Trent’anni fa (con la caduta del muro di Berlino) scambiammo la fine della pace per la fine della guerra.

per Gian Franco Ferraris
Fonte: Redazione di Limes

L’ultima parola ai popoli muti

Trent’anni fa (con la caduta del muro di Berlino) scambiammo la fine della pace per la fine della guerra.

Carta di Laura Canali - 2022Carta di Laura Canali – 2022

1. Trent’anni fa scambiammo la fine della pace per la fine della guerra. Inversione di parole e cose: avendo bollato «guerra fredda» la lunga tregua europea, preferimmo trascurare che crollato un ordine fondato sull’equilibrio del terrore e non avendone negoziato uno nuovo fra vincitori (involontari) e vinti (suicidi), l’instabilità sarebbe stata la cifra del nostro futuro. Altro che Pax Europea.


Nella primavera del 1991, appena sei mesi dopo l’unificazione della Germania e altrettanti prima della disintegrazione dell’Unione Sovietica, scoppiarono le guerre di successione jugoslava. Il ministro degli Esteri lussemburghese Jacques Poos presto ruggì: «Questa è l’ora dell’Europa, non degli americani» 1. Lo fu. Proprio perché i pompieri eravamo noi europei – con le notevoli eccezioni di tedeschi, austriaci e vaticani – l’incendio dilagò. Sintomo di altra confusione fra retorica e realtà, di cui restiamo prigionieri: ovvero che la chiacchiera sull’Europa bastasse ad elevarci al rango di attori sul palcoscenico delle potenze. Quasi l’Unione Europea non fosse, sotto la Nato, il secondo pilastro dell’impero europeo dell’America (Iea), sorto sulle ceneri della definitiva resa dei conti fra gli imperi veterocontinentali. Leuropa, se volessimo trarne maschera della commedia dell’arte, un po’ Arlecchino e molto Balanzone. Quale resta.


Furono come d’abitudine gli Stati Uniti a risvegliarci dal sogno scaduto in incubo, dopo otto anni di stragi balcaniche. L’attacco via Nato alla Jugoslavia sedò nel 1999 quel conflitto interminato. Noi europei ne guadagnavamo due decenni abbondanti di tregua. Pochi però colsero il doppio sottotesto cifrato che l’America volle inscrivere alla base di quel monumento alla superpotenza unica: l’inizio della guerra contro Milošević senza avvertire la Russia, tanto da spingere l’allora primo ministro Evgenij Primakov, in viaggio d’affari verso Washington, a invertire la rotta per rientrarsene umiliato a Mosca (24 marzo 1999); e il bombardamento non accidentale dell’ambasciata di Cina a Belgrado (7 maggio).


Tanto per chiarire chi fossero gli avversari permanenti dell’America. In pace e in guerra. Firmato Bill Clinton, che nel nostro candore post-storico ricordiamo come il presidente dell’it’s the economy, stupid!, lui che oltre allo schiaffo a Primakov e al missile di avvertimento a Pechino trovò il tempo di inaugurare la sequenza degli allargamenti della Nato, ammettendovi Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca (12 marzo 1999). Vernissage di un’avanzata potenzialmente illimitata, almeno nella percezione russa. Pretesto per l’attacco preventivo di Putin contro un popolo che voleva versione minore del proprio e che sta trasformando in nazione fieramente indipendente, ribollente di russofobia.


L’invasione russa dell’Ucraina (carta a colori 1) e il pur ambiguo rifiuto cinese di condannarla si autolegittimano nella memoria del triplice affronto d’allora. Il nostro sonnambolico scivolamento nella tragedia ucraina deriva dalla rimozione del conflitto jugoslavo, forse destinato a rientrare dalla finestra provvisoriamente socchiusa con la sconfitta per mano americana della Serbia.


Paghiamo il prezzo di non aver regolato sull’onda dell’Ottantanove i rapporti con Mosca. Noi occidentali, Stati Uniti in testa, avremmo potuto e dovuto intendere allora che senza includere la Russia più debole di sempre nei nuovi equilibri continentali ci saremmo poi o prima imbattuti nel suo fantasma avvelenato, gonfio di frustrazione come ogni potenza umiliata. Il revisionismo dei vinti è l’altra faccia dell’arroganza dei vincitori. Tanto più pericoloso in quanto quella nuova Moscovia ricompressa nelle dimensioni proto-settecentesche, quando per la prima volta tentò di affacciarsi all’Europa, imperniava la propria identità sulla forza e sul mito delle armi. E a differenza di noi irenici veterocontinentali dall’età mediana ormai prossima alla cinquantina – i russi restano appena sotto i quaranta – quell’estrema risorsa hanno sempre inclinato a usarla. 


Avevamo dimenticato quella mina nucleare sepolta alla frontiera del mobile recinto atlantico. Potevamo disinnescarla per tempo. Includendone il proprietario nei nuovi equilibri continentali. La lezione della pace chiamata guerra fredda era lì a ricordarcelo. In tre punti.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Primo. Da che mondo è mondo le potenze si dotano di sfere d’influenza. Per informazioni rivolgersi ad americani (dottrina Monroe, 1823) e britannici (piano Churchill di partizione segreta dell’Europa vidimato da Stalin nel 1944), fino all’Alleanza Atlantica, organizzazione dell’egemonia statunitense sul Vecchio Continente. 


Secondo. Quando le sfere d’influenza fra due imperi sono incerte o contestate, si concorda di tollerare una zona neutra, a scanso di frizioni capaci di generare la scintilla della guerra. Vedasi crisi ucraina e trattative in corso fra Kiev (Washington) e Mosca, che se anticipate avrebbero forse evitato il massacro. 


Terzo. Opposte ideologie non impediscono l’intesa di fatto o anche di diritto sulle regole della convivenza fra rivali. Stati Uniti e Unione Sovietica docent. La Russia che aveva rinnegato l’esperimento comunista e che insiste a farlo – le nostalgie bolsceviche non si riferiscono al credo di Lenin, ma alla vittoriosa potenza di Stalin quale continuatore dell’impero zarista – non sarebbe stata eccezione. Con la Federazione Russa in deriva iper-autoritaria dovremo venire a patti, comunque finisca la guerra. Sempre che non si disintegri prima.


Non è mai tardi per ricordarci che la relazione fra potenze verte su poche regole inaggirabili. Specie in tempo di guerra. Rammentarle per adattarle alla nostra condizione è prova di saggezza. Medicina contro gli isterismi militaristici che ci annebbiano la vista. Se qualcosa di utile potrà scaturire dalla tragedia in corso, sarà di riportarci con i piedi per terra. Nel mondo com’è, che scambiavamo per quello che dovrebbe essere. La storia continua. E ne siamo corresponsabili. 


2. Eccoci di nuovo in guerra senza volerlo né saperlo ammettere a noi stessi. Comunque finisca noi italiani abbiamo perso quanto credevamo ci spettasse per divina provvisione: la certezza della pace in Europa. Siamo cobelligeranti per ora a distanza nella guerra alla Russia cui fingiamo di non partecipare. Insieme ai soci euroatlantici e agli altri occidentali, compresi finti neutri del calibro di Svezia, Finlandia, Austria e Svizzera. Uniti e solidali in apparenza, più divisi di sempre sotto la soglia della propaganda. Lo confermano le pagelle assegnate in videoconferenza da Zelens’kyj ai leader dei Ventisette, neanche fossero scolaretti (carta 1). Tutti abbastanza ininfluenti nella dimensione strategica affidata agli Usa. Grado al quale conclusa questa fase della guerra saranno riscritti i rapporti di forza su scala globale.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


E che dopo la (provvisoria?) rinuncia russa a Kiev e l’avvio di negoziati seri destinati a inaugurare un percorso di tregue interrotte, certo non di vera pace, avrà molto a che vedere con l’esito tattico dello scontro sul terreno ucraino fra l’aggressore russo e la resistenza locale variamente supportata dai soci atlantici. Specie polacchi, baltici, britannici e americani, in ordine di entusiasmo (carta 2). Fronte che ha costretto Mosca a ripiegare, per ora, sull’obiettivo minimo: la verticale che dalla Federazione Russa intende collegare il Donbas allargato alla Crimea e a Sebastopoli.


