di Raniero La Valle – 29 maggio 2018
È stata una tragedia greca. Come nella tragedia greca, dove pur accadono i fatti più terribili, tutti avevano ragione, e una ragione più forte di loro che li spingeva. Aveva ragione in via di principio Mattarella, a rivendicare i poteri di nomina dei ministri datigli dall’art. 92 della Costituzione, e a temere Savona nel governo, spaventato com’era, anche se più del dovuto, per la minaccia della macchina da guerra turbo-capitalista, già giunta all’insulto a un’”Italia pezzente”, rea di uno sgarro verso la moneta sovrana. Aveva ragione il presidente incaricato Conte a insistere per quella nomina, proprio perché egli non era un tecnico messo al governo per fare i compiti imparati alla Bocconi, ma era un politico investito da compiti nuovi da un mandato popolare attraverso le forze politiche che avevano vinto le elezioni. Aveva ragione Salvini a non cedere sul nodo centrale della sua proposta politica volta a rimettere in discussione i rapporti di forza creati dalla moneta unica europea, perché la rinuncia a farlo, senza nemmeno provarci, significava rinuncia alla politica pur di avere il potere, il che sarebbe stato la definitiva catastrofe della politica e il suicidio del suo partito. Aveva ragione Di Maio a tener fede al patto stipulato con Salvini, perché era lo stesso patto o “contratto” appena promesso agli italiani, e stracciarlo, buono o cattivo che fosse, significava distruggere la differenza che aveva fatto grande il Movimento 5 stelle e che ora lo legittimava a governare. E aveva ragione Savona a dire che lui non chiedeva niente, tantomeno di fare il ministro, ma che le idee sono idee, e quelle non si barattano al primo guaito dei cani da guardia.
Insomma era un quadro in cui tutti finivano perdenti; e perdente è stato anche chi l’ha avuta per vinta, il presidente della Repubblica, perché egli può non nominare un ministro ma a Costituzione invariata non può farlo in nome di un’altra linea politica, perché in una democrazia parlamentare la politica la scelgono gli elettori e il Parlamento, e non gli organi di garanzia, che, facendolo, cessano precisamente di garantire; come farebbe la Corte Costituzionale se invece di dichiarare incostituzionali le leggi, si mettesse lei a legiferare per fare le leggi giuste.
Come spesso nelle tragedie greche, l’unico veramente ad avere torto è stato il coro. Bisognerebbe avere l’acutezza di René Girard nell’interpretazione dei miti greci, per descrivere tutta la forza di interdizione, la falsa sapienza e l’orgia dei luoghi comuni messi in campo dal circuito mediatico e informativo per vituperare e sbeffeggiare il governo nascente, quel coro che ventiquattro ore su ventiquattro ha spiegato al “pubblico” che arrivavano i barbari. Questo del coro che si finge oggettivo e neutrale sta diventando uno dei maggiori problemi della democrazia italiana nella formazione del consenso, all’ora in cui non si fa più politica, ma solo la si racconta, e chi ha gli strumenti del racconto, incurante della verità, impone la sua egemonia e porta il Paese dove non vuole andare.
Come nella tragedia greca, anche qui c’è una vittima, e c’è un sacrificio. In questo senso il caso Savona ha un valore cruciale, nello svelare qual è il vero problema.
