di Alfredo Morganti – 6 aprile 2018
La crisi della democrazia prende forma in modo prepotente quando si perviene a scambiare la presunta ‘vittoria’ elettorale con la conquista e la formazione effettiva del governo. È il caso in cui scompare, in sostanza, tutto quello che c’è in mezzo, ossia la ‘trasformazione’ della mera opinione elettorale (tanto più in un sistema quasi proporzionale) in concreta forma e sostanza di governo. In questi venticinque anni, ecco il punto, ci hanno fatto credere che bastasse prendere atto dell’esistenza di un vincitore sin dalla domenica sera per vedere il governo sorgere già di lunedì. Per convincerci dell’eventualità, ci hanno proposto il maggioritario, l’uninominale, il ‘premio’ a chi avesse un voto più degli altri o fosse il trionfatore dello spareggio del ballottaggio.
Ci hanno raccontato che si trattava solo di mettere qualcuno al comando, al di là della sua rappresentanza effettiva. Hanno proclamato a questo scopo, persino una Seconda Repubblica, che proponesse un sistema di tipo ‘agonistico’, nato per proclamare un vincente (ma che fosse davvero il ‘vincitore’ non era certo, come abbiam visto) e per mostrare a tutti come servisse un ‘allisciamento’ della politica, il suo assottigliamento, così da ‘donarci’ governi stabili in men che non si dica. La ‘narrazione’ prevedeva la politica e la mediazione come il vero male, e la ‘lotta’ mediatica tra leader aggressivi come il bene. Venticinque anni di bugie ed illusioni che oggi, come tanti bei nodi, vengono fottutamente al pettine. La Seconda Repubblica non era la soluzione alla crisi della partecipazione politica, ma la rasoiata definitiva al sistema già traballante.
È inutile girarci tanto intorno. Il maggioritario ha impoverito la politica nel suo carattere di mediazione strategica, di articolazione delle alleanze, di visione larga, e persino nel suo aspetto di stabilità. L’ha ridotta a leader più esecutivo, anzi a Capo più Palazzo. L’ha disossata delle istituzioni. Ci hanno persino raccontato la favola dei mille capi di governo della Prima Repubblica, come se la stabilità, appunto, fosse di uomini e non di politiche o di ‘blocchi’ di alleanze politico-strategici, che oggi non esistono più. Hanno introdotto, per guastare tutto, anche il concetto di ‘mandato’ personale (al Sindaco, al Premier), contingentando i tempi, restringendo i programmi e le attività ai pochi anni mancanti ancora al voto successivo, perdendo così ogni continuità strategica nell’azione di governo, che necessita invece di scadenze lunghe, altrimenti tutto si riduce a tappare buche e a strappare qualche grande evento o un po’ di comunicazione spicciola.
Quello che era un grande complesso istituzionale e partecipativo (i partiti, le istituzioni, la società), si è ridotto alla ‘sfida’ di qualcuno che ‘ci mette la faccia’ e promette che ‘farà’ cose per il Paese nel più breve tempo possibile: domani, oggi stesso, adesso! È in questa acqua putrida che la sinistra è affogata, mentre nel fango sguazzavano infidi pesci. Non è la crisi della sinistra, se non in termini derivati. È la crisi della democrazia, di quella rappresentativa, forse del modello più alto di partecipazione organizzata e trasparenza che la storia ricordi. Era quello il brodo di coltura della sinistra, oggi immiserita in uno spazio liscio, senza qualità e senza nervatura. Il Rosatellum, guai a odiarlo troppo, come in una eterogenesi dei fini, ci sta restituendo una dimensione proporzionale, sta riconoscendo il compito del Presidente della Repubblica e del Parlamento, obbliga gli urlatori mediali a trovare soluzioni articolate, allunga i tempi, sposta il pallone a centrocampo e alla rete dei passaggi, dopo anni di highlights. È già qualcosa, ma la strada da fare è molto articolata.