Un fantasma si aggira per l’italica provincia: Giuseppe Conte

per mafalda conti
Autore originale del testo: Fausto Anderlini
Quando il vento fa il suo giro
Un fantasma si aggira per l’italica provincia: Giuseppe Conte. Letteralmente tale stando ai media mainstream che ne ignorano totalmente le gesta se non per abbandonarsi al vilipendio. Pur essendo descritto come un decotto spalmato sul nulla o un pallone sgonfio, le masse che Conte è in grado di richiamare nel suo tour lungo la penisola sono in realtà impressionanti. Bagni di folla ben più sostanziosi degli indici di gradimento demoscopici. Una popolarità fisicamente certificata. Pur non trascurando le grandi città, questo fenomeno sembra toccare l’apice soprattutto nelle realtà urbane piccole e medie, cioè nella nervatura dell’Italia periferica. Una constatazione che richiama a una interrogazione su questa parte del paese e sulle fenomenologie politiche che da diverso tempo la riguardano.
Contrariamente a quanto si suole pensare le periferie territoriali e i mille campanili non sono il regno della staticità. La stessa divergenza politica che si registra rispetto ai centri metropolitani si caratterizza per la grande dinamicità e la volatilità che da almeno un quarto di secolo a questa parte segnano le periferie rispetto a un comportamento di voto che nelle grandi aree urbane centrali ha toni assai più strutturati e perduranti. I mondi semplici e aggregati più pervasi dal cambiamento di contro ai mondi complessi e socialmente iperdifferenziati più incentrati sulla stabilità. Un paradosso. Per spiegare il quale bisognerebbe approfondire l’analisi sulla post-modernità ‘periferica’.
Per molto tempo il territorio è stato il serbatoio e lo spazio di radicamento delle ‘sub-culture politiche’, tutte originanti, non per caso, dal mondo rurale agrario. Luogo socialmente strutturato e omogeneo, dove le esperienze hanno carattere collettivo e si fissano come tradizione. Insieme di valori, usi e comportamenti trasferiti per via ascrittiva. L’ortogenesi, cioè la terra e il paesaggio come principio della cultura. Elementi condivisi, sia pure antipodicamente e con basi sociali differenti, da tutte le culture politiche costituenti, specie nelle aree ‘rosse’ e ‘bianche’. La politica aderiva al territorio e ai suoi caratteri ctonii conferendo ai nativi una missione trascendente, nello stesso tempo fissando e involvendo le pratiche comunitarie nella propria rete organizzativa.
Il calco del mondo agrario ha continuato a plasmare a lungo la società locale e i suoi precipitati politici, anche quando le sue basi sociali originarie, incardinate a una storia plurisecolare, erano spente e tramutate dall’industrializzazione diffusa. E siccome non c’è nulla di più legante che la memoria del passato prossimo (anello di congiunzione col trapassato e le sue zone remote e immaginarie) le sub-culture hanno conosciuto una stagione di rinnovato fulgore come agenti e mastice identitario della modernizzazione. Il comunismo, del resto, come il socialismo in generale è stato il precipitato politico della transizione rurale-urbana e agricolo-industriale. Come peraltro il popolarismo cattolico, e perfino il repubblicanesimo, seppure centrati sulla piccola proprietà. Mentre le culture politiche mettevano basi nelle città, il territorio, pure via via sguarnito dalle infrastrutture della stesse (sedi, feste, pratiche organizzative) perdurava come ‘residuo’ ideologico-narrativo. Era anche abitudine dei nuovi operai d’origine contadina appena urbanizzati tornare nei fine settimana alla casa rurale e ricongiungersi con le tribù parentali ivi restanti. Per tutto il periodo del take-off urbano dei ’50-’70 la città ha intfrattenuto un rapporto vivo con la campagna, sebbene via via più spopolata.
