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di Alessandro Somma 4 febbraio 2017
Un quarto di secolo con Maastricht: liberiamocene, o sarà fascismo
Il Trattato di Maastricht, a cui si devono l’Euro e gli attuali assetti politico istituzionali dell’Unione europea, compie un quarto di secolo: venne firmato il 7 febbraio 1992, per poi essere ratificato dagli allora dodici Paesi membri ed entrare in vigore il 1. novembre 1993. In alcuni casi questo passaggio coinvolse direttamente il corpo elettorale: come in Danimarca, dove furono necessari due referendum per poi raggiungere un consenso relativamente contenuto (56,7%), e in Francia, dove i favorevoli rappresentarono una minoranza decisamente risicata (51%). Diversa la situazione nei Paesi in cui la ratifica spettò ai parlamenti nazionali: quasi ovunque il Trattato fu approvato con maggioranze bulgare, a testimonianza di come sui temi europei, e in genere sulle ricette economiche, la distanza tra elettori ed eletti sia da molto tempo incolmabile.
In Italia i Senatori favorevoli alla ratifica del Trattato furono 176 (16 contrari e un astenuto), e 403 i Deputati (46 contrari e 18 astenuti). Il tutto avvenne tra settembre e ottobre 1992, in un clima di forte preoccupazione non tanto per i disastri che avrebbe provocato, quanto per le note vicende legate a Tangentopoli, su cui all’epoca la magistratura aveva da poco iniziato a indagare. Anche per questo nessuno sembrò aver compreso appieno il senso di Maastricht, mentre i pochi che lo intuirono ritenevano che avrebbe rappresentato un’opportunità.
È il caso di Guido Carli, Ministro del tesoro tra il 1989 e il 1992, che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato. Il banchiere era consapevole che Maastricht avrebbe imposto “all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica Federale di Germania”, quindi un “mutamento di carattere costituzionale”. Ma lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe finalmente comportato “la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi”, per poi “ripensare in profondità le leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[1].
L’Europa prima di Maastricht
Il Trattato di Maastricht rappresenta uno spartiacque che identifica in modo netto un prima e un dopo nella costruzione dell’Europa unita. Quest’ultima è stata concepita come progetto neoliberale, e tuttavia, sino agli anni Settanta, vi erano ancora spazi per impostazioni di altro tipo: spazi che si chiusero quando si avviò il percorso che avrebbe condotto al Trattato di Maastricht.
Ma procediamo con ordine. Il Trattato di Roma, con cui nel 1957 si istituì la Comunità economica europea, si era limitato a creare un mercato unico: una zona di libero scambio per la libera circolazione dei fattori della produzione (beni, servizi, persone e capitali), e tariffe doganali comuni nei rapporti con i Paesi terzi. Non si parlava ancora di Unione economica e monetaria, ma di mero coordinamento delle politiche economiche nazionali, oltretutto a partire da due finalità per molti aspetti contrastanti: la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Il che legittimava politiche di matrice neoliberale, ossessionate dal controllo dell’inflazione, ma anche politiche redistributive incentrale sul sostegno della domanda, ovvero di tipo keynesiano.
Ciò fu possibile perché si era immersi nei cosiddetti Gloriosi Trenta: il periodo tra gli anni Cinquanta e Settanta caratterizzato da una crescita economica relativamente sostenuta e da un accettabile livello di redistribuzione della ricchezza, alla base di un equilibrio altrettanto accettabile tra capitalismo e democrazia. Il tutto assicurato, oltre che dall’ispirazione keynesiana della politica economica, fiscale e del lavoro, anche da un compromesso sulla circolazione dei fattori della produzione: le merci si spostavano liberamente, ma non così i capitali, da sottoporre a penetranti controlli statali. Per questo, sul punto, il Trattato di Roma era rimasto lettera morta.
Le cose sarebbero però cambiate per effetto degli avvenimenti che caratterizzarono gli anni Settanta, dagli shock petroliferi alla fine del sistema di cambi fissi varato a Bretton Woods. Determinanti furono però gli anni Ottanta, il decennio dominato dalle figure di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, fautori di politiche economiche ricavate dalla credenza secondo cui i fallimenti del mercato sono in verità fallimenti dello Stato: il mercato assicura la migliore redistribuzione della ricchezza, sicché i pubblici poteri devono limitarsi ad assicurare il funzionamento della concorrenza. Il che significava rinunciare allo stimolo della domanda, ridurre la pressione fiscale, e svalutare e precarizzare il lavoro: significava cestinare le politiche di matrice keynesiana.
