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di Luca Billi – 23 luglio 2016
A questo punto è ormai irrilevante sapere se il colpo di stato in Turchia sia stato condotto in maniera dilettantesca dai militari che lo hanno promosso o sia stato organizzato a bella posta da quello stesso regime che avrebbe dovuto abbattere, per avere un pretesto per cominciare la durissima reazione a cui assistiamo sgomenti in questi giorni. La questione rilevante dal punto di vista politico è cosa diventerà quel paese nelle prossime settimane.
Il piano di epurazione messo in atto dal regime è stato così rapido e così esteso – ha interessato migliaia di persone, militari, magistrati, funzionari pubblici, insegnanti – da far credere che fosse già pronto da tempo; anche alcuni passaggi formali, come la veloce istituzione di un tribunale speciale, sono il segnale che questa svolta autoritaria era pianificata da tempo. Quello di Erdogan è un colpo di stato studiato in maniera troppo meticolosa per essere solo la reazione rabbiosa all’attacco di una parte dell’esercito. Anche dal punto di vista della comunicazione il dittatore turco ha dimostrato una cinica precisione: le foto di quei corpi nudi, gettati a terra come oggetti, in attesa di una qualche ipotetica punizione, sono un messaggio potente per fiaccare ogni possibile resistenza all’interno del paese e sembrano ricalcare, non a caso, gli antichi dagherrotipi in cui è stato raccontato il genocidio armeno.
Al di là delle dichiarazioni di facciata e anche della retorica islamista e religiosa sempre più pervasiva in quel paese, l’obiettivo sempre più evidente di queste mosse è consolidare il regime, eliminare ogni residuo di garanzia democratica legato alla costituzione, accentrare il potere nelle mani di Erdogan e dei suoi uomini, garantire i privilegi della classe dominante, riducendo i diritti dei lavoratori. Mi pare che qui da noi, quando si commentano le vicende del regime islamista di Erdogan, si sottolinei più l’aggettivo del sostantivo, che invece per me è centrale.
In Turchia in questi giorni è nato un regime, che incidentalmente è islamico, ma poteva essere anche di segno diverso. Erdogan aveva bisogno di un’ideologia, non aveva il tempo e i mezzi per costruirla – come invece fecero i regimi fascisti all’inizio del secolo scorso – e ha usato quella che aveva pronta, quella che è sostanzialmente pronta in ogni paese, ossia la religione, a cui sono legati una serie di valori tradizionali e conservatori che fanno sempre comodo in contesti del genere. La modernità fa paura, le novità di un mondo che cambia fanno paura – a volte anche a ragione, ad esempio tutti noi rimaniamo perplessi e impauriti di fronte ai cambiamenti imposti dalla scienza e dalla tecnologia – e quindi chi intercetta questa paura, chi sembra difenderci da questi cambiamenti così repentini, che non ci sentiamo capaci di capire e di gestire, finisce per imporsi, per averne un vantaggio anche politico.
A ben guardare il regime che è nato in questi giorni in Turchia, a seguito del colpo di stato – questo sì riuscito – di Erdogan ha molti punti in contatto con quelli fascisti impostisi in Europa all’inizio del secolo scorso: l’uso politico della religione e della tradizione, l’enfasi nazionalista, il prepotente maschilismo e l’esaltazione della forza, la chiusura verso l’altro, il diverso, dentro e fuori i confini. Ma è simile a quei regimi non solo per questi aspetti esteriori: il regime turco è la maschera che serve ai poteri economici per controllare un paese decisivo dal punto di vista strategico per la sua posizione, per la sua capacità di gestire la produzione e il commercio di alcuni beni fondamentali, come il gas naturale. Oppure per il ruolo che ha nel controllo dell’acqua: in Turchia ci sono le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate e questo dà a quel paese un potere enorme su tutta la regione. Il regime di Erdogan serve a garantire i privilegi di questi poteri economici e di conseguenza a impedire lo sviluppo di una cultura dei diritti, politici ed economici. E infatti uno dei bersagli del regime sono le donne, a cui si vuole togliere il ruolo che hanno conquistato – a fatica là come qui da noi – in quella società, perché il regime è consapevole che la crescita del movimento delle donne – a ogni latitudine – finisce per far crescere la democrazia e la democrazia alla lunga fa crescere la consapevolezza dei diritti economici. Lo sapevano bene i nostri padri Costituenti che vollero mettere insieme, nell’art. 1 della legge fondamentale del nuovo stato nato dopo la dittatura fascista, i concetti di democrazia e di lavoro. E lo sanno bene i nostri nuovi padroni, che cercano di toglierci insieme la democrazia e i diritti del lavoro conquistati in anni di lotte.
