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di Luca Billi 27 aprile 2019
Questa è una storia che comincia molto tempo fa, addirittura prima che nascesse Mickey Mouse. Perché Alice è sempre stata una specie di ossessione per Walt Disney.
Quando ha solo vent’anni Walt decide di aprire il proprio studio di animazione a Kansas City, il Laugh-O-Gram Studio. I suoi primi cortometraggi sono brevissime animazioni – durano poco più di un minuto – che accompagnano gli spettacoli nei cinema della città per illustrare alcuni problemi locali, come il traffico e la corruzione della polizia. Poi decide di dedicarsi alle favole e quindi, insieme ai suoi collaboratori – tra cui spicca l’amico Ub Iwerks – produce Cappuccetto rosso, I musicanti di Brema, Jack e il fagiolo magico e alcuni altri titoli del genere: questi primi cartoni hanno un certo successo in città. A questo punto Walt ha l’idea di realizzare un live action, Il Paese delle Meraviglie di Alice.
Questo film muto del 1923, di appena dodici minuti, è un piccolo gioiello del cinema di animazione. C’è questa bambina, Alice – interpretata da Virginia Davis – che un giorno visita lo studio; Disney, Iwerks e gli altri animatori le mostrano quello a cui stanno lavorando e all’improvviso i cartoni prendono vita sui loro tavoli da disegno. Tornata a casa, Alice, entusiasta della visita, si addormenta e sogna di prendere un treno per il magico Paese dei cartoni, e qui cominciano le sue avventure, fino a quando sua madre la sveglia. Il film è un successo, ma Walt è un artista e non un imprenditore e dopo pochi mesi il suo studio fallisce: clienti che non pagano, costi di produzione non proporzionati agli incassi, e poi Kansas City è troppo in provincia.
Walt vende tutto, compra un biglietto di sola andata per la California, dove vive già il fratello Roy, e si porta dietro la bobina di Alice’s Wonderland. L’idea piace, si trovano i soldi – che questa volta vengono amministrati dal fratello – si richiamano Ub Iwerks e tutta la “banda” di Kansas City – comprese la piccola Virginia e la madre-manager – e tra il 1924 e il 1927 nascono le Alice Comedies, in tutto cinquantasei cortometraggi, oltre al pilota realizzato a Kansas City.
All’inizio è ancora Virginia, la piccola ragazzina bionda che ricorda Mary Pickford, a interpretare Alice, ma poi le richieste della madre diventano troppo esose. Virginia proseguì ancora per qualche anno la sua carriera come attrice-bambina – una carriera che aveva quantomeno un limite anagrafico – ma non ebbe molta fortuna. Nel 1936 fece l’audizione per doppiare Biancaneve, ma la madre non volle accettare il ruolo perché la paga era troppo bassa. Nei film successivi Alice sarà prima la mora Margie Gray – con un taglio alla Louise Brooks – e poi la bionda Lois Harding. Nessuna di loro due sarà ricordata nella storia del cinema, se non per questi film. Tra l’altro gli ultimi cortometraggi della serie sono sempre più film di animazione e il ruolo di Alice si fa meno importante: per la Disney il futuro è ormai nei cartoni.
Intanto nello studio Disney sono nati Oswald il coniglio fortunato e Mickey Mouse, ma Walt pensa ancora ad Alice. Acquista i diritti delle illustrazioni originali di John Tenniel, e pensa di realizzare un lungometraggio, ancora con la tecnica del live action, con protagonista Mary Pickford – quella vera – già quarantenne, ma ancora la fidanzata d’America. Il progetto però viene abbandonato a favore di Biancaneve e i sette nani. E poi Disney viene battuto sul tempo: nel 1933 esce il film della Paramount, con gli attori in carne e ossa e la sceneggiatura di Jospeh L. Mankiewicz. La Paramount mette a disposizione del film un bel numero di propri attori, per lo più grandi caratteristi, ma anche due giovani che faranno carriera: Gary Cooper per interpretare il Cavaliere bianco e Cary Grant come la Falsa Tartaruga. La piccola Charlotte Henry è una bionda Alice: anche lei non fece successo, l’anno successivo è Bo-Peep in Babes in Toyland, accanto a Stan Laurel e Oliver Hardy; in Italia il titolo sarà tradotto Nel paese delle meraviglie. Ma la sua carriera finisce qui.
Nel 1945, alla fine della guerra, Disney accarezza ancora l’idea di fare un live action: Ginger Rogers potrebbe essere Alice, ma la sceneggiatura dello scrittore di fantascienza Aldous Huxley, a cui ha affidato il compito di “tradurre” per il grande schermo il testo di Carroll, non lo convince. Invece gli piacciono molto i disegni preparatori dell’artista Mary Blair, che si distacca molto dalle immagini di Tenniel. Nel 1946 gli uomini della Disney cominciano finalmente a lavorare al progetto di Alice in Wonderland: sarà un film interamente a cartoni animati, con una nuova sceneggiatura, e si baserà sul lavoro artistico della Blair.
Il film esce nel 1951. Gli appassionati dell’opera di Carroll e gli studiosi lo accolgono con molte critiche. Disney se lo aspetta e non se ne cura: non produce certo i suoi film per i professori di Oxford. Ma il film non riscuote neppure un gran successo commerciale: nel 1951 incassa meno di quanto sia costato. Il film non sarà più rieditato durante la vita di Disney e lo stesso Walt pensava che la “sua” Alice non avesse cuore. Curiosamente il film conosce una “nuova” vita agli inizi degli anni Settanta, a partire dalle università americane e negli ambienti della controcultura, perché le immagini della Blair piacciono molto ai tempi della psichedelia e Alice e i suoi “funghi” diventano di moda. La Disney in un primo momento non apprezzerà questa associazione, tanto che le copie del film vengono ritirate delle università, ma poi gli affari sono più forti di qualunque altra considerazione e da allora il film viene sistematicamente riproposto.
