I treni per Reggio Calabria, quelli dei pendolari, la TAV

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 14 luglio 2016

Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa San Paolo, è l’ennesimo di una lunga serie. Voterà ‘sì’ al referendum, ma solo perché sennò la legge elettorale è impraticabile e ne servirebbe subito un’altra. Ma aggiunge subito che l’Italicum assegna “un premio sproporzionato che sacrifica la rappresentatività a favore della governabilità oltre ogni limite ragionevole”. Per dire. D’altra parte, secondo lui, la riforma sviluppa, con il Senato regionale, un’idea di fondo della Costituzione (quella vigente, non la futura), peccato però lo faccia “in modo molto discutibile”. Come Napolitano, Bazoli teme che se fallisse questa opportunità, non ve ne sarebbe un’alta. E dunque il ‘sì’ non avrebbe alternativa. Ma allora che si vota a fare, dico io? Quello che interessa al banchiere è il superamento del bicameralismo perfetto, che era giustificato, dice, soltanto dal timore che arrivassero i comunisti e facessero piazza pulita della democrazia. Perché ciò posso avvenire, Bazoli voterebbe di tutto, anche un Senato regionale discutibilissimo come questo. Ma-anche, temo, una legge che decidesse di radere al suolo Palazzo Madama o lo trasformasse in una parco tematico oppure in una sala giochi.

Bazoli è solo l’ultimo rappresentante di una classe dirigente che vota governativo a prescindere. Che sceglie il ‘sì’ anche se la riforma, com’è chiaro a tutti, è una specie di puttanata (cit. Cacciari). Magari lo scambio è il salvataggio del sistema bancario con soldi pubblici. Oppure uno status quo che salvaguardi certe posizioni sociali dalla crisi, di modo che questa scarichi sui disgraziati. Un po’ come avviene per le ferrovie regionali rispetto alla TAV. Oppure chiede una maggiore flessibilità fiscale, per agevolare la crescita si badi, non per tornaconto o per accrescere il baratro tra ricchi e poveri! Le classi dirigenti, le élite una volta erano una specie di risorsa della nazione, erano quelli che costruivano l’egemonia, tenevano in piedi gli apparati ideologici, costituivano il cemento culturale entro cui le classi e gli Stati si evolvevano. Erano quelli che si ponevano al servizio della vita civile, che restituivano sapere e cognizioni, che mediavano tra società e Stato, che cementavano il sociale, manifestando così un po’ di gratitudine verso chi pagava il sistema scolastico entro il quale si erano formati.

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Oggi le élite si stanno asserragliando nei loro recinti. O perlomeno quelle dotate di uno status più elevato e sempre meglio pagate. Una torre d’avorio dalla quale sono impegnate a valutare con esattezza vantaggi e svantaggi personali o di casta, e nulla di più. Acconsentendo alle puttanate, ove se ne cavasse profitto. Misurando attentamente la crescita patrimoniale o del conto in banca, quale prima variabile della loro azione. Una cerchia che si restringe, dove si deve sgomitare, dove si è insediata la crem de la crem. Altro che treni di pendolari. Altro che corpi spappolati tra le lamiere e gli ulivi. A me viene in mente il bordo piscina esclusivo, oppure l’aereo personale, i quartieri privatizzati coi vigilantes, una vita cosmopolita che ha però un buon ritiro in qualche villa di famiglia ben protetta da schiere di vigilantes. E invece l’unico treno che mi torna a mente da qualche ora è quello del 22 di ottobre del 1972, diretto a Reggio Calabria, strapieno di donne, uomini e bandiere, rallentato dalle minacce fasciste, che portava tutti alla manifestazione contro ‘Boia chi molla’. E c’erano pensionati (‘anni in fila per due soldi di pensione’) e gli operai della Fiat che ‘stavano in viaggio da più di venti ore’. Erano ‘treni più forti del tritolo, guardare quelle facce bastava solo’. Altro che olivette, bordi piscina, classi dirigenti ricche e codarde e le puttanate a cui comunque di deve dire ‘sì’, perché sennò non si è conformisti al punto giusto. Che poi sarebbe il punto di cottura finale, ultimativo, definitivo di un popolo già mezzo bollito di sé.

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