Ma non è tutto. Sul finire degli anni Ottanta il blocco sovietico finì per implodere e questo privò il capitalismo del suo principale competitore, per il quale era stato costretto a non trascurare il tema della giustizia sociale. Seguì a ruota la Riunificazione tedesca, vicenda che alimentò ulteriormente l’illusione circa la bontà di Maastricht. Si pensava infatti che la Germania unita privata del Marco non avrebbe tenuto comportamenti imperialistici nei confronti degli altri Paesi europei[2]: che la moneta unica ci avrebbe salvati dall’Europa tedesca!
Jacques Delors e la svolta neoliberale
Come era intuibile, l’avanzata del neoliberalismo a livello mondiale incise profondamente sull’assetto della costruzione europea. La svolta fu interpretata da Jacques Delors, Presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, formidabile amplificatore del verbo neoliberale e tutore dei centri di interessi beneficiati da quel verbo.
Spiccava tra questi ultimi la Tavola rotonda degli industriali europei, una lobby fondata nella prima metà degli anni Ottanta per iniziativa di un selezionato gruppo di imprenditori, tra i quali compaiono gli italiani Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti[3]. Le loro proposte sul modo di procedere verso l’Europa unita, prima fra tutte la piena liberalizzazione nei movimenti di capitali, vennero fedelmente tradotte nel noto Libro bianco confezionato dalla Commissione Delors nei suoi primi mesi di vita[4]. Fu a partire da questo documento che venne predisposto l’Atto unico europeo del 1986, con il quali si dette l’impulso decisivo all’integrazione dei mercati finanziari, e si rafforzò l’indicazione per cui la politica economica doveva definirsi a partire dal controllo dei prezzi.
L’Atto unico europeo certificava insomma che, tra la piena occupazione e la lotta all’inflazione, l’Europa doveva privilegiare il secondo obiettivo e quindi procedere verso il definitivo rigetto delle soluzioni di matrice keynesiana. Questo era peraltro un effetto inevitabile, se si ammetteva la libera circolazione dei capitali: dal momento che gli investitori fanno confluire i loro fondi verso i contesti in cui maggiori sono i profitti, gli Stati sono condannati a competere per essere attrattivi dal punto di vista dei mercati. A vincere sarà così l’ordinamento nazionale che più favorirà la moderazione salariale, renderà la manodopera particolarmente flessibile e abbasserà la pressione fiscale sulle imprese. Il tutto inevitabilmente bilanciato da una riduzione della spesa sociale e da un complessivo ridimensionamento del perimetro di azione dei pubblici poteri, e dunque da un loro arretramento di fronte all’avanzata dei mercati: in sintesi il superamento dell’approccio keynesiano.
I parametri di Maastricht e la moneta unica
L’Atto unico europeo diede inizio alla lunga marcia verso il Trattato di Maastricht, a cui si affidò il compito di costruire l’Unione economica e monetaria nel segno della stabilità dei prezzi, quindi promuovendo per gli Stati “condizioni finanziarie e di bilancio sane ed equilibrate”. Nessuno spazio, dunque, per politiche redistributive alternative a quelle affidate al mercato e al principio di concorrenza: la libera circolazione dei capitali vanificava il ricorso alla leva fiscale, mentre l’indebitamento veniva impedito dal divieto di “finanziamenti monetari di deficit”[5].
Il Trattato di Maastricht chiariva il fine ultimo di queste misure: imporre che l’integrazione europea fosse compatibile unicamente con “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Indicava poi le tappe del percorso: prima la libera circolazione dei capitali, poi la fissazione irrevocabile di tassi di cambio tra le monete nazionali, e infine l’adozione dell’Euro. Il tutto nel “rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane” (art. 3A).
Le politiche economiche continuavano a essere di competenza degli Stati, i quali erano semplicemente tenuti a coordinarsi, ma si trattava oramai di un’affermazione di pura facciata. Il fine ultimo di quelle politiche era infatti individuato attraverso l’attribuzione all’Europa della competenza esclusiva in materia di moneta. I requisiti per essere ammessi nella Zona Euro, i cosiddetti parametri di Maastricht, erano in questo senso perentori, giacché il deficit e il debito pubblico dovevano essere contenuti entro “valori di riferimento”: rispettivamente il 3% e il 60% del pil. E per i Paesi che, dopo l’ammissione nella Zona Euro, si fossero discostati da questi obiettivi, venne prevista una procedura per disavanzo eccessivo, comprendente un complesso impianto sanzionatorio (art. 104C)[6].