La campana che Putin ha fatto suonare il 24 febbraio sarà pure eco di quella balcanica, ma batte il ritmo di una sfida incommensurabilmente superiore. Doveva celebrare il fulmineo trionfo della grande potenza russa, tale da indurre l’America a riammetterla nell’ordine europeo. Quasi Washington potesse archiviare senza combattere il bottino conquistato in due guerre mondiali. Con mossa da judoka – sbeffeggio al Putin cintura nera – gli americani hanno fatto leva sull’avventurismo del Cremlino. Senza ufficialmente schierare un solo uomo sul terreno ma avendo armato da anni gli ucraini. E stringendo devastanti sanzioni economiche al collo della Russia. Quindi indirettamente al nostro. In memoria di Poos, deceduto cinque giorni prima dell’invasione.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Ci par di sentire il brusio dei complottisti, per i quali Putin è caduto nella trappola della Cia. Mentre ci sovviene l’irritazione dei dirigenti ucraini, che per mesi avevano implorato la Casa Bianca di non annunciare l’imminente attacco russo – cui non credevano – incentivo alla fuga di capitali e capitalisti (oligarchi) dalla patria minacciata. Ammette a fine marzo Mykhailo Podoljak, delegato ucraino al negoziato con i russi: «Siamo sorpresi. Perché la Nato ha dichiarato tanto presto che in caso di guerra non sarebbe intervenuta? Così ha invitato la Russia all’escalation» 2. Forse per una volta i complottisti vedono giusto. Nel caso, riconosceremmo ai beffeggiati clowns in action o certified idiots of America (autodefinizioni degli ironici intellettuali annidati nella Central Intelligence Agency) il merito di una sofisticata operazione coperta che sta deviando il corso della storia. A confermarlo parrebbe la confessione privata di un anonimo alto esponente del governo americano allo storico Niall Ferguson, a invasione appena iniziata: «L’unico finale di gioco è la fine del regime di Putin. Fino ad allora, per tutto il tempo in cui Putin resterà al potere la Russia sarà uno Stato paria mai più riammesso nella comunità delle nazioni. La Cina ha commesso un enorme errore pensando che Putin se la potesse cavare. Constatare come la Russia sia tagliata fuori non sarà per Pechino uno spettacolo incoraggiante, sicché dovrà riesaminare l’asse sino-russo. Tutto sembra rivelare che la democrazia e l’Occidente potranno guardare a questo momento come a una svolta che ci rafforza enormemente» 3. E Biden a chiudere il cerchio il 26 marzo a Varsavia, nel più tipico dei suoi momenti di sincerità, che la diplomazia bolla gaffe: «Perdio, quest’uomo non può restare al potere!» 4. 


Il Blitzkrieg di Putin s’è arrovesciato in controffensiva del Numero Uno contro il Numero Tre, affinché il Numero Due si arrenda senza combattere. Duello nel quale la Russia – non solo il suo presidente – si gioca la vita. Mentre l’America cerca di sbarazzarsi di Putin – fors’anche della Russia – in un classico scontro per procura. A rischio di perderne il controllo. Se vincerà questa semifinale, potrà concentrarsi sulla partita del secolo inaugurata ventitré anni fa a Belgrado, contro la Cina privata dello scudo russo. Circondata per terra e per mare.


Ce ne dovrebbe essere abbastanza per riprendere coscienza di noi stessi e dei pericoli che corriamo. Il condizionale a segnalare quanto ardua sia l’impresa, tre generazioni dopo l’ultima (?) guerra mondiale. Da cui siamo emersi felici e imbambolati, avendo rimosso la storia. Quasi non sapessimo che ogni dopo-guerra è sempre un pre-guerra. Vale anche per la formidabile stagione di pace e benessere scandita per noi euroccidentali dalla resa incondizionata della Wehrmacht, l’8-9 maggio 1945. 


Teniamo a mente quanto osserva Romano Ferrari Zumbini, storico del diritto, nella sua apologia del tempo: «Nel momento in cui una comunità non sa più ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a sparire ma quella comunità» 5. Abbiamo il tempo di recuperare il tempo? Sì. A patto di cominciare subito. Ciò impone di geolocalizzarci nel calendario nuovo inaugurato il 24 febbraio 2022, Anno Primo del dopo-pace europeo. 


A partire da una decisiva premessa: stabilire se questa è la guerra di Putin o della Russia. Se quindi dovremo sconfiggere l’uno o anche l’altra. Dalla risposta, conseguenze opposte, che cambiano radicalmente il quadro strategico. Quel che conta, è che a deciderlo saremo noi – o meglio gli americani. Nel primo caso, la nostra vittoria via resistenza ucraina lascerebbe aperta la prospettiva di un’intesa con la Federazione Russa nel caso uno zar meno impresentabile subentrasse allo sconfitto. Nel secondo, un solco ben più profondo della cortina di ferro taglierebbe la massa eurasiatica lungo una linea da determinare ma assai prossima al Cremlino, se mai una Russia sopravvivesse. Vale anche ad improbabile fattore rovesciato, con i russi tornati padroni un giorno o l’altro del loro Piemonte imperiale, trampolino per ulteriori megalomanie.


Fosse per noi europei occidentali, non ci sarebbero dubbi. Stiamo combattendo Putin, non la Russia. Il riferimento resta Vienna 1815, quando con l’attiva partecipazione russa sorse l’idea di Europa. Poggiante sull’intesa che si fosse battuto Napoleone, non la Francia infatti restituita ai suoi vecchi confini. Ma Putin non è Napoleone – tantomeno Alessandro I – e Lavrov non è Talleyrand. In attesa del verdetto, gli ucraini pagano la furia di Putin e l’illusione che noi volessimo davvero combattere per loro. 


3. Fra i più classici refrain della propaganda di guerra americana, quindi spesso della nostra, spicca l’identificazione del nemico con il suo capo e di questi con il Male assoluto, incarnato da Adolf Hitler. Lo abbiamo sperimentato nelle guerre del Golfo, nell’attacco alla Jugoslavia, in quello alla Libia. Saddam, Milošević, Gheddafi = Hitler. Certo, se il Führer fosse stato come loro i nostri avi avrebbero vissuto un mondo incomparabilmente migliore, sei milioni di ebrei sarebbero sopravvissuti e una sessantina di milioni di altri umani avrebbero avuto risparmiata la vita. Paragone assurdo, dunque. Tanto più se espresso da chi denuncia la relativizzazione dell’Olocausto. Ma dotato a ben guardare d’un messaggio implicito, inteso distinguere fra il responsabile dell’orrore e il suo popolo. In ossequio all’ottimistica antropologia a stelle e strisce, per cui non si danno genti cattive ma solo traviate da malefici duci. Dunque redimibili una volta emancipate dal «nuovo Hitler».


