Fonte: Il Manifesto
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di Massimo Villone, da il manifesto del 5 febbraio 2015
Il neo-eletto Presidente Mattarella ci consegna un discorso per molti punti condivisibile – diritti, libertà, eguaglianza, inclusione, unità, oltre a legalità e corruzione — ma almeno in parte deludente sulle riforme. Non mostra consapevolezza che l’attuazione della Costituzione – pur auspicata — dipende alla fine da scelte di governo per le quali il modello istituzionale è decisivo. Troppo poco per chi vedeva nel suo nome un possibile freno al renzismo volto a tradurre nella politica e nella stessa Costituzione la concentrazione del potere sull’esecutivo e sul presidente del consiglio, con una corrispondente riduzione del ruolo del parlamento e degli spazi di rappresentanza e di confronto democratico. Si guardava al suo voto sul porcellum, alla sua personalità, alla estraneità rispetto al circolo renziano più interno. Ma forse la voglia di sperare veniva soprattutto dal timore di una fine anticipata della legislatura. E dalla consapevolezza che un freno verrebbe certo dalla nascita a sinistra un soggetto nuovo e competitivo, sull’esempio di Tsipras e di Syriza. Ma questo imporrebbe di abbandonare le bandierine identitarie per un campo ignoto, incerto nell’esito e pericoloso per tutti.
Auguri al Presidente e speranze sono d’obbligo, e non vogliamo affatto sottrarci. Ma una valutazione pacata ci dice che non basta avere in Mattarella una persona per bene, come è indiscutibilmente. Il punto è che il capo dello Stato non ha poteri che consentano di bloccare senz’appello scelte legislative e di governo. Certo, vigila sull’osservanza della Costituzione. Ma, per la prassi, si attiva per una «incostituzionalità manifesta». Personalmente ritengo che ciò accada per l’Italicum. Ma è un’opinione. Parimenti, la riforma costituzionale colpisce alcuni fondamenti di quella del 1948. Ma il ghiaccio su cui ci si muove per la incostituzionalità di una legge di revisione costituzionale è sottile. Ancora, il capo dello Stato può rifiutare l’emanazione di un decreto legge o decreto legislativo. Ma nel promulgare una legge – come l’italicum o la riforma costituzionale — può solo rinviare alle camere con messaggio motivato per una nuova deliberazione. Per la dottrina prevalente – se il parlamento riapprova, è tenuto a promulgare. Ne viene che sulle riforme il capo dello Stato ha un potere d’influenza, di moral suasion, ma incide nella misura in cui le forze politiche lo consentono. Napolitano ha pesato molto per l’evanescenza e l’inconcludenza della politica. Chi lo ha criticato e lo critica non deve mai dimenticare che sarebbe bastato un no della politica a chiudere la partita. È avvenuto il contrario.
Il discorso di Mattarella suggerisce che non possiamo comunque aspettarci un Napolitano in reverse. Ha definito le riforme – queste — sostanzialmente necessarie e urgenti e ne ha auspicato il compimento, dichiarando di non voler entrare nel merito. Non vediamo un’inversione di tendenza. Anzi un sostanziale disco verde, o al più l’annuncio di un ruolo notarile. Troppo poco in senso opposto il richiamo a una corretta dialettica parlamentare. Dunque, tra Mattarella e Tsipras, per la sinistra che rimane la via — se ne è capace — è Tsipras. Del resto, sui punti nodali del senato non elettivo e della legge elettorale, l’esperienza passata di Mattarella offre elementi di lettura. Il 29 gennaio 1997 presenta alla Commissione bicamerale D’Alema l’AC 3088, a sua prima firma, di revisione della II parte della Costituzione. Disegna un senato di nominati similtedesco, con esponenti degli esecutivi regionali, e in aggiunta rappresentanze di secondo grado delle autonomie. Quanto alla legge elettorale, la lista bloccata è nota all’on. Mattarella. Con la «sua» legge non è eletto in collegio, ma nella quota proporzionale con lista bloccata: nel 1994 e 1996 in Sicilia I, e nel 2001 in Trentino. Ma Mattarella è uomo d’onore. Il 13 ottobre 2005 alla Camera così dichiara il voto contrario del suo gruppo sul futuro porcellum: «… varate una legge elettorale che vi conviene ma indebolisce le istituzioni: per difendere il vostro interesse di parte, sacrificate l’interesse dell’Italia… È una colpa, ripeto, nei confronti del nostro paese e dei suoi cittadini, anche perché, così, si stabilisce l’abitudine che ogni maggioranza, ad ogni legislatura, si approva la sua legge elettorale, quella che ritiene gli torni più utile … ». E il 20 ottobre successivo sulla riforma costituzionale voluta dal centrodestra e poi bocciata nel referendum del 25 giugno 2006: «… emerge la concezione che è propria di questo Governo e di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. Questo è un errore. È una concezione profondamente sbagliata. Le istituzioni sono di tutti, di chi è al Governo e di chi è all’opposizione. La cosa grave è che, questa volta, vittima di questa vostra concezione è la nostra Costituzione». Molta acqua è passata sotto i ponti. Ma era giusto allora, è giusto oggi, e non sarebbe male ricordarsene.