscirne”.
Italia e Francia potevano allearsi e costringere i Paesi del Nord a discutere apertamente, di fronte all’opinione pubblica europea, la linea da seguire per uscire dalla crisi. Ma almeno hanno ottenuto alcuni vantaggi, o no?
“In realtà sono state costrette entrambe a fare un passo indietro. Avevano messo le cose in modo che il fiscal compact non si applicasse e quindi finisse in qualche modo, lentamente, in soffitta. Sarebbe stato un bene, perché il fiscal compact è un’aberrazione. Invece no. Dopo le ultime indicazioni della Commissione è chiaro che il fiscal compact è vivo e vegeto, e già si comincia ad applicare. Francia e Italia devono fare non a caso correzioni che riportano le manovre economiche verso una direzione restrittiva. Un aggiustamento dello 0,3 per cento del disavanzo strutturale invece che pari allo 0,5. Siamo più o meno lì. Non è questo il cambiamento che serve. Senza contare che non si capisce perché l’Italia abbia dovuto fare un aggiustamento superiore a quello richiesto alla Francia”.
Dunque, manovra da bocciare?
“Sarebbe stato meglio riuscire a eludere o superare quei vincoli. Ma in un contesto in cui quei vincoli ci sono e stringono non si può dare un voto negativo. Diciamo che la manovra merita la sufficienza, sia pure con molti distinguo”.
E nel merito delle singole scelte? Gli 80 euro confermati, la riduzione dell’Irap, sono interventi positivi…
“Gli 80 euro sono la conferma della decisione presa nei mesi scorsi. Una decisione positiva, ma che proprio perché è una conferma non credo che influirà sulle aspettative e i comportamenti. Il taglio dell’Irap è di proporzioni notevoli. Vedo che alcuni commentatori, anche avveduti, lamentano l’innalzamento dell’aliquota dal 3,5 al 3,9 per cento. Ma attenzione: il taglio da 6 miliardi sulla componente lavoro parte dal 1 gennaio e sarà, appunto, per un valore di 6 miliardi di euro. Se non avessero ritoccato l’aliquota sarebbero stati 8-9 miliardi. Per le imprese il vantaggio sarà importante, pesante, sei miliardi di euro non sono poca cosa”.
E non va bene?
“La direzione è sicuramente giusta. Ridurre il peso del fisco su lavoro e imprese. Lo strumento utilizzato mi lascia perplesso. Francamente avrei ridotto i contributi sociali”.
E perché?
“L’Irap, l’imposta nata accorpandone molte altre, ha base regionale e di fatto serve a finanziare la sanità. Ridurre l’Irap significa ridurre il vincolo di bilancio per le Regioni. Diciamolo chiaramente, alcune Regioni sono state costrette, per rientrare, a decidere di imporre l’aliquota massima dell’Irap. Con questo tipo di taglio le si aiuta, perché lo sforzo per alleggerire il prelievo lo farà lo Stato”.
Vi sono anche i benefici per chi assume a tempo indeterminato…
“Ci sono gli incentivi. Ma c’è anche qui un po’ di confusione, sia per quanto riguarda le quantità (basteranno a garantire tutte le richieste?), sia per quanto riguarda le modalità. Spero che questi benefici funzionino sia per coloro che vengono assunti da zero, sia per coloro ai quali viene modificato un contratto esistente. In ogni caso, bisogna dire che l’aver deciso questi benefici non deve significare che si possa forzare in qualche modo la discussione sul jobs act.
Le misure contro l’evasione fiscale però dovrebbero piacerti, per larga parte sono quelle che ha suggerito il Nens nelle sue proposte per contrastare l’evasione dell’Iva.
Certo, questo è per il Nens una soddisfazione. Penso all’Iva dei pagamenti della Pubblica amministrazione versata direttamente in Tesoreria o al reverse charge, tutte proposte presentate a giugno dal Nens. Ma mi riferisco anche alle lettere che l’Amministrazione fiscale può inviare ai contribuenti per informarli di quanto il fisco sia a conoscenza della loro posizione. Di fatto è la versione attuale dell’elenco clienti fornitori che varammo nel secondo governo Prodi. Nello stesso tempo devo dire che noto anche una certa mancanza di coraggio nell’avvalersi di misure anche più importanti, capaci di portare risultati davvero consistenti, come l’applicazione dell’aliquota unica normale agli scambi intermedi. Forse gli è mancato il coraggio.
Tfr in busta paga e tassazione dei fondi pensione. Come giudichi questi due passaggi della legge di stabilità? Non si rischia di far evaporare un pezzo della costruzione previdenziale futura dei giovani in cambio di una possibilità marginale di consumo oggi?
Se dalla tassazione agevolata del TFR si dovesse passare alla tassazione piena che comporterebbe l’applicazione di aliquote marginali effettive superiori al 40%, per redditi anche non elevati (30-40.000 euro lordi l’anno), e che nell’intorno di reddito in cui si annulla il bonus Renzi, superano il 60%, si può essere certi che solo lavoratori in drammatico stress finanziario opterebbero per la nuova possibilità. Per le imprese la prevista compensazione da parte delle banche, che avverrebbe con un sostegno pubblico (aiuto di Stato?) sarebbe sicuramente più aleatoria e meno certa del meccanismo attuale.
E la tassazione dei fondi pensione?
Il sistema prevedeva assenza di tassazione all’inizio (la deduzione sui versamenti), una tassazione modesta nella parte centrale (le imposte sui rendimenti) e una tassazione modesta alla fine (le imposte sulle prestazioni). Ora si è innalzata fortemente la parte centrale. Era sbagliato prima. All’estero di fatto tutti i fondi pensione funzionano con esenzione all’inizio, esenzione sugli interessi maturati, ma tassazione piena sulla pensione finale. Ma quello che si sta configurando oggi in Italia è un altro particcio. Mi chiedo con quale progetto: vogliamo o no garantire un futuro previdenziale a coloro che oggi sono giovani?
Oltre alla riduzione delle imposte vi sono i tagli di spesa. Anche in questo caso vi sono problemi?
Voglio proprio vedere come fanno a fare quelli previsti nei ministeri. Quanto alle regioni, vorrei ricordare che la spesa sanitaria per l’acquisto di beni e servizi in alcune regioni è stata già bonificata e aggiustata con rigore. Sarebbe stato bene, invece di fissare obiettivi uguali per tutti, individuare le regioni che sforano e intervenire su quelle.
In conclusione, che cosa ci aspetta?
Con queste premesse, diciamo almeno due cose: la previsione di una crescita del Pil allo 0,6 per cento, di fronte a un andamento negativo alla fine di quest’anno, sarà assai difficile da raggiungere nel 2015. Quanto al 2,6, credo che non riusciremo a tenerlo, ma riusciremo lo stesso a stare in linea.
In che senso?
Finiremo per arrivare a un deficit vicino al 3 per cento. Ma poi i conti potrebbero tornare lo stesso grazie al risultato dei provvedimenti per il rientro dei capitali esportati all’estero e la riemersione dei capitali nascosti in Italia. In questo caso il problema si sposterebbe all’anno successivo.