Quel che poi è accaduto si può sintetizzare in alcuni elementi di giudizio. Il mondo grande-urbano prendendo forza ha poco alla volta attenuato il rapporto con l’Umland territoriale sino a che transitando nella post-modernità, ha completamente reciso quel retaggio operaio-industriale che legava la città al suo territorio gravitazionale. I partiti si sono a loro volta urbanizzati, perdendo di vista il territorio storico da cui avevano preso le mosse. Il loro insediamento nelle comunità locali si è via via affievolito. Questo stesso territorio ha subito la trasformazione post-moderna. Se fino ai ’90 l’Italia ‘periferica’ aveva assecondato la modernizzazione basata sulla fabbrica diffusa e il suo intimo rapporto sociale con l’ambiente locale, con la post-modernità ha cambiato volto. La fabbrica diffusa è stata fagocitata nel ciclo globale, attingendo a nuove maestranze, sorta di classe operaia di riserva di infima estrazione, senza più la verve dell’emancipazione contadina nella sua biografia. Talvolta con conseguenze distruttive come nelle delocalizzazioni e nell’uscita dal mercato, sino alla desertificazione produttiva del territorio. In più ambiti le periferie sono state investite dallo sprawl suburbano trasformandosi in sterminate quanto puntiformi marmellate residenziali. Sorta di residenza appoderata. Con il risultato di un melting pot socio-demografico composto da popolazioni autoctone, nuovi residenti e immigrati, spesso in reciproco attrito nell’uso del suolo.
In estrema sintesi il mondo territoriale ha perso il contatto con la propria storia, e con esso i mediatori politici che lo presidiavano tenendolo in forma. La post-modernità lo ha letteralmente ‘spianato’ riducendolo a una landa. Non più mediate dalla politica le parlate locali sono rinculate nel senso comune, nell’ovvietà, nella banalità di un vuoto ‘fare come il solito’. L’appartenenza territoriale si è totalmente spoliticizzata, come del resto le reti di volontariato e socialità, divenendo un’autonarrazione di senso comune. La Lega per prima ha compreso il fenomeno e vi ha aderito facendolo proprio come ‘cultura della periferia’ e della marginalità alla ricerca di una revanche contro i centri e il loro establishment..
Ed è qui che si sviluppa il fenomeno dell’aura. Sembra che la domanda del territorio venga dal basso. Ma è un depistamento. Se da un lato i territori secedono e si mettono in proprio, dall’altro sono pur sempre la sede di una piatta promiscuità. E negli spazi vuoti il vento può inoltrarsi a piacimento irrorandolo di materiali simbolici della più varia composizione. E’ il fenomeno dell’aura, di un sentito dire che aleggia e che si propaga in modo meccanico e contagioso anche in assenza di mediatori concreti calati nella vita locale. Sedimentando al suolo non pratiche politiche organizzate, bensì ammassamenti elettorali volatili. Quando all’inizio del secolo studiai la penetrazione della Lega nelle zone rosse scoprii che nei comuni che avevano opzionato in massa la Lega non c’era nè una sede nè un attivista. Nessuno sapeva indicare un appartenente alla lega in carne ed ossa.
I territori sono usciti da sè. Il lLeghismo ha occupato le zone bianche del nord facendo dei bar e delle sagre paesane il so front-desk. In altre zone del nord il berlusconismo forzitalico e penetrato nelle plaghe della bassa alto-padana, un tempo teatro delle subculture social-comuniste a base bracciantile, dai salotti di casa muniti di televisore….la casalinga di Voghera…. Ma non si può dire che solo la destra abbia occupato il vuoto. Il renzismo si è irradiato coinvolgendo le periferie, specie nella zona rossa, ma non solo, conquistandole per un breve periodo. E’ stato il momento di un cambio di giro dell’aura, questa volta sotto forma di una promessa di modernizzazione (rottamazione) che il mondo periferico ha abbracciato come il neofita stupisce davanti a una meraviglia a lui sconosciuta. Fu infatti dalle periferie, piuttosto che dalle città, che prese forza la scalata del neoliberismo in salsa rosa. Ma quasi n contemporanea, fra il 2013 e il 2018 è stata la volta del grillismo. Un’aura con un fall-out travolgente. Nato nel piccolo crogiuolo del comitatismo urbano il M5S si è ingigantito come una valanga nel mondo piatto e negletto delle periferie in un batter d’occhio. Incocciando le disamorate aspettative di rivalsa di giovani titolati senza speranza, precari, impiegati massa suburbanizzati, autonomi e partite iva semi-proletari, operai dispersi nelle golene….. Uno vale uno fu come la convocazione degli stati generali contro le aristocrazie incastellate nel potere. Di questo contagio mi resi conto proprio all’inizio del nuovo millennio quando investigai i viaggiatori sui treni pendolari. Se la Lega aveva preso il volo con cartelli scritti a mano e in dialetto appesi in prossimità delle rotonde le pareti dei vagoni ferroviari furono la bacheca del M5S. L’aura aveva cambiato direzione. Infine c’è stato il ritorno della Lega questa volta nel segno sempre efficace dell’ossessione securitaria, etnica e sociale. Ma con il nuovo involucro del sovranismo iper-nazionale issato contro il dominio delle élites globali e pan-europeiste. L’Italia siamo noi.