Noi italiani ne offriamo al solito una versione caricaturale, sanzionando verbalmente studiosi di Dostoevskij o musicofili incantati da Čajkovskij. Effetti collaterali della cancel culture d’importazione. Della presentificazione di passato e futuro di cui ci nutriamo fin dai banchi di scuola. Demonizzazione dei russi tanto più sorprendente vista la russofilia italiana. Scarto da non prendere troppo sul serio, finché non scadesse in razzismo culturale. La tendenza all’identificazione fra lo zar e il suo popolo è da considerare invece quando emana dai veri nemici della Russia. Perché indica un retropensiero strategico: sbarazziamoci una volta per tutte dell’impero russo. Non cambio di regime, fine dello Stato. 


Fra le potenze atlantiche che contano, colpisce come oggi la distinzione fra Putin = Hitler e nazione russa si faccia più frequente. Modulazione della carica russofoba nella propaganda occidentale più estrovertita, specie britannica e «neo-europea» – marchio americano dell’ex Est sovietizzato. Perfino Volodymyr Zelens’kyj vi è inciampato nell’appello alla Knesset, quando ha parificato «soluzione finale» (Olocausto) e invasione russa del suo paese. Con ciò non migliorando la sua immagine in Israele, già restio a schierarsi nella guerra in corso. Secca replica del premier Naftali Bennet: «È vietato paragonare alcunché all’Olocausto». Velenosa quella del ministro delle Comunicazioni, Yoaz Hendel: «Il genocidio fu commesso anche sul suolo ucraino. La guerra attuale è terribile, ma la comparazione con gli orrori dell’Olocausto e con la soluzione finale è oltraggiosa» 6 


Se il tabù supremo viene infranto lo si deve a una causa profonda e a una occasionale.


La prima si esprime nella storica russofobia degli euro-orientali a contatto con la potenza moscovita nelle sue varie forme. E in quella americana, più sorvegliata, però recentemente inasprita nella tribù liberal-democratica, niente affatto in quella trumpiana, il cui capo ha proclamato «genio» il signore del Cremlino – epiteto finora riservato a sé stesso. Ma già nel 1964 Bob Dylan cantava con poetica ironia nel più celebre dei suoi brani: «Ho imparato a odiare i russi/ per tutta la mia vita/ Se arriva un’altra guerra/ sono loro che dovremo combattere» 7. In America la demonizzazione della Russia, sempre latente dall’Ottobre, ha vissuto stagioni temperate, ma resta un basso continuo. In crescendo. L’impero che sconfisse Hitler può oggi vedersi comunemente paragonato al Terzo Reich perché in guerra non interessa la verità storica ma solo ciò che serve a vincerla. Ci mancherebbe altro.


La seconda è che stavolta il capo nemico giustifica la sua aggressione all’Ucraina con l’imperativo di «denazificarla». Quasi la nazione «sorella» si identificasse con il reggimento Azov e altri settori ultrà inneggianti a Hitler, dimentichi che il Führer marchiava subumani i loro antenati. «Možem povtorit’!» – «possiamo rifarlo!» – martellano i media putiniani. Da ripetere è la sconfitta del nazismo. L’invasione dell’Ucraina è senza timor di paradosso equiparata alla resistenza del popolo sovietico all’aggressione tedesca. Alla Grande guerra patriottica, cuore della pedagogia nazionale. Ne deriva che l’Armata russa sia identificata con la rossa di ieri e la zarista dell’altro ieri. Pura continuità imperiale. Di qui la glorificazione del settecentesco ammiraglio Ušakov, l’«invitto» nel cui nome Stalin istituì la speciale onorificenza riservata agli eroi della guerra antinazista. Putin si sarebbe spinto a comunicare alle sue truppe che la guerra finirà entro il 9 maggio, quando sulla Piazza Rossa si terrà l’annuale Parata della Vittoria, zenit dell’autocelebrazione della potenza russa. Per noi, piuttosto refrattari alle analogie metastoriche, l’analisi del parallelo Hitler/Putin, russi/nazisti o ucraini/nazisti sarebbe puro esercizio di ermeneutica tattica o di filologia del linguaggio armato, non fosse per un decisivo dettaglio. Riguarda il senso del tempo psichico dei due dittatori. E del riflesso geopolitico che produce.


Dopo il 24 febbraio ci siamo sorpresi a interrogarci sulla sanità mentale di Putin. Giacché folle ci era fino allora parsa l’ipotesi che i russi scatenassero i tank verso Kiev. La tesi dello «zar pazzo» circola ovunque, persino tra alcuni suoi consiglieri disposti a discuterne con Limes. In Russia il termine non ha mera accezione clinica. Si riferisce al destino del povero Paolo I, figlio della grande Caterina, che sarà stato pure matto ma certamente fu ammazzato per freddo calcolo di potere, nella più classica delle congiure di palazzo (vedi l’articolo di Virgilio Ilari alle pp. 147-53). Questo per quanto riguarda le modeste probabilità che qualcuno fra i suoi intenda ricorrere ai mezzi estremi per liberare la Russia da Putin prima che questi finisca di rovinarla. Ma ciò che rileva per noi è l’ipotesi che una spiegazione – non la giustificazione – dell’erratico attacco all’Ucraina stia nel sentimento del capo che il suo tempo, quindi quello della patria, stesse per scadere.


La totale identificazione di sé con Madre Russia traspare nei gesti e nelle parole di Putin. Nel discorso pronunciato all’alba del 24 febbraio, al presidente preme affermare che la «speciale operazione militare» è sua decisione personale. Non fa riferimento ad alcuna istituzione dello Stato. Perché lo Stato è lui. Ed è lui, quindi la Russia, a sentirsi accerchiato dall’«impero delle bugie», dall’Alleanza Atlantica che preme alle frontiere e sostiene i «neo-nazisti» ucraini impegnati a recuperare la Crimea «e diverse altre regioni russe». Le frasi chiave: «È solo questione di tempo. Loro (i neonazisti, n.d.r.) sono pronti e aspettano il momento giusto. Di più: si spingono fino ad aspirare all’acquisto di armi nucleari. Non lo permetteremo» 8. A diversi interlocutori, nei giorni successivi, Putin ripeterà di essersi trovato in condizione «disperata». Doveva agire subito, o mai più. Da quasi settantenne narcisista assoluto, dopo più di ventidue anni di servizio alla guida della patria e a un biennio dalla scadenza formale del mandato, Putin non poteva lasciare a un qualsiasi epigono il compito di salvare la Russia. Imperdonabile vigliaccheria. L’idea di passare alla storia non solo come lo zar che perse Kiev, ma che si fece riprendere la Crimea dai «nazisti» gli resta insopportabile. Putin ama evocare un proverbio russo: «Non criticare lo specchio se hai una faccia da bandito». Di certo lo applica anche a sé stesso. 


Allo storico tedesco Dan Diner spetta di aver ravvisato una doppia similitudine fra Hitler e Putin: l’autoidentificazione con le istituzioni e la maledetta fretta di compiere la rispettiva missione storica nel tempo breve della propria esistenza 9. Diner esclude l’equazione Putin = Hitler, intenibile in sé, tanto più per chi si professa storiografo. Coglie però in entrambi la pulsione a distruggere l’istituzionalità del tempo storico, categoria che il filosofo Hans Blumenberg propone per distinguere tempo della vita e tempo del mondo 10. La dittatura è il regime che abolisce la separazione dei due tempi per comprimerli nel duce. Il capo assoluto misura di tutte le cose. Ma tanto più concentra su di sé potere carismatico e funzioni statali, tanto meno è in grado di comprendere la realtà per governarla.