Che cosa aveva detto Savona? Aveva detto che fatto l’euro, bisognava fare l’Europa, perché non era ammissibile una moneta senza una sovranità, e perciò una politica che la governasse; in democrazia si sa chi è il sovrano, il popolo, e se quello è spodestato, sovrana diventa la stessa moneta. Perciò alla moneta unica doveva seguire l’unità politica dell’Europa, in mancanza della quale le diverse sovranità nazionali sarebbero rimaste in conflitto, come infatti è avvenuto, mentre, in attesa, l’unione corretta tra loro avrebbe dovuto essere, come un tempo, quella di un mercato comune. Questo oggi non è più possibile, per i fatti compiuti. È chiaro che dall’euro non si può uscire, e tantomeno dall’Europa, e Savona ha spiegato che non voleva affatto questo, ma un’Europa più forte e più equa. La sua tesi che spinge all’unità politica si può pertanto discutere, ma certo non era antieuropeista, anzi era più europea; gli euroscettici sono quelli che impazziscono per l’euro, ma lo vogliono indipendente dall’Europa. Tanto poco populista e sovversiva è questa tesi che l’unità politica dell’Europa, perché non fosse anarchica l’unione economica, era stata l’idea dei padri fondatori ed è stata rivendicata in questi anni dai ceti intellettuali e politici più avveduti, e sostenuta dai migliori costituzionalisti e filosofi del diritto, a cominciare da Ferrajoli. Del resto è sempre stato così. La moneta rappresenta un sovrano. Se non fosse stato così Gesù non avrebbe potuto dare la famosa risposta del “date a Cesare”. A Roma, dopo l’imperatore Antonino Caracalla, che la coniò, l’antoniano fu la moneta più diffusa, e ogni imperatore ci metteva la sua faccia. Ma oggi, a quale Cesare si darebbe l’euro, per dare a Dio ciò che è di Dio?
Ed è tanto poco eretica e tanto perfettamente fattibile l’idea che il denaro vada governato, che un dettagliato documento pubblicato in questi giorni dalla Congregazione per la dottrina della fede lo suggerisce e spiega anche come si fa. È intitolato, con la classicità del latino, “Oeconomicae et pecunariae questiones”. È un testo difficile per i non addetti ai lavori, e forse non c’entra col Paradiso; ma sarebbe bene che gli addetti ai lavori lo leggessero, perché dice che se ne può parlare, che il controllo della finanza si può fare, che le ricette ci sono, magari si possono discutere e preferirne altre, ma le “cose pecuniarie” non sono un tabù, non sono l’arca dell’alleanza, non è il dogma trinitario; del denaro, dell’euro, della finanza, del rapporto fra economia e politica si può discutere, le cose sono nelle nostre mani.
La tragedia che è stata rappresentata è che invece la finanza, i mercati, il debito, il rating, il pareggio, il 3 per cento, non si possono neanche nominare, non ci appartengono, sono custoditi nel forziere del tempio, e basta un accenno a voler scostare il velo, a guardare cosa c’è dietro, cosa si nasconde dietro il fumo delle vittime e degli olocausti, ed ecco che scattano come furie le prostitute sacre e le vestali del tempio, e dicono: no, questo governo non si deve fare, questo tipo non deve essere ministro, e come il bene diventa spregevole se lo si chiama buonismo, così il popolo diventa spregevole solo che si abbia l’avvertenza di chiamarlo populismo, così come la sovranità se diventa sovranismo. Non che non ci fossero problemi seri col populismo italiano e con le pulsioni securitarie di Salvini, ma non per questo ci si è stracciate le vesti.
Questa è la vera tragedia, e mentre fioccano le accuse di fascismo, spunta la nuova intimazione del regime, da mettere in tutte le banche e in tutte le cancellerie, e in tutti i Parlamenti dell’Unione: “Qui non si fa politica, si specula”. Ma noi ci possiamo stare?
Nei settant’anni della nostra Repubblica, è la seconda volta che un voto popolare viene neutralizzato e che un processo politico, lungamente perseguito, viene intercettato e impedito nel momento in cui l’elettorato lo promuove, dandone mandato alle due forze vincitrici nelle urne. La prima volta lo fu in modo terribile e cruento, e fu il caso Moro, che si consumò non senza input esterni, e anche grazie al fatto che la DC, il PCI e il presidente della Repubblica del tempo, non seppero fare la scelta giusta per rispondere alla sfida. Nulla di paragonabile oggi; i tempi sono cambiati, non c’è nessuna violenza, e nemmeno ci sono segreti che restano nascosti, la DC non c’è più, e non c’è che il PD che avrebbe dovuto ereditare quella lezione e che invece è oggi il maggior responsabile del rischio in cui è finita la Repubblica. Ma anche questa volta la democrazia è in questione, e le conseguenze possono essere devastanti.
Dunque è giusto in questo momento di crisi della politica, salvare le istituzioni, a cominciare dalla democrazia rappresentativa e repubblicana.
Raniero La Valle