La moneta unica venne varata nel 1999 come forma di pagamento non fisica, e dal 2002 come denaro contante. Della Zona Euro fecero parte, fin dall’inizio, undici degli allora quindici Paesi membri dell’Unione europea: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna (nel caso del Belgio e dell’Italia nonostante fossero lontani dal rispettare i parametri di Maastricht). La Grecia si aggiunse nel 2001, mentre nel 2007 fu la volta della Slovenia, nel 2008 di Malta e Cipro, nel 2009 della Slovacchia, nel 2011 dell’Estonia, nel 2014 della Lettonia e nel 2015 della Lituania.
Pareggio di bilancio
Abbiamo detto che sul piano formale le politiche economiche erano di competenza degli Stati, a cui però le politiche monetarie di Bruxelles sottraevano qualsiasi spazio di manovra. Fu questo il senso di Maastricht, che però rappresentò solo l’inizio di una fase caratterizzata dall’imposizione del verbo neoliberale, con modalità capaci di azzerare le possibilità di equilibrio tra capitalismo e democrazia.
Con il Patto di stabilità e crescita del 1997 si è iniziato a dire che il fine ultimo dell’Unione economica e monetaria era in realtà “l’equilibrio del bilancio, con un saldo prossimo al pareggio o positivo”. Dello stesso tenore il Fiscal compact del 2012, che ha imposto agli Stati di prevedere il pareggio in disposizioni nazionali “vincolanti e di natura permanente, preferibilmente costituzionale”. Il che equivaleva a dichiarare l’incostituzionalità dell’approccio keynesiano, ovvero ad annullare la possibilità di politiche economiche incompatibili con l’ossessione per il controllo dell’inflazione. È contenuta nel Fiscal compact anche l’indicazione, rivolta ai Paesi con un debito pubblico oltre il 60% del pil, a ridurlo “a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il tutto mentre il raffronto tra i livelli di indebitamento registrati a partire dall’attuale crisi segnano un notevole incremento per tutti i Paesi europei, e in particolare quelli della Zona Euro: dal 65% del pil nel 2007 a oltre il 90% nel 2015 (dati Eurostat).
Anche il coordinamento delle politiche economiche è stato nel tempo concepito per incidere sugli spazi di manovra degli Stati, in buona sostanza azzerati con l’inasprimento del sistema di controlli preventivi e di sanzioni successive.
Nel merito già il Patto di stabilità e crescita del 1997 aveva imposto ai Paesi membri di fornire annualmente un “programma di stabilità”, con l’indicazione delle misure con cui ottenere un “saldo del bilancio vicino al pareggio o positivo”. E aveva disposto che la procedura di infrazione per disavanzo eccessivo esercitasse la “pressione opportuna” per indurre lo Stato inadempiente a piegarsi al volere di Bruxelles.
Una serie di provvedimenti raccolti sotto l’etichetta di Six-pack, emanati nel 2011, sono poi intervenuti per limitare le valutazioni discrezionali nel coordinamento delle politiche economiche nazionali, reso così un dispositivo tecnocratico azionato da automatismi. Nel contempo si è istituito il cosiddetto semestre europeo: la procedura per cui, nella prima parte di ciascun anno, il Consiglio europeo elabora le linee di politica economica che gli Stati devono tradurre in Programmi di stabilità e in Piani nazionali di riforma in cui illustrare le riforme strutturale per il futuro.
Un ulteriore inasprimento delle procedure volte a coordinare le politiche economiche nazionali si è ottenuto con il cosiddetto Two-pack, due provvedimenti emanati nel 2013. Impongono fra l’altro che le indicazioni formulate durante il semestre europeo siano poi recepite nelle leggi di stabilità, con ciò sottraendo ai parlamenti nazionali qualsiasi potere decisionale, oltre che sul saldo di bilancio, anche sull’individuazione delle coperture e degli oneri.