La tragicomica esibizione televisiva del Consiglio per la sicurezza nazionale, riunito poco prima dell’aggressione, in cui Putin strapazzava i consiglieri esitanti, sospettati di intelligenza col nemico, è plastica rappresentazione dell’attrito strutturale fra il dittatore e la sua corte. Garanzia di insabbiamento dell’ukaz. I carri armati fermi in colonna sulla via di Kiev o abbandonati per carenza di ricambi sono conseguenza logica e fattuale di un sistema preteristituzionale. Affidato al raro genio, agli inevitabili stupidi e agli improvvisatori funzionali dispersi nella catena esecutiva. «Tutti coloro che vanno al potere, buoni o cattivi, entrano in una gabbia», sentenziava Carl Schmitt 11. Il potere assoluto, massima informalità, assolutamente depotenzia il potente. E crea l’assoluta emergenza: la carenza di tempo. Del dittatore e della sua privata proprietà pubblica. Giacché il tempo del capo è speciale: «Quando si vivacchia non ce ne si accorge, poi all’improvviso non si percepisce altro», canta la Marescialla nel Cavaliere della Rosa. Versi che ispirano la riflessione di Blumenberg sulla ristrettezza del tempo quale crisma del male, giusta l’Apocalisse di Giovanni (12, 12): «Il diavolo sa che gli resta poco tempo». 


In questa prospettiva il putiniano možem povtorit’ evoca scenari sinistri. Fondere tempo della vita e tempo del mondo nell’unico spaziotempo del capo implica la definitività delle sue scelte. Vittoria e sconfitta in fine coincidono. Tornano alla mente le ultime parole di Hitler, mentre incastrato nel bunker di Berlino protesta contro il destino che lo ha costretto a compiere la sua missione nel breve spazio d’una vita in scadenza: «Noi non capitoleremo mai. Possiamo scomparire. Ma porteremo con noi un mondo» 12. 


Forse il Putin estremo, irriconoscibile da chi, amico o avversario, ne aveva sovrastimato la razionalità, ha deciso di sottomettere il progetto neo-imperiale alla sua aspettativa di vita e di comando. Anche così si spiega l’approccio americano alla campagna d’Ucraina, finora ancorato all’ingloriosa guerra per procura, refrattario all’interventismo polacco, alle invocazioni ucraine di chiudere il cielo ai bombardieri russi. Perché, a differenza di Hitler, le Wunderwaffen Putin le ha.


E con ciò rispondiamo alla domanda se questa sia la guerra di Putin o della Russia. Di tutti e due, temiamo. Anche se lo zar Vladimiro facesse la fine di Paolo, ormai è tardi. Mosca pagherà per l’avventura. Il suo tricolore non sventolerà su Kiev e sulle città della Nuova Russia nel tripudio di ucraini festanti, come s’attendeva al Cremlino (carta a colori 2 – in apertura). E noi sconteremo la nostra distratta o intenzionale indifferenza al suo destino di potenza che trent’anni fa tentò il suicidio e ci riuscì quasi. Ma che ora intende vendere cara la pelle.


Resta da stabilire il prezzo. Per loro e per noi. Qualche idea ce la faremo azzardando la geolocalizzazione promessa. 


4. La dinamica strategica di questa guerra non troppo indiretta fra Washington e Mosca spinge alla rottura fra Europa e Russia. Ne possono scaturire un’Europa più o meno americana spinta fin quasi alle porte di Mosca e una Russia nell’orbita cinese. Gli esiti tattico-militari e soprattutto la durata del conflitto fra un cessate-il-fuoco e l’altro possono rallentare o flettere questa traiettoria. Arduo che la mutino. Almeno finché si combatte solo nel teatro ucraino. Sia che in Ucraina prevalgano nel tempo gli americani via ucraini (possibile) o i russi (improbabile), come anche in caso di provvisorio stallo codificato in nuova partizione del paese, la separazione fra Nato e Federazione Russa volge al divorzio senza appello. Sanzionato dalle sanzioni, difficilmente revocabili nella sostanza e nello spirito. Con gli anni potremo modulare il grado di separazione, mai recuperare lo status quo ante.


La partita ucraina è infatti doppia. Mondiale e veterocontinentale. Sul piano degli equilibri planetari, per gli americani rigettare i russi in Asia significa colpire insieme il nemico principale: la Cina. Costretta a soccorrere un socio cui attribuiva speciale virtù militare e decente affidabilità. Entrambe evaporate al primo contatto con la prova della guerra. L’intesa russo-cinese non si spezza, ma solo per provvisoria mancanza di alternative. Xi non si fida più di Putin. L’acceso dibattito pubblico che si è scatenato a Pechino sulla guerra, con esibizione di voci clamorosamente russofobe, testimonia del disorientamento cinese. Allo stesso tempo, la Repubblica Popolare si qualifica riferimento inaggirabile per quella vasta parte di mondo – demograficamente maggioritaria – che non vuole schierarsi né con i russi né con gli americani. I due voti che l’Assemblea Generale dell’Onu ha espresso sulle risoluzioni di mano americana che condannano Mosca sono tanto fattualmente vacui quanto geopoliticamente significativi. Lo smarcamento dell’India, che per Washington è perno essenziale del contenimento anti-Cina, e del Sudafrica sono le massime defezioni neutraliste, indigeste a Washington (carta 3).


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Sulla scala che più ci tocca, l’esclusione della Russia dal nostro continente conferma le divisioni profonde tra noi europei sul se e come trattare con Mosca. In questo schema ci separiamo lungo una faglia disegnata da radicali divergenze storiche, culturali e geopolitiche, aggravate dalle sanzioni con cui Washington intende premere su Mosca (esiti non pervenuti) e che ricadono a pioggia sugli alleati europei, disposti o costretti a adottarne di proprie. C’è chi intende seguire la corrente americana perché ambisce al rango di avanguardia atlantica e confida nell’ombrello di Washington. Chi si ostina nell’utopia dell’Europa potenza – crittogramma dell’europeismo imperiale delle origini, à la Coudenhove-Kalergi – ma nell’attesa si riprotegge a suo modo nell’impero a stelle e strisce (Francia). E chi oscilla (Germania). 


In termini economici e di pace sociale i perdenti di questa guerra, ben dopo i russi, saremo noi europei. Impregiudicato il destino delle vittime principali, gli ucraini. Milioni dei quali finiranno per stabilirsi nel cuore dell’Europa, specie in Polonia ma anche in Italia. Quanto nei prossimi mesi e anni sapremo essere solidali con i profughi ucraini e non solo ci darà misura della nostra vantata civiltà. 


Paradosso geografico vuole che gli europei iper-americani e occidentalisti perché russofobi, guidati dalla Polonia con la Romania non brillantissima seconda, si collochino a est dell’Elba, canonica frontiera fra Occidente e Oriente. I polacchi sperano di spingere le frontiere euroatlantiche oltre il Bug, almeno fino al Dnepr, se i russi terranno Crimea e Donbas. Loro patrono ravvicinato è l’Inghilterra, che sente profumo di vittoria nell’ennesimo episodio del Grande Gioco. Più che mai ancella dell’America, Londra è schiacciata su di essa fino a imbarazzarla. Con o senza il resto del suo Regno.


