di Alfredo Morganti – 24 settembre 2015
Tragedie umanitarie
Mai come oggi è necessario un intervento umanitario ai confini dei gruppi parlamentari del Senato. Numerosi senatori di centrodestra (e non solo) premono disperati alle porte del gruppo PD. Sono decine di profughi che sfuggono alla fine del berlusconismo e chiedono solo una parola di conforto e un seggio senatoriale. Meno male che al PD sono tutti a braccia aperte, non hanno rigurgiti politici di alcun tipo e sono pronti ad accogliere questa torma di persone e i loro voti di fiducia. Taluni hanno percorso faticosamente alcuni corridoi aperti (quello verdiniano, ad esempio o quello del gruppo misto), altri si sono precipitati direttamente alla porta di ingresso del gruppo, dichiarandosi democratici e anticomunisti da sempre, persino da prima che il comunismo prendesse forma. Molti vivono ancora in tende di fortuna piantate nei corridoi di Palazzo Madama, ma sono speranzosi di poter presto approdare al loro sogno: una nuova vita nel PD, per loro e per tutti i loro clientes. #Lacrimoni.
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Sul fenomeno politico del Trasformismo, riporto in calce un intervento di Alberto Burgio su Il Manifesto del 17 febbario, con una bellissima citazione di Gramsci che già quasi 100 anni fa aveva compreso tutto del sistema Italia.
Il trasformismo è anche un indice della gravità della crisi democratica in atto nel paese. Parlarne seriamente – persino drammaticamente – non è quindi pruderie. Significa, al contrario, abbozzare una inderogabile analisi politico-storica.
Cominciamo proprio da qui. Nei Quaderni del carcere Gramsci – non propriamente un moralista nel senso spregiativo del termine – insiste più volte sulla rilevanza del trasformismo nel processo risorgimentale e nella dinamica politica della nuova Italia (nei primi cinquant’anni di vita dello Stato unitario). Attraverso il trasformismo – scrive – i «moderati» guidati da Cavour «diressero» i democratici di Mazzini e Garibaldi, imprimendo al Risorgimento una cifra oligarchica, conservatrice e antipopolare. Anche dopo il 1870 la parte moderata continuò a dirigere il Partito d’Azione mediante il trasformismo, che per questo Gramsci considera «un aspetto della funzione di dominio», oltre che «una forma della rivoluzione passiva». In sostanza, la classe dirigente italiana venne elaborata «nei quadri fissati dai moderati» anche per mezzo dell’«assorbimento degli elementi attivi» provenienti dalle classi nemiche. Le quali furono così «decapitate» e per lungo tempo «annichilite».
Al di là dell’aspetto morale, Gramsci pone dunque un forte accento sul carattere politico del fenomeno trasformistico. Nella sua analisi colpisce in particolare un elemento di straordinaria attualità, in forza del quale essa sembra offrire la fotografia di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, tra «stabilizzatori», «responsabili» e altre varianti della progenie scilipotesca. Nell’analizzare il trasformismo, i Quaderni sottolineano la specifica responsabilità degli esecutivi. Affermano che i movimenti trasformistici sono da imputarsi in larga misura al governo in carica, il quale opera «come un “partito”» ponendosi al di sopra dei partiti esistenti per disgregarli, precisamente allo scopo di costituire una forza di «senza partito» posti ai suoi ordini.
Ottant’anni fa Gramsci sembra insomma raccontare la cronaca di queste settimane, il trionfo – chi sa quanto duraturo – di Renzi, il sorgere della sua «dittatura». Con la loro opera di corruzione e assorbimento di interi gruppi parlamentari, i governi Depretis, Crispi e Giolitti provocarono indubbiamente la «scarsità di uomini di Stato, di governo» e la «miseria della vita parlamentare». Ma la loro azione di comando indubbiamente se ne avvantaggiò, essendosi sbarazzata di ostacoli importuni.
Oggi questo scenario si ripete tal quale, sicché è sufficiente aggiornare l’analisi di Gramsci con il riferimento ad altri episodi e figure. Chiarendo innanzi tutto che il trasformismo non è più soltanto interpartitico ma anche infrapartitico (essendosi i partiti stessi parlamentarizzati).
Quanto sta avvenendo proprio in queste settimane nel Pd ne è un esempio plastico. Il partito di Renzi non è soltanto una forza attrattiva per fenomeni trasformistici classici (di affluenza di forze parlamentari dall’esterno). È anche sede di dinamiche trasformistiche interne, influenti sulla dialettica tra le sue componenti.
In quest’ottica va letto il confluire (conclamato o surrettizio) delle diverse anime dell’opposizione «di sinistra» nella maggioranza renziana, inaugurato mesi addietro dalla cooptazione in ruoli dirigenti di molti ex «giovani turchi» e bersaniani, e coronato, da ultimo, dalla sostanziale pacificazione interna successiva all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
È dunque un fatto: anche ai giorni nostri il trasformismo si conferma efficiente strumento di costruzione di maggioranze che immunizzano i governi dalla dialettica parlamentare, via via degradata a «potere di veto dei partitini», a «minaccia per la governabilità», a «sabotaggio a opera di frenatori».
Come in passato, il trasformismo è uno dei principali mezzi di governo e di controllo delle aule parlamentari. E anche da questo punto di vista il democratico Renzi appare in linea col peggio, replicando il diretto precedente dell’ultimo governo Berlusconi, tenuto in vita dal manipolo dei suoi «responsabili».
Ma – riconosciuta, anche grazie a Gramsci, la fondamentale politicità del fenomeno trasformistico – siamo soltanto a metà del discorso. Resta da chiarire una parte altrettanto rilevante, benché forse meno scontata. Come dicevo all’inizio, il problema è in che termini si parla del trasformismo e delle patologie consimili, sempre che se ne parli.