Il debito come arma
I limiti al deficit e al debito non sono i soli strumenti utilizzati per rendere l’Europa unita una costruzione neoliberale, e sacrificare così la partecipazione democratica sull’altare del cosiddetto libero mercato. Maastricht ha aggiunto a quei limiti il divieto per i Paesi membri di ricorre all’assistenza finanziaria dell’Unione, di altri Paesi membri o delle Banche centrali (art. 104 ss.). In questo modo gli Stati che hanno bisogno di denaro devono rivolgersi al mercato, e questo finisce per assumere la funzione di disciplinare il loro comportamento, o se si preferisce di spoliticizzarlo. Il che è un effetto voluto: come ha poi chiarito la Corte di giustizia, il contrarre debiti essendo “soggetti alla logica del mercato” induce a “mantenere una disciplina di bilancio”[7].
Ciò comporta che gli Stati fortemente indebitati, che le mitiche agenzie di rating stimano in difficoltà a restituire la somma presa a prestito, saranno costretti a remunerare il rischio sopportato dai creditori concedendo interessi elevati: tanto elevati da alimentare la spirale del debito, e in ultima analisi a impedire il rispetto dei parametri di Maastricht. È a questo punto, quando cioè il ricorso al mercato diviene insostenibile, che si possono attivare le procedure previste per il caso in cui forme di assistenza finanziaria siano richieste non tanto per soccorrere lo Stato indebitato, quanto per “salvaguardare la stabilità della Zona Euro nel suo insieme”. Lo ha stabilito una disposizione del Trattato di Lisbona 2007, precisando però che l’assistenza deve essere “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 TFU)[8].
È questo l’attuale fondamento per l’attività della cosiddetta Troika, composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, che dal 2008 ha finora assistito Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Ungheria. Si è di norma seguito un copione identico: l’assistenza finanziaria è stata assicurata in cambio di impegni a diminuire le uscite, a incrementare le entrate e a liberalizzare i mercati, incluso quello del lavoro. Tra gli impegni del primo tipo spiccano le misure volte a contenere la spesa pensionistica e sociale, compresa ovviamente quella per la sanità e l’istruzione, a congelare o ridurre le retribuzioni dei pubblici dipendenti, e in genere a ridimensionare la Pubblica amministrazione. Gli impegni destinati a incrementare le entrate si traducono invece in un programma di privatizzazioni, a cui affiancare un piano di liberalizzazioni, in particolare nei settori dell’energia, delle telecomunicazioni e delle assicurazioni, oltre che nei servizi pubblici locali in genere. Quanto alle riforme del mercato del lavoro, è costante l’impegno a ripristinare più elevati livelli di libertà contrattuale, utili fra l’altro a rimuovere gli ostacoli alla precarizzazione e svalutazione del rapporto di lavoro. Il tutto limitando il potere dei sindacati dei lavoratori, ad esempio con la possibilità di derogare al contratto collettivo nazionale, e forzando la collaborazione con il datore di lavoro, in particolare con il ricorso alla partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa.
Liberiamoci di Maastricht
Insomma, sebbene le politiche economiche siano di competenza nazionale, come confermato dal Trattato di Lisbona del 2007 (art. 5 TFU), esse finiscono per essere decise dal livello europeo come riflesso di politiche monetarie di matrice neoliberale. Ed essendo queste ossessionate da controllo dell’inflazione, sono precluse agli Stati le politiche redistributive incentrate sul sostegno della domanda. Potrebbero teoricamente ricorrere alla leva fiscale, ma la libera circolazione dei capitali impone di non farlo, pena l’ulteriore decremento delle entrate fiscali e la cancellazione di posti di lavoro.
Da questo punto di vista Maastricht ha trasformato la costruzione europea in una sorta di Superstato di polizia economica, impiccando i Paesi membri a parametri che impediscono anche solo di considerare nel dibattito pubblico opzioni diverse da quelle contemplate dal pensiero unico. Così facendo, il Trattato non solo ha affossato approcci di tipo keynesiano all’ordine economico, bensì anche ciò che li aveva ispirati: il controllo democratico sul funzionamento del mercato, poi reso impermeabile a scelte incompatibili con il proposito di presidiare il meccanismo concorrenziale. Giacché nella visione neoliberale la politica non controlla, bensì sostiene il mercato, usa la sua forza per riprodurlo e non certo per arginarlo: si riduce a mera amministrazione desocializzata dell’esistente.
