Una manifestazione di cui ci ricorderemo

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora
Url fonte: http://ipensieridiprotagora.blogspot.it/

di Luca Billi

E’ stato bello essere in piazza ieri. Come lo era stato il 23 marzo 2002.
Per chi – come me – ha avuto l’opportunità di partecipare a entrambe queste manifestazioni – le più grandi della sinistra in Italia dopo il funerale di Enrico Berlinguer – credo sia inevitabile cercare le analogie e le differenze.
Le prime sono molte ed evidenti. Entrambe sono state scatenate dalla proposta del governo – Berlusconi ieri e Renzi oggi – di abolire l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Tutte e due sono state numericamente imponenti e molto gioiose. Ovviamente eravamo di più in quella bella giornata di primavera del 2002, ma francamente credo che i numeri debbano essere letti anche nel contesto della situazione e quindi penso che in proporzione questa ultima manifestazione abbia rappresentato un successo ancora più grande. Dodici anni sono tanti, hanno cambiato nel profondo questo paese; soprattutto in questi dodici anni abbiamo assistito – quasi sempre impotenti, alcune volte purtroppo complici – alla delegittimazione delle forme di partecipazione democratica. E’ calata la partecipazione al voto, sono di fatto spariti i partiti politici, hanno ristretto gli ambiti della democrazia, hanno costantemente attaccato il sindacato, presentandolo come una delle “caste” che ha danneggiato il paese. In questo clima riuscire a portare tantissime persone a Roma non è stato semplice e dobbiamo ringraziare il gruppo dirigente della Cgil per aver accettato questa sfida.
Ho avuto l’impressione anche che, nonostante tutto, la piazza fosse più gioiosa. In quella manifestazione ad esempio c’erano i toni lividi dell’antiberlusconismo, peraltro aizzati dallo stesso Berlusconi, c’era una cattiveria che ieri non visto. In questa piazza erano più i toni allegri, come quando ci si ritrova dopo uno scampato pericolo.
La grande manifestazione del 2002 – come certo ricorderete – ebbe un risultato politico immediato. Il governo ritirò sommessamente la proposta di abolire l’art. 18 e questo tema non è più stato nell’agenda politica italiana, almeno fino a quando il nostro paese non è stato commissariato dalla Troika e la riforma dello Statuto dei lavoratori è stata una delle condizioni imposte dalle autorità monetarie sovranazionali che, dall’autunno del 2011, governano di fatto il nostro paese, attraverso i loro prestanome al Quirinale e a Palazzo Chigi. E’ stato anche per merito di quella manifestazione lontana se il governo Monti non ha avuto il coraggio di abolire del tutto l’art. 18, cosa che adesso è richiesta all’esecutivo guidato da Renzi.
Vista da un altro punto di vista e analizzando le vicende della sinistra italiana con un maggior respiro temporale, quella piazza ha rappresentato un insuccesso. Con quella grande manifestazione Cofferati dimostrò che era possibile una sinistra diversa da quella che stavamo costruendo, sempre più vicina al modello della cosiddetta “terza via”, sempre più simile al Labour di Tony Blair, in sostanza sempre meno sinistra e sempre più piegata ai valori del liberismo e del capitalismo. Quella manifestazione fu rappresentata da una parte del gruppo dirigente dei Ds come il tentativo di Cofferati di “scalare” il partito, come il segno della sua ambizione politica – e non escludo che questa ambizione ci fu. Tanto che negli anni successivi ci fu un lavoro sistematico per depotenziare l’ex-segretario della Cgil fino ad arrivare al forzato “esilio” bolognese; e peraltro Cofferati non ebbe mai il coraggio di rompere questo assedio, accettò la candidatura a Bologna e poi si rifugiò a Bruxelles.
Ma al di là di queste vicende personali – che comunque servono a capire cosa è successo – tutte le scelte successive sono state fatte per “smontare” il potenziale di quella piazza. Cominciammo a virare sempre più destra, fino a quando la nave non è andata fuori controllo. Siamo stati sconfitti perché allora non scegliemmo il potenziale che c’era in quella piazza e preferimmo invece il dialogo con il mondo delle imprese e delle banche. Nella scelta che facemmo allora di far finta che quella manifestazione non ci fosse stata, perché “vecchia”, perché non in linea con la modernità, ci sono le ragioni che ci hanno portato al suicidio della sinistra, alla nascita del Pd e infine alla degenerazione rappresentata da Renzi.