A ovest incrociamo gli orfani della Russia. Intesa bilanciamento sia della Germania che dell’America. Capofila la Francia, attorno al magnete del Reno (carta a colori 3). La Bundesrepublik è in bilico fra le opposte opzioni incarnate dalla sua maggioritaria porzione occidentale tuttora economicista e dalla minoranza orientale, che esibisce venature rosso-brune. Costretta dalla guerra a rientrare nella storia, la Germania resta il grande punto interrogativo. L’Italia spaesata segue zoppicando fra Berlino e Parigi. Approfondiremo i dilemmi tedeschi e italiani nei prossimi paragrafi.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


La doppia bipartizione – Europa/Russia e fra le Europe – si profila instabile per l’impossibilità di concordare i rispettivi limes. Del secondo deciderà la scelta di Berlino, quando verrà. Quanto al primo, il duello si concentrerà attorno al ventesimo meridiano, che dalla Norvegia scende verso la Grecia via Polonia. Attorno al contestato Istmo d’Europa, esistenziale linea rossa che Putin sta cercando di stabilizzare in Ucraina (vedi articolo di Mirko Mussetti alle pp. 127-134). Contro l’avanguardia dell’Alleanza Atlantica, formata dai paesi del Trimarium (Baltico, Adriatico, Nero) attestati sulla linea Danzica-Costanza parallela alla verticale russa Kaliningrad-Tiraspol’-Isola dei Serpenti. Se la guerra si estendesse, gli spazi attorno a quella longitudine strategica, dall’Oceano Artico al Baltico via Scandinavia, formerebbero con il Mar Nero un unico teatro bellico. Dopo l’armistizio – di pace vera non si discetterà per un pezzo – le linee di cessate-il-fuoco, forse ispessite da qualche cuscinetto, marcheranno le nuove frontiere fra Russia e Nato.


C’è un terzo limes in avanzata ricostruzione, quello russo-finnico. Memori della linea Mannerheim più che degli accordi di Helsinki, i finlandesi si preparano allo scontro con Mosca. Pronti ad associarsi alla Nato. Meglio prima che dopo. Per Putin l’assedio di Leningrado, durante il quale i finnici dettero informale quanto concreto supporto ai tedeschi, è tragica storia di famiglia. L’idea che la sua San Pietroburgo possa finire a un tiro di fionda finlandese nel frattempo certificata atlantica lo innervosisce quasi quanto l’idea del vessillo Nato issato sulla kievana cattedrale ortodossa di Santa Sofia. Miracoli dell’avventurismo russo, intriso di masochismo.


L’èra delle neutralità è scaduta. In Europa è sempre stata una maschera di comodo. L’aggressione russa all’Ucraina invita a schierarsi anche chi si è finora protetto con la foglia di fico del ripudio delle alleanze. Come e più dei vicini svedesi, i finnici si preparano a formalizzare la richiesta di adesione all’impero americano. Un recente sondaggio informa che il 62% vorrebbe aderire alla Nato 13. Nel frattempo le Forze armate finlandesi e svedesi sono quasi unificate. Con i già atlantici norvegesi e danesi svolgono per Washington una duplice funzione: contenere la Russia sul fronte artico/baltico e scoraggiare le pulsioni cinesi verso la via nordica della seta (carta a colori 4). Il blocco scandinavo-polare (con la Groenlandia «danese» americana de facto dal 1940) è di primario rilievo strategico per Washington. È lo scudo oceanico del Nord America atlantico, speculare allo schieramento India-Australia-Giappone nell’Indo-Pacifico. Con due plus. Serve contro entrambi i nemici. E comprende paesi totalmente affidabili, siano o meno iscritti al club atlantico.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Ad oggi nello scontro Russia-Stati Uniti l’inerzia gioca dunque per i secondi. Ma siamo in partita lunga dai riflessi mondiali. Mosca è in lotta per la sopravvivenza. L’America gioca on the cheap. Il conto lo pagano gli ucraini. E, molto secondariamente, gli alleati europei.


In prospettiva Washington rischia di disperdere i vantaggi acquisiti grazie a Putin. Anzitutto per la persistente tempesta domestica, che minerebbe il fronte interno in caso di coinvolgimento diretto nello scontro 14. Ciò potrebbe indurre i russi, se disperati, a ricorrere all’atomica tattica. A quel punto emergerebbero le divisioni finora coperte ma profonde nella Nato e negli stessi Stati Uniti. Finché a morire sono gli altri il viso dell’arme riesce facile. Se ti giochi tutto, forse meno. Alcuni paesi dell’Occidente europeo, investiti da nuova recessione e alle prese con la crisi energetica inevitabile se l’America li spingesse a spezzare l’interdipendenza gasiera con Mosca, potrebbero stabilire che il prezzo pagato per l’Ucraina, e per l’America, sia insostenibile. Anche per questo converrà tener d’occhio Germania. E Italia. 


5. Il riarmo della Germania è rivoluzione geopolitica. La quarta economia del pianeta dopo Stati Uniti, Cina e Giappone diventa anche terza potenza dopo Stati Uniti e Cina per spesa militare. E si consacra così Numero Uno fra gli europei, essendosi autocertificata immune dal «passato che non passa». Giacché stanziare un fondo speciale da 102 miliardi di euro per la difesa – di cui 68 per grandi progetti nazionali e 34 per iniziative multinazionali, tipo eurodroni – da inscrivere in costituzione e proporsi di devolvere ogni anno il 2% abbondante del pil alle Forze armate implica considerarsi molto speciale paese «normale». Finalmente emancipato dallo stigma negativo della storia.


La lista della spesa vede sul podio munizionamento (20 miliardi), cacciabombardieri (15) ed elicotteri da trasporto truppe (5). La Germania vorrebbe dotarsi di uno scudo anti-missili balistici (russi) del tipo Arrow, gioiello di Israele, che nella avveniristica versione 4 ambirebbe intercettare financo gli ipersonici (sempre russi). Impresa che farebbe forse senso se coinvolgesse la Nato intera, però implicando l’innalzamento della minaccia di Mosca per non soggiacere allo scudo. E via rilanciando. Manca nel menu tedesco la bomba atomica, di cui peraltro a Berlino si discetta liberamente. Certo l’autolimitazione alle missioni di pace è storia di ieri (carta 4).


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Ci vorranno almeno dieci anni per passare dalla carta ai fatti. Qualcosa probabilmente si perderà per strada o verrà riconvertito in cooperazione e aiuti umanitari «strategici». Ma il percorso è tracciato. Grazie a Putin.


Dalla disponibilità di materiale bellico all’impiego consapevole delle armi per difendere i propri interessi passa però un mondo. Specie in un paese che quanto a cultura strategica deve rivalicare la linea d’ombra. E che da quando esiste deve ancora vincere una guerra. Mai mancò il valore, sempre la strategia. La quale consiste nel sapersi scegliere il nemico. Il resto segue.


La mattina del 24 febbraio il capo dell’Esercito tedesco, generale Alfons Mais, comunica: «Nel quarantunesimo anno del mio servizio in pace, non avrei mai pensato di sperimentare una nuova guerra. E la Bundeswehr, l’Esercito che mi è concesso comandare, è più o meno a pezzi» 15.In effetti le Forze armate germaniche versano in condizioni deplorevoli: fucili che non sparano, carri armati arrugginiti, aerei a corto di ricambi, trasmissioni antiquate. Nell’allegra valutazione di acidi colleghi albionici, gli epigoni di Moltke sono classificati «club di aggressivi campeggiatori». Perfino i militari italiani, che non vengono da Marte, a tempo perso si tramandano aneddoti irridenti sugli omologhi tedeschi.


Il punto è che le Forze armate sono lo specchio della società. Prima dell’aggressione russa all’Ucraina l’opinione pubblica tedesca era fra le più paciose al mondo. Circondata da paesi amici come mai nella storia, assicurata sulla vita dall’ombrello Nato – o almeno convinta di esserlo – «rieducata» dai vincitori al senso di colpa per i crimini hitleriani. Pacifismo beato, quasi neutralista, con sbotti di rattenuto anti-americanismo e quasi altrettanta russofilia. Coerente erede dell’Ostpolitik neobismarckiana da guerra fredda, attenta a non tagliare i fili – i tubi – con Mosca.


