Fonte: MicroMega
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Il 18 aprile ci sono state manifestazioni in Italia e in tutto il mondo per chiedere il blocco del trattato. Due ideologie contrastanti, due globalizzazioni a confronto: da un lato gli interessi di poteri forti e corporation, dall’altra la difesa di diritti, welfare e servizi
di Francesca De Benedetti 18 aprile 2015
Mentre l’Italia fa ancora i conti con le ferite aperte del G8 del 2001, due globalizzazioni scendono in campo. Una sembra uno scioglilingua ma potrebbe cambiare molte cose : il “TTIP”, che sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Lunedì 20 aprile, a New York, prende avvio il nono round di negoziati per questo accordo di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti. Il premier italiano a Washington lo ha definito “un grande obiettivo verso il quale l’Italia sta spingendo con grande determinazione” e dal quale “avrebbe tutto da guadagnare”. Sintonia perfetta quindi con Barack Obama, che a fine mandato spinge l’acceleratore e – con l’accordo dei repubblicani – ottiene un mandato per “negoziare veloce”.
Per i sostenitori dell’accordo, l’economia ne gioverà, l’occupazione crescerà, gli investimenti ne verranno liberati. È la globalizzazione che a parole comincia dal vantaggio economico, dalla caduta delle barriere, dalla ricerca di una omogeneità di regole. L’altra globalizzazione è quella che scende in piazza contro l’accordo e l’opacità delle trattative: un milione e settecentomila europei che hanno firmato la petizione per chiedere alla Commissione lo stop delle trattative. E le quasi 700 città del mondo che hanno scelto una data comune, il 18 aprile, per chiedere il blocco dell’accordo: c’è anche l’America che dissente, e l’Italia partecipa con proteste in decine di città e il sostegno di una galassia varia di associazioni, circa 200. Sembra un film già visto, un ricorso della Storia, la visione di una terra promessa della globalizzazione economica contro il fronte per la salvaguardia e la globalizzazione dei diritti. E in parte lo è, ma è anche molto di più. Vediamo perché.
Dietro il freddo acronimo TTIP c’è un progetto ampio che nasce con un peccato originale: la mancanza di trasparenza. Dopo anni di trattative condotte in segreto, di opacità e di fughe di notizie, Bruxelles ha recentemente avviato un percorso di pubblicazione di dossier, ma la pubblicità dei negoziati è ancora limitata. In superficie, le due parti riunite al tavolo dovrebbero individuare standard comuni che consentano appunto il libero scambio.
Un percorso analogo viene svolto parallelamente per TISA, l’accordo che riguarda non le merci ma i servizi (comprendendo sanità, istruzione e così via). E che – come è venuto alla luce grazie ai leaks – è orientato verso la privatizzazione dei servizi medesimi. Al di là degli effetti sull’economia che l’apertura delle barriere comporterebbe, il passo che viene prima è già controverso: abbattere i dazi e armonizzare le norme significa anche abbassare le tutele, almeno sui fronti in cui l’Unione europea ha una legislazione più avanzata.
Il “principio di precauzione” ad esempio fa sì che in Europa un prodotto non possa sbarcare sul mercato senza prima aver dato prova di essere sicuro. In America non è obbligatorio segnalare gli ogm nell’etichetta. L’Unione ha tutele più forti nel campo della privacy e dei dati. Gli esempi sono tanti e riguardano i settori più svariati, dall’agricoltura alla sicurezza dei lavoratori, passando per internet.
Ma guardando a fondo, c’è di più. I negoziati si orientano verso una progressiva erosione dei servizi pubblici: dove un servizio non è esplicitamente regolamentato come pubblico, allora vale la sua privatizzazione. Ma soprattutto, la progressiva e difficoltosa entrata in scena del TTIP nel dibattito pubblico ha svelato (e in parte rallentato) l’adozione della possibilità che le corporation “chiamassero a giudizio” i governi. Se una società privata ritiene che un governo stia minando la realizzazione di interessi commerciali e non solo, garantiti dal trattato di libero scambio, allora può portarlo in tribunale. Sembra una improbabile prevaricazione delle corporation sui cittadini, e invece è già realtà in accordi come il Nafta. E abbiamo già visto la francese Veolia fare causa all’Egitto per aver aumentato il salario minimo, o lo svedese Vattenfall tentare di portare in tribunale la Germania per aver annunciato l’uscita dal nucleare. Il tutto è condito dal modo in cui le trattative sono state condotte: delega, riservatezza, grandi pressioni delle lobbies, un prolungato silenzio mediatico.
Tra il 2000 di “No logo”, il 2001 del G8 e il 2015 di “Stop TTIP”, sono passati 15 anni. E soprattutto la Storia degli ultimi 7 ci ha raccontato con l’evidenza le luci e le ombre di un modello di globalizzazione orientato al neoliberismo. Ci ha mostrato la crisi profonda che pure – come scrive Colin Crouch – non ha mandato in soffitta quel modello. Il “logo” che si è esteso dal brand degli oggetti ai monopoli dell’informazione e ai padroni della rete. Le diseguaglianze denunciate tanto in piazza dai movimenti come Occupy e Indignados, quanto da intellettuali come Thomas Piketty. La crisi non solo economica e finanziaria, ma della rappresentanza. E i movimenti stessi, comprese le istanze ambientaliste e femministe, sono stati in parte fagocitati dal mercato, ne parlano la lingua: su questo aspetto ci mettono bene in guardia tanto Luc Boltanski quanto Slavoj Zizek e Nancy Fraser.
L’Europa che sta delegando i suoi commissari a trattare per il libero scambio è la stessa che si confronta quotidianamente con le contraddizioni di un’integrazione avviata sul piano economico ma zoppa sul fronte della decisione politica democratica. Non è forse un enorme paradosso che lo stesso sistema di cui abbiamo visto gli aspetti deteriori con la crisi del 2008 torni alla ribalta scommettendo sul tavolo da gioco cifre sempre più alte? Naomi Klein, la voce antiglobalizzazione che fu, in quindici anni non ha perso l’ottimismo: “Sembra, che le cose vadano peggio – dice nell’intervista a Repubblica – ma quel modello ideologico che denunciavo con No Logo è in profonda crisi. Non a caso il libro di Piketty è stato ben accolto da una parte del mondo lib stesso. Nessuno più racconta quel tipo di globalizzazione come fosse un’utopia o una terra promessa”.
Eppure quel modello trova ancora i suoi sostenitori convinti e una sua estensione proprio nel TTIP. E quindici anni dopo, migliaia di cittadini in tutto il mondo ancora denunciano che mentre la globalizzazione avanza, mentre il corpo cresce, il coinvolgimento democratico non è abbastanza: si estende il corpo, ma la testa è sempre la stessa.