Un anno di Trump, un anno in cui non è successo niente

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
Url fonte: http://www.ipensieridiprotagora.com/2017/11/considerazioni-libere-420-proposito-di.html

di Luca Billi, 10 novembre 2017

Dodici mesi fa ci siamo svegliati con la notizia che Donald Trump sarebbe stato per i quattro anni successivi il presidente degli Stati Uniti d’America. A leggere i commenti di quelle ore e di quei giorni sembrava che tutto sarebbe cambiato e ovviamente non è cambiato nulla. Perché nulla poteva davvero cambiare.
E’ cambiato il fotografo ufficiale della Casa Bianca, l’orto presidenziale è stato ridimensionato, ma al di là di questi aspetti di folklore politico, che tanto appassionano i giornalisti, quest’anno non è successo assolutamente nulla. Perché nulla doveva davvero succedere.
Capisco che in una cosa così complicata come il potere, anche la sua rappresentazione conta e quindi il cambio di stile presidenziale è un messaggio preciso, ma temo che questa ossessiva concentrazione per come il potere viene rappresentato ci nasconda quello che il potere effettivamente è. E probabilmente questo è proprio l’obiettivo. Mentre analizziamo ogni minima differenza di stile tra le due coppie presidenziali, perdiamo di vista la sostanziale continuità che c’è dagli anni Ottanta, ossia dalla presidenza di Ronald Reagan, il vero elemento di rottura e lo spartiacque tra un prima e un dopo. Non solo per gli Stati Uniti.
Di fatto la presidenza Reagan segna il momento in cui è finito un lungo ciclo che era iniziato alla fine della seconda guerra mondiale. Le forze del capitale, colpite al cuore dalla crisi finanziaria del ’29, avevano dovuto cedere parte di quel potere che avevano assunto tra la fine dell’Ottocento e soprattutto nei primi decenni del Novecento, grazie anche al primo conflitto mondiale. Quella guerra, di cui erano state le assolute protagoniste e le vere vincitrici, finì per essere esiziale alle forze del capitale, proprio perché erano cresciute troppo, senza alcun controllo – il capitale non è mai capace di autoregolarsi, è smodato per natura – e quindi la crisi del ’29 fu l’inevitabile tracollo di una costruzione che, come la torre di Babele nella tradizione biblica, era destinata a crollare a causa dell’arroganza di chi la voleva erigere sempre più alta.
Il dramma dei fascismi e soprattutto la seconda guerra mondiale offrirono alle forze del capitale la possibilità di riprendersi, a patto che accettassero delle regole, che ovviamente furono imposte loro dall’esterno. Il secondo dopoguerra è stato il tempo in cui le idee del socialismo, attraverso la mediazione della politica, hanno definito i limiti entro cui il capitalismo poteva svolgere il proprio corso.
A livello internazionale questo equilibro era rappresentato dal bipolarismo tra Stati Uniti e Unione sovietica, ma in ogni paese – Stati Uniti compresi – esisteva questo equilibrio, perché – al di là delle etichette diverse che questo movimento assumeva di paese in paese – i lavoratori avevano compreso il proprio ruolo, avevano capito che erano stati loro a portare il peso del conflitto e a sconfiggere il fascismo, per cui ora ne chiedevano conto. Non erano più disposti, dopo tutto quello che avevano patito, a tornare sudditi delle forze del capitale, come era all’inizio del Novecento.
Era cambiato il mondo ed erano cambiati i soggetti che agivano sul piano politico. Per questo almeno fino a tutti gli anni Settanta la politica era un potere, un potere autonomo, che certo poteva subire condizionamenti da quello economico e ne subì – l’omicidio Kennedy è l’episodio più emblematico di questo scontro tra la politica e le forze del capitale – ma chi sedeva alla Casa Bianca e al Congresso – così come i leader europei – erano espressione di quel potere che aveva la forza di tenere il capitalismo entro dei limiti, che da solo non sarebbe riuscito a darsi e che non avrebbe saputo e voluto rispettare.
Peraltro – ed è uno degli aspetti più interessanti di questa storia – proprio il fatto che il capitalismo fosse soggetto a dei limiti ha permesso l’enorme sviluppo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, quello che in Italia siamo soliti chiamare boom. Il capitalismo è uscito davvero dalla crisi mortale del ’29 – quando qualcuno disse che era definitivamente morto – proprio grazie a questi limiti, a quanto di socialismo la politica seppe imporre.
La presidenza Reagan – seguendo quella di Nixon – tolse quei limiti e lasciò che il capitalismo sfogasse tutta la sua forza. Nixon, come sappiamo, fu fermato. Reagan no: ormai il capitalismo era diventato troppo forte, troppo capace di condizionare le persone a livello etico e culturale e quindi si spezzò l’equilibrio che aveva regolato il mondo dalla fine della seconda guerra mondiale. Ora noi viviamo in quel mondo lì, in cui il capitalismo domina senza freni, dispiegando tutta la propria violenza, non riconoscendo alcun limite e alcuna regola, perché incapace di darsene e troppo forte per essere costretto ad accettarle dall’esterno. Di fronte a questo potere davvero cambia poco chi sia il presidente degli Stati Uniti, se un intellettuale afroamericano di idee progressiste o un miliardario reazionario wasp. Certo per le forze del capitale è più facile avere a che fare con un miliardario, ma è sostanzialmente ininfluente, perché le decisioni che contano vengono prese in altre sedi o meglio ormai non serve neppure più che ci sia un luogo in cui si prendono le decisioni, basta lasciare libera la bestia del capitale: meno regole ha, più si muove con violenza, più persone uccide, più ricche diventano le pochissime persone che alla fine dell’anno incassano i dividendi.
Forse l’unica speranza è che il sistema, come successe nel ’29, collassi su se stesso. Sappiamo però che cosa significò allora, che conseguenze terribili ebbe quel disastro, cosa significò la guerra che ne seguì per intere generazioni. Alle condizioni dei nostri tempi, con la tecnologia distruttiva di cui disponiamo, si tratta di una prospettiva che ci lascia semplicemente annichiliti.

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