Occorre dunque liberarsi di Maastricht, ristabilire il primato delle politiche economiche sulle politiche monetarie, e a monte tornare ai vincoli nella circolazione dei capitali: una massa di denaro stimata in oltre venti trilioni di dollari a livello planetario, amministrata da manager della ricchezza privi di scrupoli, capaci di sottrarre al fisco 200 bilioni di dollari all’anno[9]. Così facendo si tornerebbe al primato degli Stati nazionali nella scelta del segno di quelle politiche: non tanto per soddisfare un istinto sovranista fine a sé stesso, ma per riportare la partecipazione democratica al centro della costruzione europea. E per consentire di ripensarla come motore di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza se del caso contro il funzionamento del mercato.
Non sarebbe nulla di rivoluzionario, anzi. Sarebbe semplicemente il ritorno dell’impostazione prevalente sino agli anni Settanta, quando si pensava che l’Europa unita dovesse prima decidere le priorità di politica economica, e solo in un secondo tempo, di riflesso, le politiche monetarie. E quando si sottolineava che il trasferimento di sovranità dal piano nazionale a quello europeo doveva maturare di pari passo con lo sviluppo di forme di democrazia sovranazionale: con il “trasferimento di una corrispondente responsabilità parlamentare dal piano nazionale a quello della Comunità”[10].
È peraltro evidente che un ritorno al Novecento è auspicabile se implica una restituzione alla sovranità popolare di spazi oramai riservati all’azione di una tecnocrazia, tanto determinante quanto oscura nell’individuare le modalità dello stare insieme come società. Per il resto non sono certo riproponibili le ricette pensate per un ordine economico fondato sulla crescita illimitata della produzione e del consumo di massa: un ordine rivelatosi incompatibile con la tenuta ambientale del pianeta, ma anche con la fine del lavoro determinata fra l’altro dall’evoluzione tecnologica.
È comunque dal ripristino del controllo democratico sul funzionamento del mercato, che occorre ripartire. Proprio il Novecento, con l’avventura fascista, ci ha del resto mostrato cosa succede se salta l’equilibrio tra democrazia e capitalismo, ovvero se per salvare il capitalismo scosso da una crisi economica e finanziaria viene sacrificata la democrazia. È di tutta evidenza che la crisi del 2008 ha scatenato reazioni molto simili: prima l’imposizione dell’austerità contro la volontà popolare, e poi la chiusura nazionalista non tanto per combattere l’invadenza del mercato, ma per avviare un conflitto commerciale tra Stati.
Maastricht è alla base di tutto questo. Se la costruzione europea potrà farne a meno, allora si potrà aspirare a un ritorno alla normalità democratica: che di per sé non genera giustizia sociale, ma che se non altro crea i presupposti affinché la si possa generare. Se invece la costruzione europea non riuscirà a liberarsi di Maastricht, allora non resterà che liberarci della costruzione europea. Altrimenti imploderà rovinosamente, riportandoci alla fase più buia del Secolo breve.
NOTE
[1] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, Laterza, 1996, pp. 432 ss.
[2] In questa ricostruzione si ritrovano anche i tedeschi: ad es. M. Sauga, S. Simons e K. Wiegrefe, Der Preis der deutschen Einheit, in Der Spiegel del 27 settembre 2010, p. 34 ss.
[3] Cfr. Changing Scales. A Review prepared for the Roundtable of European Industries (giugno 1985), www.ert.eu/document/changing-scales.
[4] Il completamento del mercato interno: Libro bianco della Commissione per il Consiglio europeo (Milano, 28-29 giugno 1985), Com/85/310 def.
[5] Consiglio europeo del 27 e 28 ottobre 1990, Conclusioni della Presidenza.
[6] V. anche il Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato al Trattato di Maastricht, dove sono quantificati i “valori di riferimento” (art. 1).
[7] Sentenza Thomas Pringle contro Governement of Ireland e altri del 27 novembre 2012 (C-370/12).
[8] Questa disposizione si deve alla Decisione del Consiglio europeo che modifica l’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un Meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’Euro (2011/199/Ue), del 25 marzo 2011.
[9] Da ultimo B. Harrington, Capital without Borders. Wealth Managers and the One Percent, Cambridge Ma. e London, Harvard University Press, 2016.
[10] Così il cosiddetto Piano Werner del 1970: Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria nella Comunità, dell’8 ottobre 1970.