Molti si stupiscono della timidezza con cui gli Stati Uniti e i paesi europei reagiscono alle decisioni di Erdogan. Francamente il problema non è solo tattico, perché la Turchia è nella Nato – anzi ha il secondo esercito per numero di uomini all’interno dell’alleanza – ma perché quello che sta facendo Erdogan è quello che chi comanda davvero vorrebbe imporre anche negli altri paesi. E’ notizia di questi giorni che in Francia è diventata legge senza un passaggio parlamentare la Loi travail, ossia la nuova norma che regola il mercato del lavoro in quel paese, rendendo più facili i licenziamenti, togliendo potere alla contrattazione nazionale, limitando i diritti dei lavoratori – esattamente come il jobs act, perché quelli che impongono queste leggi non stanno né a Roma né a Parigi. Il governo ha sfruttato ogni escamotage costituzionale e soprattutto ha approfittato, molto cinicamente, del clima di emergenza creato dal pericolo del terrorismo: non credo sia un caso che il definitivo passaggio istituzionale che ha portato alla promulgazione di questa legge abbia coinciso con l’ultimo, terribile, attentato a Nizza. In Francia ormai da un anno vige lo stato d’emergenza, che evidentemente non è servito a impedire nuovi attentati, ma che si sta rivelando molto utile a tenere sotto controllo i cortei sindacali. Hollande è meglio di Erdogan? Certamente sì, perché so bene che in queste cose conta anche la misura, conta il modo in cui le cose si fanno, ma l’idea che sta dietro alle scelte dell’uno e dell’altro sono purtroppo le stesse e sono ad entrambi suggerite – o sarebbe dire meglio imposte – da poteri incontrollati e incontrollabili che detengono gran parte della ricchezza del pianeta.
So che discorsi del genere fanno storcere il naso a molti miei lettori e vi assicuro che capisco la differenza tra il regime turco e i regimi in cui viviamo noi: io posso scrivere queste cose, posso criticare, anche aspramente, il capo di stato del mio paese senza aver paura di perdere il mio posto di lavoro, la mia casa, la mia vita, mentre un blogger turco che dicesse queste cose sarebbe già imprigionato. Proprio per il fatto che abbiamo ancora questa possibilità – temo di dover dire questo privilegio, visto quello che succede nel mondo – non possiamo stare zitti. E dobbiamo dire che certamente Erdogan è nemico della democrazia, ma che anche i governi europei – anche quello italiano nella sua insipienza – non hanno particolare cura di questa forma di governo che è difficile da mantenere viva, che va protetta e salvaguardata, proprio perché ha nemici potenti. Stiamo correndo verso un mondo dove c’è meno democrazia – o spesso ci sono soltanto le sue forme esteriori – perché ci stanno facendo credere che la democrazia non sia in grado d proteggerci dai pericoli di questo mondo che cambia così velocemente. Per questo io ho paura di Hollande, di Merkel, di Hillary Clinton, come ho paura di Erdogan e li considero nostri nemici, perché nostri nemici sono quelli che li sostengono, li finanziano, in alcuni casi estremi – come quello italiano – li creano dal nulla. Diciamo allora la verità, ossia che il colpo di stato di Erdogan sta facendo nascere in Turchia un regime non islamista, ma capitalista, in cui il potere è concentrato nelle mani dei pochissimi che controllano le ricchezze e il cui scopo è aumentare queste ricchezze, a spese della maggioranza dei cittadini e dell’ambiente. Per questo, soprattutto in questi giorni, urliamo forte che i nostri veri nemici sono i fondamentalisti capitalisti. Questa dovrà essere la nostra lotta, in Turchia, in Francia, in tutto il mondo.