E ormai nell’immaginario collettivo Alice e tutti gli altri personaggi dei libri di Carroll hanno il viso e i colori accesi di quelli del film Disney. I disegni di John Tenniel – che piacevano tanto a Carroll, tanto da spingerlo a tagliare un capitolo di Attraverso lo specchio, perché Tenniel non riusciva a illustrarlo – appassionano ormai solo noi “archeologi” della letteratura. E anche i film successivi – da quello del ’72 con Peter Sellers che fa la Lepre marzolina a quello del 1999 con Peter Ustinov che fa il Tricheco, e perfino quello del 2010 firmato da Tim Burton – non sono sono riusciti a scalzare le righe rosa e viola dello Stregatto.
Il problema del film è che sono passati molti anni da quando Walt faceva balzare fuori dal suo tavolo da disegno quegli animaletti pieni di vita e anche da quando Mickey Mouse era un anarchico topolino alieno alle regole e alle gerarchie che navigava su un battello a vapore. Disney è diventato l’ideologo dell’ordine e del rispetto delle convenzioni, dei buoni che vincono e dei cattivi che muoiono. E Alice non c’entra nulla con tutto questo.
I romanzi di Carroll non hanno una morale o almeno hanno una morale molto diversa da quella di altri grandi classici della letteratura per l’infanzia, come ad esempio il quasi coevo romanzo di Collodi. Pinocchio deve diventare adulto e, per riuscirci, deve passare attraverso una serie di prove sempre più difficili. Ad Alice non sembra proprio che interessi entrare nel mondo degli adulti. Anche perché i grandi corrono sempre, guardano continuamente l’orologio, ma non si capisce esattamente perché abbiano tutta questa fretta e dove debbano andare. I grandi sono sempre arrabbiati e sembra che conoscano un solo modo per risolvere le cose: tagliare delle teste. I grandi non hanno voglia di rispondere alle domande dei bambini, e quando rispondono, lo fanno svogliatamente e a monosillabi. I grandi sono volubili, possono essere da un momento all’altro aggressivi o gentili, a seconda dell’ambiente in cui si trovano. Diciamoci la verità: noi adulti non rendiamo meraviglioso il mondo in cui viviamo.
Il vero “eroe” del libro è il Gatto del Cheshire, che rappresenta il disordine all’interno dell’ordine costituito, anche se è proprio lui che rivela ad Alice che in quel mondo sono tutti matti. Un matto che denuncia la pazzia del mondo in cui lui stesso vive è sano? O continua a essere pazzo? E forse anche Alice è un po’ pazza. Certo è – come Mary Poppins – un’irregolare, che non potrà mai aspirare a entrare nel club delle “principesse Disney”.
C’è un’altra Alice di cui vi voglio parlare e questa volta è un’Alice italiana, un’Alice della Rai. E’ decisamente la mia Alice preferita. Nel settembre 1974 vengono trasmesse sul Secondo programma le quattro puntate di Nel mondo di Alice, il primo sceneggiato a colori per i ragazzi. La regia è di Guido Stagnaro, uno dei padri di Topo Gigio e autore di tanti programmi per la tv dei ragazzi, la sceneggiatura di Guido Davico Bonino, storico del teatro, autore di molti importanti saggi, ma anche di tanti programmi Rai, e di Tinin Mantegazza, scrittore, disegnatore e grande creatore di pupazzi (compreso Dodò), le scene e i costumi del grandissimo Emanuele Luzzati, che disegna anche la sigla. Alice è la mora Milena Vukotic, esile, ma non certo una bambina (ha trentanove anni al tempo dello sceneggiato e ha già lavorato in tanti film importanti). Nello sceneggiato i bellissimi pupazzi di Velia Mantegazza interagiscono con gli attori e il cast è davvero importante (come succedeva sempre in quegli anni negli sceneggiati Rai): Ave Ninchi, Franca Valeri, Edmonda Aldini, Giustino Durano, Walter Valdi, per citarne solo alcuni.
Guardate questo sceneggiato: per fortuna la rete ci permette di conservare e di rivedere anche cose che altrimenti avremmo perduto. Non è proprio rassicurante, rimane certamente una favola, e immagino che i bambini rimarranno stupiti di fronte ad Alice che diventa piccolissima e grandissima, di fronte a quegli strani animali parlanti, di fronte alle carte da gioco che corrono e saltano nel giardino della Regina, ma a noi grandi rimane un senso di strana inquietudine, anche per i colori accessi che usa Luzzati, per le musiche dei fratelli Reverberi, per le frequenti spirali ipnotiche – come in Vertigo di Alfred Hitchcock – per i grandi occhi di Milena Vukotic, che è a un tempo innocente e sensuale. Alice ci affascina e allo stesso tempo ci spaventa. E noi rimaniamo lì, come sospesi, vorremmo attraversare lo specchio, perché siamo annoiati dalla routine del nostro salotto borghese, eppure abbiamo paura di quello che c’è al di là, perché oltre lo specchio alla fine ci siamo sempre noi. Ci spaventa non tanto quello che c’è oltre lo specchio, ma l’immagine di noi stessi che lì vediamo riflessa. E c’è Alice, che non è una donna e non è una bambina, è una creatura senza tempo, forse un po’ demoniaca, che ci accusa, che ci dice che siamo pazzi, e della specie peggiore, ossia i pazzi che non sanno di esserlo.
Mentre il Gatto sogghigna dicendoci:
I’m not crazy. My reality is just different than yours.