Certo, qualcosa negli ultimi tempi stava cambiando. Il lungo tramonto del merkelismo, arte suprema del rinvio, monumento al tempo astorico perciò orizzontale, era squarciato all’Est dal ritorno del nazionalismo (Alternative für Deutschland) e dal persistente nazional-neutralismo dei (post?)comunisti (Linke). Negli apparati della forza si segnalavano a centinaia i «casi singoli» di neonazisti piuttosto estroversi. E la lobby russa, installata nell’industria ma ramificata anche nella politica e nella cultura, pareva inossidabile. Perfino fra i militari predicavano disinibiti avvocati della Federazione Russa. Il 22 gennaio scorso il capo della Marina, viceammiraglio Kay-Achim Schönbach, manifestava comprensione per Putin, cui si doveva «rispetto». E scontava che mai la Crimea sarebbe tornata sotto Kiev né l’Ucraina ammessa alla Nato. Ci volle protesta formale del governo ucraino, già irritato per il rifiuto tedesco di fornirgli armi antirusso, per indurre Schönbach a dimettersi 16.


Il 24 febbraio inizia un altro secolo. È lo stesso cancelliere Olaf Scholz, fino allora cautissimo fanalino di coda nel vortice delle invocazioni occidentali contro l’aggressione russa, a prenderne atto tre giorni dopo davanti al Bundestag, convocato in straordinaria seduta domenicale. Scholz comunica che il calendario geopolitico della Germania e dell’Europa non è più lo stesso. Scocca «Zeitenwende», «svolta epocale» 17. Invadendo l’Ucraina Putin ha infranto il tabù della pace europea. Ne consegue annuncio di riarmo-Blitz. Quale mai si vide nella storia per taglia, fulmineità e ambizione. Tale da chiedersi non fosse estratto e scongelato da refrigeratore ad alta classifica, ciò che obbligherebbe a rivedere con lenti dedicate gli ultimi decenni di storia tedesca. Le trombe di Scholz sorprendono Germania e mondo. Disciplinata, la super-maggioranza del popolo tedesco che la settimana prima rigettava l’ipotesi di armare l’ucraino si giura al 78% entusiasta d’armar sé stesso 18.


Subito la ministra degli Esteri Annalena Baerbock dichiara aperto il cantiere della pedagogia strategica di massa. Parte su vasta scala il processo di elaborazione della strategia di sicurezza nazionale. Coinvolte istituzioni civili e militari, esperti, associazioni, Chiese e quant’altro offra la società civile. Prima le armi poi le istruzioni per l’uso. Cerchio chiuso. In teoria.


C’è che in Germania urge rilegittimare le Forze armate, serbate seminascoste all’occhio pubblico. Niente Champs Élysées né manco Fori Imperiali o caroselli similari. Surrogati da geostatici girotondi in caserma o da suggestive quanto intime cerimonie a lume di fiaccola nel Bendlerblock, sacrario della Resistenza tedesca. L’ultima il 2 dicembre 2021 per il passo d’addio di Angela Merkel, che ha schivato d’un paio di mesi il rischio di dover proclamare il riarmo tedesco (l’avrebbe fatto?).


Impossibile riarmare senza ancorare l’esercito nel consenso nazionale. Obiettivo complicato dalla differenza nella disposizione alla guerra, specie se contro la Russia, fra Länder orientali e occidentali. Ma inevitabile per aggirare la Scilla del militarismo e la Cariddi del pacifismo assoluto.


Abolita per settant’anni dal vocabolario pubblico, geopolitica e suoi derivati riaffiorano nel ragionare di analisti e decisori tedeschi. A che servono le Forze armate? Contro chi? Con chi? Come integrarle nella strategia nazionale e insieme nel sistema euroatlantico? Tre ostacoli di principio: la necessità di vestirsi sempre con i colori europei perché abbelliscono legittimi ma scabri interessi tedeschi; non allarmare troppo l’America, che i soldati e le basi in Germania tiene e rafforza in ossequio all’atlantico principio Russians out-Germans down (carta a colori 5); identificare nella Russia (pardon, Putin) il nemico dell’ora, con la Cina a non siderale distanza. Nel primo caso, l’annuncio unilaterale del ritorno alle armi stona con la retorica europeista. Qualcosa, forse molto, sarà verniciato da difesa europea. Con occhio di riguardo alla Francia, ipersensibile al grado di armamento sull’altra sponda del Reno, offesa dall’opzione di Scholz per gli F-35 americani, e soprattutto gelosa del proprio primato militare nel continente. Nel secondo, si marcherà l’integrazione della Bundeswehr lungo il fronte orientale avanzato in cui gli atlantici concentrano le risorse comuni volte a scongiurare l’invasione russa.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Il terzo è il più penoso. L’ombra di Barbarossa veleggia ancora. Saltare dall’Ostpolitik, costante dell’ultimo mezzo secolo d’innominabile geopolitica germanica, allo schieramento fronte a Mosca è esercizio poco spontaneo (Schönbach docet). Tanto che lo stesso Scholz, mentre annunciava la chiamata alle armi, avvertiva a confortar sé stesso: «La sicurezza duratura in Europa è impossibile contro la Russia» 19. 


Epperò il riarmo tedesco non ha senso che contro la Russia. Delle due l’una: o l’annuncio di Scholz è bluff – furbata per facilitare dopodomani lo sblocco del Nord Stream 2 a crisi ucraina digerita – o intende davvero contrastare le presunte mire russe sull’Europa centro-orientale atlantizzata nell’ultimo ventennio. Oggi fra Russia e Germania resta solo la Polonia. Già visto. La Bielorussia è a disposizione di Mosca. Berlino deve quindi assumere il ruolo di potenza Nato «leader» – sotto gli Usa, s’intende – nel più caldo settore continentale. Assai espanso. Non solo Mitteleuropa, Nord Italia incluso, base allargata della piattaforma industriale germanica. Anche Zwischeneuropa, fascia di mezzo fra Russia e Germania che corre tra Baltico e Nero, Balcani e Ucraina non soggetta a Putin. Truppe tedesche calpesteranno in crescenti quantità le famigerate Bloodlands di entrambe le guerre mondiali, nuovamente insanguinate dal conflitto russo-ucraino. Per Mosca, cuscinetti esistenziali. Ora anche per la Germania, a fattori rovesciati. L’attrito fra Mosca e Berlino è inevitabile, probabilmente duraturo.


Alcuni analisti già evocano questa speciale responsabilità tedesca. Ulrich Speck, noto analista al German Marshall Fund di Berlino: «La guerra aperta contro l’Ucraina ha chiarito dove stia il baricentro della politica estera e di sicurezza tedesca per i prossimi anni – nell’Europa centrale e orientale». Attenzione massima per Bielorussia, Ucraina, Moldova, ma anche Georgia e Armenia. L’aggressione di Putin «ci obbliga a una presenza assai più robusta nella regione». E «speriamo che la Germania traduca finalmente la sua forza economica in forza militare, in modo da creare un contrappeso antirusso». Soprattutto, «la Germania deve imparare a riaffezionarsi alla potenza, specialmente alla potenza militare». Verdetto: «Se uno Stato europeo importante come la Germania rinuncerà a definire i suoi interessi e ad agire anche nei termini della politica di potenza, attori aggressivi come la Russia riempiranno il vuoto» 20. Dove sia quel vuoto non sappiamo. Forse a Varsavia qualche idea se la saranno fatta.