Veniamo adesso alla piazza di ieri. Certamente il fatto di essere andati in piazza e di essere stati così tanti non comporterà nessun effetto immediato. Chi ci governa – chi ci governa veramente – non si spaventerà per questa mnaifestazione e finalmente abolirà l’art. 18. Anzi probabilmente avranno una maggiore soddisfazione, perché – nel loro sadismo – sentiranno di incidere sulla carne viva del paese e non avranno la sensazione di fare un intervento necroscopico. Hanno bisogno di togliere l’art. 18, perché hanno bisogno di avere le mani libere, perché hanno bisogno di licenziare, come dimostra la vicenda delle acciaierie di Terni. Quindi non illudiamoci, il nostro viaggio a Roma non avrà un effetto immediato, almeno non quello da noi sperato. Sarà ininfluente nella decisione della minoranza Pd che voterà comunque la fiducia e non distoglierà un partito come Sel a continuare a fiancheggiare i renziani nelle elezioni locali. Sono lontani gli anni in cui in Italia c’era un governo eletto che – perfino quando era di destra – doveva fare i conti con gli elettori. A chi ci governa adesso, visto che nessuno li ha eletti, non importa nulla di cosa dice la piazza. In questo è stato un insuccesso. Ma lo sapevamo, temo.
Non credo invece sia stato un insuccesso per le prospettive che questa manifestazione disegna. Ieri ho visto in piazza tantissime persone che avevano bisogno di esserci, di trovarsi, di riconoscersi. In tantissimi ci siamo persi, ognuno dietro alle sue idee, qualcuno è perfino rimasto ostinatamente nel Pd, in molti è prevalsa l’idea di lasciare andare. Anche perché non avevamo più un “posto” in cui stare tutti.
Nonostante la retorica inclusiva di Renzi e dei renziadi, la Leopolda è un luogo che esclude: o con me o contro di me. La Leopolda è il luogo dove si ritrovano questi nuovi teorici del potere per il potere, purtroppo spesso molto giovani, che vivono la politica unicamente per il potere che ne possono ricavare. E quindi contano poco i valori e la storia, conta nulla il definirsi di destra o di sinistra, conta l’attualità, conta l’essere lì. Mi rendo conto che questa è probabilmente una generalizzazione che – come sempre le generalizzazioni – si scontra con una realtà che è anche più complessa, più articolata, che è stata capace anche di raccogliere entusiasmo sincero, voglia di fare, passione. Ma mi pare che queste pulsioni siano state messe velocemente in minoranza ed espunte come un corpo estraneo.
Noi in piazza ieri cercavamo un’identità, che evidentemente non riusciamo più a trovare in quel partito, che è impossibile trovare in quel partito – anche nonostante la buona volontà di qualcuno che ci rimane e di cui conosciamo la storia e le buone intenzioni – e che quindi abbiamo riversato nel sindacato che si è fatto partito, è diventato il luogo “caldo” della partecipazione della sinistra. La giornata di ieri credo rappresentarà qualcosa di importante per la sinistra italiana perché ha mostrato che in campo ci sono davvero due visioni alternative e chiaramente distinte di vedere il futuro di questo paese, a partire da come uscire dalla più grave crisi economica che abbia mai subito.
Poi, per un paradosso che è difficile da spiegare, entrambe queste visioni si dicono di sinistra, ma – come ho scritto da un’altra parte – non possiamo perdere tempo adesso a litigare sulla primogenitura o su chi ce l’ha più lungo. Io credo sia una prospettiva socialista, ma se questa parola fa paura o crea troppe discussioni, possiamo non usarla. L’unica cosa che non possiamo eliminare sono le idee, a quelle non possiamo proprio rinunciare: la difesa della democrazia rappresentativa, il considerare il lavoro come l’elemento fondante dell’economia, la difesa della funzione pubblica dello stato.
Questo è il compito che ieri oltre un milione di persone ha affidato alla Cgil e credo sia una responsabilità pesante per quell’organizzazione che deve considerare il 25 ottobre uno spartiacque della propria storia lunghissima e che ora è arrivata ad una svolta.
Ovviamente non possiamo delegare tutto all’organizzazione, noi abbiamo da fare il nostro dovere, ma credo sia più facile farlo, sapendo che non siamo da soli e che la nostra lotta si inserisce in una prospettiva più grande.

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