L’intelligenza di Salvini è stata di replicare il nomadismo da strapaese del Bossi delle origini, quando pedinava nelle valli alpine, alle località minori dell’Italia di mezzo. Viaggi reali con puntate stile blitz kreig sulle piazze di paese, ma soprattutto mediatico Le folle adunate erano tutt’altro che oceaniche ma i media restituivano via video l’immagine di un leader che unico fra tutti incontrava il popolo e l’italia minore andando a casa sua, persino suonando ai campanelli dei condomini. Fu così che alle europee nelle urne si depositò un’aura travolgente spostando sulla Lega masse di voto che nel 2018 avevano premiato i 5S.
Ora Conte segue lo stesso percorso. Anch’egli unico fra tutti i leader. Con un successo straordinario quale si riscontra solo in occasione di novità percepite. Con una differenza di fondo rispetto alle processioni salviniane. Le masse sono reali, anzichè virtuali, mentre la copertura mediatica è pressochè assente. Conte intercetta così un bisogno di riconoscimento e compattezza vicinale, come massa, delle popolazioni locali. Operai e autonomi, lavoratori manuali in genere, ma anche ceti impiegatizi suburbani (la più gran parte della massa pendolare che viaggia sui precari convogli)….il mondo delle periferie territoriali e dei piccoli centri….
La piazza del centro demico diventa vettore del processo e ne rivaluta l’antico significato politico dopo un’intera epoca nella quale hanno imperversato solo le sagre paesane e i banchetti dei mercati ambulanti. Infatti la grande marmellata residenziale dello sprawl suburbano non è avvenuta nel nulla e nell’indistinto, ma in un terrirorio già insediato da piccole località centrali dotati di storia e capacità funzionali. Per l’abitante delle frazioni ai margini e dei villaggi residenziali dispersi queste piazze si offrono a portata di mano anche per uscire dall’inistinto e dall’isolamento.
Ciò che è nuovo è anche il linguaggio. Per rinfrancare l’idea dell’avvocato del popolo (già un’astuta allusione all’avvocato di Arras…Volturara Appula come l’Artois all’alba della grande rivoluzione….) Conte parla un linguaggio gentile, colto, garbato e tecnicamente ineccepibile. Agli antipodi del vaffa….Siede in compagnia ai tavolini come un borghese ben educato, non a sbranare hamburger ruttando turpiloquio. Tratta il popolo minuto con le buone maniere in qualche modo rispettandolo e restituendogli un’immagine di sè garbata, elegante e signorile. Non quella del volgo plebeo. Incontra così non solo un bisogno di rappresentanza e rassicurazione, ma anche di autostima. Mentre Salvini comunicava al popolo che lui era come lui, cioè zotico e volgare, Conte rinfranca quell’idea di tenerezza che il popolo ha di sè. Come diceva Troisi, ‘siamo una famiglia umile ma onesta’.
Trattasi perciò di un’aura che potrebbe anche mettere radici. Il viaggio di Conte dovrebbe essere guardato come quello di Toqueville in America o di Goethe in Italia. Una scoperta dell’Italia di mezzo che ne rivaluta parti nascoste e ancora inespresse dell’anima. Un bisogno identitario gentile e distinto, se vogliamo ‘signorile’. Conte non mette la felpa e la canottiera per fare intendere al popolo la falsità d’essere come lui. Indossa il vestito nuovo come l’operaio alla domenica, che al decoro ci tiene eccome.. Del resto così ci si presenta quando si va in casa d’altri. Una forma di rispetto. Ed è col fascino di queste armi che Conte sembra arrivare laddove la sinistra si è ritirata.
Se Pier Luigi Bersani sta al ‘contado’ come il grande abate metaforico, Giuseppe Conte sta alla marmellata suburbana come il grande chef culinario. Attenti a quei due. Non c’è coppia che meglio interpreta il palato fine del popolo. E come dice la Marcella dite a L’aura che l’amo.
* Ps.
Quando il vento fa il suo giro è anche il titolo di uno straordinario film di Dritti sulla montagna occitana post-moderna. Una chicca sociologica acuta e penetrante che già utilizzai in un saggio sul Mulino di un decennio orsono.
Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.