Analoga la prognosi di due altri influenti analisti, Claudia Major e Christian Mölling: «Il nuovo ordine di sicurezza in Europa per lungo tempo non funzionerà più in modalità integrativo-cooperativa con la Russia, ma senza e anzi contro la Russia». Ancora la responsabilità tedesca ed europea per gli intermedi – «dai Balcani alla Moldova fino a Ucraina e Bielorussia» 21. La svolta di Scholz serve ad attribuirsi la leadership europea nell’impermeabilizzazione della sempre più stretta lingua di terra che ci protegge dal nemico russo.


Sintomatico che da Londra, dove ancora ieri si sarebbe reagito con fastidio a tale postura germanica, giungano fervidi incoraggiamenti. Esperti suggeriscono che la folata di intensa russofobia tedesca dovrebbe spingere Germania e Regno Unito a sponsorizzare un robusto esercito di terra da schierare nelle basi atlantiche avanzate in Europa orientale. Per ridare credibilità al sempre meno credibile articolo 5 del Patto Atlantico. Memori della britannica Armata del Reno, James Rogers e Benjamin Tallis, eminenze del Council on Geostrategy, invitano Berlino a promuovere un cospicuo esercito atlantico a ridosso dei moscoviti. Emozionati, nella medesima frase avanzano questa massa anglo-germanica sempre più a est, progressivamente battezzata «Armata della Vistola, se non dell’Emajõgi o addirittura del Dnepr» 22. Supponiamo avessero appena ripassato l’Operation Unthinkable concepita da Churchill nel maggio 1945 per riaffratellare gli anglo-germanici, da scatenare contro l’Armata Rossa. Colpo di genio stroncato in piena gestazione da esperte burocrazie britanniche.


6. Nel mondo che cambia cambieremo anche noi. Da stabilire se solo da fuori, per crisi, guerre e spinte altrui, o anche da dentro, per iniziativa nostra. Con la vecchia pace finisce l’inerzia dello status quo. Ma come quando svegliati di soprassalto ci voltiamo dall’altra parte per gustarci sonno e sogni residui, così se il metronomo della storia impazzisce primo riflesso nostrano è protestare in nome dell’umanità e accucciarci in attesa di ordini che non verranno. Ha da passare la nottata. Passerà anche questa, sicuro, ma il colore dell’alba dipenderà molto da noi. Segue qualche nota cromatica, modesto contributo all’affresco geopolitico che nei prossimi mesi l’Italia dovrà ridipingere in esercizio sperabilmente corale. 


Riassumiamo per titoli le lezioni della geolocalizzazione qui azzardata e vediamo cosa trarne noi.


A) Russia si è autoesclusa dall’Europa, con il piccolo aiuto dei suoi nemici atlantici.

A’) La pace in Europa, per esser tale, dovrà comunque includere la Russia. Ma solo dopo quarantena lunga e dolorosa. Alternative: guerra mondiale e/o disintegrazione della Federazione Russa, ovvero eterno caos nel cuore d’Eurasia, che obbligherebbe gli occidentali a istituirvi protettorati di fatto o ad assegnarla alla Cina, nostro nuovo vicino di casa. Interessa? La soluzione intermedia – cambio di regime a Mosca – sarebbe palliativo. Posto fosse migliorativo. 

B) L’America intende governare da remoto il suo impero europeo, non abbandonarlo. Ma non morirà per noi. 

B’) Il vincolo occidentale fortunosamente acquisito perdendo la seconda guerra mondiale non è più scontato. Né è fondato sull’indiscutibile convergenza di interessi fra noi e loro, corrosa dopo la guerra fredda. Oggi la Nato conviene più a noi che agli americani. Loro hanno la fortezza Nord America affacciata sui pesci, noi terre vicine in eruzione e acque agitate. Dobbiamo darci un ruolo nell’impero europeo dell’America, insieme agli europei con cui condividiamo minimo comune denominatore. Vedi punto seguente. 

C) Gli europei si dividono su quanto profonda e permanente debba risultare l’emarginazione della Russia e quanto credibile sia la garanzia americana in caso di aggressione russa. 

C’) Conviene distinguere fra cornice e quadro. La prima, diplomaticamente gratificante ma geopoliticamente inerte, si chiama Unione Europea. L’altro è dipinto dai singoli Stati membri e dai gruppi nei quali tendono ad accorparsi per similitudine di storie, culture, interessi. Due macro-Europe a variabile intensità atlantica e antirussa distinte dalla mobile faglia fra ex Patto di Varsavia e Nato delle origini, con la Germania medioeuropea che oggi tende a farsi paladina dell’Est senza perdere l’aggancio alpino (Svizzera e Nord Italia) e soprattutto renano (Francia + Benelux). L’Italia non ha nulla da dire o da dare al primo gruppo, salvo gettoni di presenza militare a scopo di certificazione atlantica. Mentre ha molto in comune con Germania ed euro-occidentali (Francia, ma anche Spagna). Nelle Europe del dopo-24 febbraio potremmo stabilire un Quad euroccidentale (EuroQuad) a intensità variabile con Parigi-Berlino-Madrid più partner secondari, dotato di credibile componente militare integrata nella Nato. Non è tanto questione di armamenti quanto di disponibilità a usare la violenza perché altri non ne usino contro di noi. Nucleo euroccidentale, su cui torneremo nei prossimi volumi. Russia permettendo. 

D) Il futuro della strana coppia sino-russa è molto più incerto di prima.

D’) Quanto maggiore la distanza fra Mosca e Pechino tanto meglio per noi e per quanto resta dell’Occidente. Ma qui possiamo davvero poco. Per esempio non fare i furbi. E individuare il punto critico fra utili, spesso necessari, scambi commerciali e derive geopolitiche che provocherebbero rappresaglie americane o ci spingerebbero verso Terra di Nessuno. Riprendiamo in mano il saggio di Malcolm Gladwell sopra il Tipping Point, depurato della panna sociologica. Specie le pagine dedicate ai connettori, soggetti capaci di tradurre i codici di potenze avversarie restando con entrambi i piedi nel proprio mondo 23. Specialità italiana da rinverdire. Possibile solo nell’ambito di C’. 

E) L’Ucraina devastata e divisa è vasto buco nero nella costellazione delle Europe in mezzo fra Germania e Russia.

E’) La ricostruzione dell’Ucraina, almeno quella non sequestrata da Mosca, sarà una prova di credibilità per tutti gli occidentali, specie europei. Prevede di volgere il trattamento degli ucraini da fanteria della Nato a popolo rispettato e rispettoso delle sue minoranze. L’Italia dovrà distinguersi sia per l’accoglienza dei profughi che si stabiliranno da noi, per cui quella comunità già ampia diventerà se non la prima una delle decisive fra i ceppi di immigrati da integrare, sia per il carattere del contributo alla rinascita di Kiev. Guardando al dopodomani: Ucraina quale piattaforma girevole verso Russia, Mar Nero e Asia centrale, non checkpoint d’una barriera militarizzata permanente contro Mosca. In vista della guerra prossima. Finalmente emancipata dagli oligarchi che ne hanno succhiato il sangue. E dalla minaccia russa di riprendere quelle terre «regalate» da zar e comunisti incompetenti (carta 5).


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


F) Le onde lunghe della guerra colpiscono con diversa intensità sulla scala globale, ma investono soprattutto il nostro estero vicino, dai Balcani al Levante e al Nord Africa. Qui la recessione sarà pesantissima, così come le carestie determinate dall’impennata dei prezzi di grano, orzo, mais, di cui Russia e Ucraina erano (saranno?) grandi esportatrici. In contesti sanitari d’emergenza, per il virus e altre epidemie. L’effetto geopolitico combinato sull’instabilità cronica di quei territori, prevedibilmente profondo, ricadrà sull’Italia per naturale esposizione ai venti di sud-est. 

