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di Luca Billi 6 dicembre 2016
La crisi che si è aperta con il fragoroso voto di domenica 4 dicembre e con le conseguenti e inevitabili dimissioni del presidente del consiglio è ora nelle mani del Presidente della Repubblica, come è giusto che sia. Come in un grande gioco dell’oca, un colpo di dadi ci ha riportati alla casella di partenza: perché non possiamo dimenticare che il referendum ha chiuso un ciclo politico cominciato esattamente cinque anni fa, proprio nelle ovattate stanze del Quirinale.
Se non ricordiamo quei giorni del novembre 2011 facciamo fatica a inquadrare con esattezza quello che è successo domenica. Sotto la spinta fortissima delle autorità finanziarie europee – dovete ricordare la lettera a firma Trichet-Draghi che imponeva una serie di riforme, di fatto commissariando l’esecutivo, i risolini di Merkel e Sarkozy, il clima da fine impero di quelle settimane – l’allora inquilino del Quirinale, con una forzatura istituzionale e in maniera assolutamente irrituale, fece dimettere il presidente del consiglio in carica, forte comunque di un mandato elettorale, e nominò a quella carica Mario Monti, opportunamente fatto diventare senatore a vita pochi giorni prima di quella investitura. Molte persone applaudirono a quel cambio di governo, una folla festeggiò in piazza del Quirinale, perché allora il premier era Berlusconi, ma quella gioia fu un errore e un’illusione. Fu un errore festeggiare la fine del nostro avversario politico proprio perché avveniva a quel modo, al di fuori della prassi costituzionale, e fu un’illusione, perché la situazione non sarebbe migliorata senza Berlusconi. Anzi.
Dal novembre del 2011 il nostro paese ha vissuto in una sorta di perenne stato di emergenza, con i nostri conti sotto la tagliola delle autorità di Bruxelles e Francoforte e soprattutto con un ruolo predominante del Presidente della Repubblica, diventato, anche per la debolezza degli altri attori politici, il dominus della politica italiana, tanto da essere rieletto a quella carica, un’altra forzatura istituzionale che ha violato lo spirito, se non la lettera, della Costituzione. Certo formalmente in questi cinque il governo ha sempre ottenuto la fiducia del parlamento, ma non si poteva diventare premier senza l’avallo del Quirinale, come ha provato a sua spese il povero Bersani; certo in questi cinque anni l’Italia ha continuato a essere una repubblica parlamentare, ma è stata un’altra cosa, perché l’attività legislativa è stata di fatto delegata all’esecutivo, e siamo andati avanti a colpi di decreti, su cui si imponeva il voto di fiducia per tacitare il parlamento; certo in questi cinque anni la Costituzione era ancora in vigore, ma è stata modificata in alcuni punti fondamentali, come con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio, che segna il passaggio di sovranità alle istituzioni europee. La riforma che abbiamo bocciato domenica scorsa faceva diventare norma costituzionale quello che Napolitano aveva imposto nella pratica e infatti il vero sconfitto del 4 dicembre è il presidente emerito, anche più di renzi, perché è lui il vero padre di questa riforma.
Con il voto del 4 dicembre, con quel nostro NO, abbiamo detto che quella riforma non ci va bene, perché toglie potere ai cittadini, perché mina il principio di rappresentanza che è vitale per una democrazia. Il voto del 4 dicembre è stato importante soprattutto per questo.
Poi, chiuso un ciclo, occorre aprirne un altro e non è chiaro cosa succederà. Certo molto dipende dall’attuale Presidente, la cui prudenza fino ad ora è stata al limite dell’inconsistenza, perché nel disegno costruito dal suo predecessore poteva esserci solo un uomo forte e ora quell’uomo sedeva a Palazzo Chigi, quindi al Quirinale doveva esserci qualcuno che si limitasse al taglio dei nastri, alle cerimonie istituzionali, ai messaggi rassicuranti di fine anno. Inaspettatamente all’uomo in grigio del Quirinale adesso tocca gestire questa fase di vuoto. Speriamo che ascolti la voce che si è alzata dal paese e soprattutto che si attenga allo spirito della Costituzione, come la maggioranza di noi gli ha chiesto con il voto di domenica. Personalmente non ho molta fiducia, ma l’uomo, da vecchio democristiano, potrebbe stupirci.