Fonte: corriere della sera
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Come nel caso della Grecia, si rimane fino all’ultimo in bilico tra il lieto fine e l’esito tragico. Il testo si insegna nelle scuole come una riflessione sull’onore, la vergogna e la politica. Riflessione più che mai urgente per tutte le parti in causa anche per il caso greco. Dopo quattro mesi di incertezza ed errori da ogni parte, i negoziati tra Atene e la troika (comunque la si voglia chiamare adesso) sembrano ora focalizzarsi esclusivamente su aspetti di bilancio, volti a un accordo dell’ultimo minuto che eviti il peggio ma che non garantisce alcuna sostenibilità di lungo periodo. Non c’è tempo, né volontà politica per cercare di costruire un percorso con un orizzonte non immediato, basato sulla coerenza tra un programma riformatore e la sostenibilità di bilancio. Si stanno ripetendo gli errori del passato. È probabile (ma assolutamente non certo) che, nonostante la confusione di messaggi, la Grecia pagherà il Fmi alla prossima scadenza – si tratta di pochi soldi – e che ci si ritrovi alla fine di giugno senza un incidente maggiore. A quel punto è probabile che si arrivi a un accordo per ottenere l’esborso della ultima tranche prevista dal secondo programma di aiuti o, ancora più probabile, che per arrivarci si prenderà ancora un po’ di tempo e si andrà a nuove elezioni. Ancora tempo perso per la ripresa, ancora incertezza e possibilità di incidenti di percorso.
Ma anche se lo scenario più roseo si materializzasse – cioè un accordo pieno sul secondo programma – questa non sarà certo la fine della saga greca. La Grecia avrà bisogno di un terzo programma di aiuti. Questo dovrebbe idealmente essere basato su buoni principi, che evitino il disastro dei primi due. E paradossalmente sembra che ormai in Europa ci sia un consenso su quali siano questi principi. Per esempio, bisogna evitare che le riforme – necessarie – siano pro-cicliche, cioè limitino la capacità di spesa dei cittadini quando l’economia è in recessione. Anche l’Ocse sostiene sia meglio cominciare prima dalle riforme meno socialmente divisive: dal mercato dei prodotti alla riforma dello Stato, al sistema giudiziario ma comunque non dal lavoro. Inoltre, ormai sono molti a dire che non si può imporre un surplus primario irrealistico che finisca, come è avvenuto nel passato, per strozzare l’economia. Ma se su questi principi di base c’è un largo consenso, quale è la difficolta a formulare un nuovo programma o meglio a costruire il ponte tra un accordo sulla chiusura del secondo e la formulazione del terzo? I problemi sono due. Primo, non è chiaro se il governo greco e l’Europa abbiano lo spazio politico e quindi la volontà di farlo. Secondo, anche se lo avessero, non è chiaro se la Grecia sia capace, pur condividendolo, di metterlo in pratica. Ma la condivisione sul contenuto del programma e la capacità di attuarlo sono due condizioni essenziali per la sua credibilità e il suo successo.
Se nessuna delle parti in causa, come sembra, sarà capace di partire da questa osservazione essenziale e quindi di prendere la leadership del negoziato, si aprono due scenari alternativi. Il primo è che si continui come nel passato: negoziati infiniti su aspetti esclusivamente di bilancio e un susseguirsi di accordi dell’ultimo secondo per continuare a sopravvivere e non creare un incidente costoso per l’Unione. La Grecia, secondo questo scenario, vivrebbe ai margini dell’Unione, un po’ sussidiata e un po’ depauperizzata. Il secondo è che la Grecia vada in default , fallisca ed esca dall’euro. Con quest’ultima opzione non è realistico pensare che ciò che l’Europa le ha prestato sia restituito nella sua interezza. Sperare in una restituzione del 50% è fin troppo ottimista. Ma se è cosi l’Italia, terzo Paese creditore di Atene, tornerebbe a essere a rischio e per l’Unione si riaprirebbe il problema di come far fronte alla sostenibilità del debito sovrano senza un intervento massiccio della Banca entrale europea. Facendo vacillare quel fragile consenso così faticosamente costruito.