F’) Serve rivedere il nostro scombinato schieramento militare (carta a colori 6) e abbozzare una strategia coerente al cambio di stagione (carta a colori 7). Occupiamoci prima del Mediterraneo stretto (di Sicilia), poi dell’allargato, nella dimensione medioceanica che verte sui colli di bottiglia Suez e Gibilterra, da cui vitalmente dipendiamo. Scansiamo risolutamente velleità indo-pacifiche. Non è tempo di batter bandiera a scopi commercial-pubblicitari, ma di tenerla alta e ben visibile alla nostra frontiera di mare e di terra. Concentriamo le risorse disponibili sulla gestione delle faglie critiche intorno a noi. Con occhio speciale ai Balcani occidentali, nel triangolo fra Serbie (Belgrado e Banja Luka), Albanie (Tirana e Prishtina) e Croazie (Zagabria e Mostar). E alle Libie.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


La Cirenaica wagneriana potrebbe subìre contraccolpi per le sofferenze di Madre Russia, analogamente alla cintura di paesi reinfiltrati da Mosca: dalle Sirie ai Libani fino ai Mali e altri Sahel. Qui misureremo quanto la cooperazione nell’EuroQuad possa risultare efficiente. O se le antiche rivalità prevarranno sul senso comune della Zeitenwende. Rilevante parametro sarà l’incisività di Roma nel favorire la ricomposizione dell’inimicizia franco-turca, per noi micidiale stante l’impronta di entrambe sulla Quarta Sponda. Non tutto cambia. E non tutto in peggio. La ricucitura tattica fra Ankara e Parigi, dettata dalla guerra ucraina, è fra i nostri primari interessi. Anche per cominciare a riempire di fatti il trattato del Quirinale, in speriamo provvisorio sonno. 

Toccherebbe a G) ma ci fermiamo qui. Perché lo scontro russo-ucraino non è e speriamo non diventerà il più spaventoso fra la trentina di conflitti che tormentano Caoslandia in estensione (carta a colori 8). Più d’ogni altro riguarda però non questo o quel paese ma l’umanità. Attuale e futura. La fine della pace a tempo indeterminato, dovuta al coinvolgimento diretto o indiretto di tutte le potenze nella battaglia per il Donbas (!) è peggio dell’inizio di una guerra che si possa certamente circoscrivere, come tutte le altre in corso. Altrove la pace era già evaporata o mai davvero stabilita. Ma se la pace finisce in Europa, il mondo cambia davvero.


La poesia, terra d’incrocio tra fantasia e realtà, può aiutarci a capire. Massime nella profetica prosa della nostra scrittrice forse più grande, Anna Maria Ortese (1914-98). Dove l’esigenza di realtà, specie l’invisibile, passa per la fantasia. Rivoluzione. Per intenderne il senso, ognuno nella sua libertà, a lei l’ultima parola, tratta da Bambini della creazione.


«Capire, capire alla fine se, dopo mezzo secolo di orrori, e un secolo o due di abbagli culturali, capire se gli uomini più giovani e preparati (…) abbiano inteso finalmente qual è il cuore del problema, il cuore del tempo, il cuore della verità (di questo inferno che attanaglia la storia dal privato al pubblico, dalle coste dove sorge il sole a quelle dove tramonta). E quale rivoluzione ci aspettiamo. (…) Essa riguarda la liberazione degli altri popoli – i popoli muti di questa terra, i popoli detti Senza Anima – dal Dittatore fornito di anima e per di più immortale! – che è il loro carnefice da sempre. Il suo nome (di tale carnefice) è noto, ma non sempre il labbro accetta di pronunciarlo.


Come e quando inizierà questa rivoluzione? Non lo so. Ma sarà la più grande, e da essa soltanto ricomincerà qualche speranza per la orgogliosa vita umana» 24.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Note:

1. Cfr. A. Riding, «Europeans Send High-Level Team», The New York Times, 29/6/1991.

2. «Die NATO hat Russland zur Eskalation verlockt», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 25/3/2022. Intervista di G. Gnauck a M. Podoljak.

3. Cfr. N. Ferguson, «Putin Misunderstands History. So, Unfortunately, Does the U.S.», Bloomberg, 22/3/2022.

4. M.D. Shear, D. E. Sanger, M. Levenson, « Fiery Statement After Visiting Refugees», The New York Times, 27/3/2022.

5. R. Ferrari Zumbini, Il grande giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente, Roma 2019, Luiss University Press, p. 319.

6. S. Wrobel, «Zelensky Urges Greater Support for Ukraine in Speech to Israel’s Knesset, Invoking Holocaust», the algemeiner, 20/3/2022. 

7. B. Dylan, «With God on Our Side», dall’album The Times They Are a-Changin’: «I’ve learned to hate Russians/ All through my whole life/ If another war comes/ It’s them we must fight». Ma per concludere: «The words fill my head/ And fall to the floor/ That if God’s on our side/ He’ll stop the next war».

8. «Address by the President of the Russian Federation», 24/2/2022, en.kremlin.ru, bit.ly/3IRIVlk

9. D. Diner, «Putins Kriegsziele sind widersprüchlich», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15/3/2022.

10. Cfr. H. Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit, Frankfurt am Main 1986, Suhrkamp.

11. Cfr. C. Schmitt, Gespräch über die Macht und den Zugang zum Machthaber, Stuttgart 2017, Klett-Cotta, p. 65. Vedi anche «Elogio dell’anticamera», editoriale di Limes, «Stati profondi, gli abissi del potere», n. 8/2018, pp. 7-29.

12. H. Blumenberg, op. cit., pp. 80-81. Hitler si rivolgeva al suo aiutante di campo Nicolaus von Below dopo la fallita offensiva delle Ardenne. Cfr. N. von Below, Als Hitlers Adjutant 1937-45, Mainz 1980, Arndt, p. 398. 

13. Cfr. R. Milne, «Finland warns of “major escalation risk” in Europe amid Nato membership debate», Financial Times, 20/3/2022. 

14. Cfr. Limes, «Tempesta sull’America», n. 11/2020 e Limes, «L’impero nella tempesta», n. 1/2021.

15. C. Bennhold, «Germany is Ready to Lead Militarily. Its Military is Not», The New York Times, 23/3/2022.

16. G. Chazan, R. Olearchyk, «German navy chief resigns after Crimea comments spark diplomatic row», Financial Times, 22/1/2022.

17. «Regierunserklärung von Bundeskanzler Olaf Scholz am 27. Februar 2022», bit.ly/36Bl64i

18. «Große Mehrheit unterstützt sicherheitspolitische Kehrtwende», Der Spiegel, 2/3/2022.

19. Cfr. nota 17.

20. U. Speck, «Warum Deutschland dringend eine neue Oststrategie braucht», Der Spiegel, 13/3/2022.

21. C. Major, C. Mölling, «Zusammen mit Russland, das geht nicht mehr», Die Zeit, 24/3/2022.

22. J. Rogers, B. Tallis, «Bolstering NATO through British-German cooperation», Council on Geostrategy, 28/2/2022. 

23. Cfr. M. Gladwell, The Tipping Point. How Little Things Can Make a Big Difference, New York City 2000, Little, Brown and Company. Edizione italiana: Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, Torino 2020, Utet.

24. Cfr. A. Ortese, «Bambini della creazione», in Id., In sonno e in veglia, Milano 1987, Adelphi, pp. 187-8. L’esigenza di realtà è il titolo del saggio che Matteo Moca ha dedicato a Ortese, Bari 2022, LiberAria.  

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.