TITANIC EUROPA – DI VLADIMIRO GIACCHE’ – ed. ALIBERTI
da Micromega
Nella seconda edizione del suo libro “Titanic Europa” Vladimiro Giacché aggiorna il racconto di una crisi della quale ancora non si scorge la fine. Una crisi che ha avuto come conseguenza, non come causa, la speculazione sui titoli del debito sovrano nei paesi periferici dell’area Euro. Ecco perché le politiche di austerity sono la ricetta sbagliata.
La seconda edizione del libro di Vladimiro Giacché Titanic Europa esce, per i tipi di Aliberti Editore, nel novembre 2012, a dieci mesi di distanza dalla prima. Di lettura scorrevole, il volume è un ottimo testo divulgativo, perfettamente accessibile al lettore colto ma non specialista. Procedendo con ordine, il primo capitolo (Una crisi made in USA) inquadra l’analisi della genesi e dell’evoluzione della crisi nel più ampio contesto delle politiche economiche e monetarie attuate negli anni ’70, ’80 e ’90 – fino ad arrivare alla recessione del 2001 e all’esplosione della bolla immobiliare – offrendo una chiave di lettura convincente e alternativa a quella generalmente proposta, corredata di dati e numeri che spesso vengono sottaciuti.
Il secondo capitolo (L’Europa nella crisi) ripercorre le fasi europee della crisi, mettendo a nudo la natura dell’operazione che ha spostato l’attenzione dai debiti privati – quelli delle banche, ma anche di famiglie e imprese – a quelli pubblici. Oltre a riportare una dettagliata cronologia degli eventi e individuare i ‘peccati originali’ dell’Euro, Giacché sottolinea come la speculazione sui titoli del debito sovrano nei paesi periferici dell’area Euro sia stata la conseguenza della crisi, non la causa. In risposta all’ondata speculativa che investe il continente, l’Unione Europea “impone misure draconiane che risultano controproducenti” e restringe i requisiti e le sanzioni indicate dal Trattato di Maastricht.
Giacché assume una posizione netta di fronte alle politiche di austerity, che riassume efficacemente citando Pratolini: “Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti”. L’adozione di tali misure è attribuita a motivi sia ideologici (il pensiero unico liberista) che “concreti”: scaricare “i costi della riproduzione sociale in capo agli individui”; consentire un facile accesso dei privati nelle attività pubbliche; permettere a società con sede all’estero di fare la “spesa a buon mercato” nei paesi periferici.
Il terzo capitolo (I timonieri del Titanic) entra più a fondo nella critica dei piani di austerity, definiti “non progetti sbagliati basati su falsi presupposti, ma la reiterazione di veri e propri atti criminosi”. Oltre a sottolineare l’evidente necessità che la BCE divenga una vera banca centrale, ossia un prestatore di ultima istanza, Giacché pone l’accento su due aspetti di grande rilevanza: “Il debito non si riduce risparmiando, ma investendo” e “Il ruolo dello Stato nell’economia va accresciuto, non diminuito”. Si tratta, a parere di chi scrive, precisamente dei due punti da cui occorrerebbe partire per tentare di far uscire l’Italia, e l’Europa, dalla situazione in cui versano.
L’ultimo capitolo (Un anno dopo. Conclusione) è stato aggiunto in occasione della seconda edizione del volume, a riconferma dell’analisi e delle conclusioni tratte nella prima. Se dieci mesi, nella situazione che stiamo vivendo, sono bastati per veder confermate le previsioni contenute nella prima edizione del libro, poco più di due mesi, tanto ci separa dall’uscita della seconda, sono stati sufficienti a confermare le previsioni di quest’ultima. Alla luce degli ultimi avvenimenti, le parole di Giacché suonano anzi come un monito: “Mentre le istituzioni europee e i governi nazionali sembrano ipnotizzati dal problema del debito pubblico, è probabile che la prossima crisi in Europa sarà una crisi bancaria”. Impossibile non pensare al Monte dei Paschi di Siena. Qui la tesi di Giacché, che prevede una crisi bancaria con il suo epicentro in Francia e Germania, si discosta da quella avanzata da altri economisti radicali – come, ad esempio, Emiliano Brancaccio che, intervistato proprio in relazione alla vicenda MPS, fa esattamente la previsione opposta (ossia che l’epicentro si collochi nelle periferie). Tuttavia, non sembra improbabile che i due economisti siano d’accordo sul fatto che “[l]’unica soluzione razionale, a questo punto, dovrebbe esser quella di avviare immediatamente un percorso verso la nazionalizzazione dell’istituto. Le ricerche più recenti evidenziano che le banche di proprietà pubblica possono erogare credito a condizioni più favorevoli e soprattutto in un’ottica di più lungo periodo” (E. Brancaccio, Liberazione, 23 gennaio 2013).
In conclusione, il libro di Vladimiro Giacché́ è senza dubbio una lettura consigliata per chi volesse avere un punto di vista alternativo, ben argomentato e suffragato dalle cifre, sulla crisi che ha investito le economie europee. Dal punto di vista di chi scrive, rispetto ad altri lavori aventi per oggetto lo stesso argomento, due sono i pregi maggiori di questo libro. Il primo è che sottolinea il fatto che la crisi dei debiti sovrani è stata causata della crisi, e non viceversa. A fronte di una continua erosione del potere di acquisto dei salari, anche a causa della precarizzazione del lavoro e della demolizione del welfare, il consumo privato è stato incentivato a finanziarsi con prestiti e mutui, creando la bolla speculativa. Per tappare le falle prodotte dal sistema finanziario, i governi si sono sobbarcati l’onere dei salvataggi. La soluzione proposta è quella di tagliare le spese sociali e aumentare la flessibilità del lavoro, cioè esattamente i fattori che sono stati all’origine della crisi.
Appare evidente che politiche di questo genere non possono che essere controproducenti. Al contrario, sarebbe necessario invertire la tendenza alla “deflazione salariale generalizzata” stabilendo uno “standard retributivo europeo” sulla linea di quanto proposto da Emiliano Brancaccio e Marco Passarella ne L’austerità è di destra (Il Saggiatore, 2012) e ripreso dallo stesso Giacché. In breve, in ogni paese dell’Eurozona dovrebbero avere luogo degli aumenti salariali in ragione di un tasso di crescita minimo fissato a livello europeo, a cui si dovrebbe aggiungere una componente specifica per ogni paese e crescente in ragione dei surplus commerciali accumulati nei confronti degli altri Stati-membri. Ciò da un lato migliorerebbe le condizioni dei lavoratori, dando impulso alla domanda domestica – che rimane il traino principale delle singole economie nazionali – e dall’altro contribuirebbe al rientro degli enormi squilibri di bilancia commerciale che affliggono l’Eurozona.
In secondo luogo, Giacché presta attenzione agli aspetti reali della crisi, in particolare ai processi di deindustrializzazione che stanno avendo luogo nelle periferie europee. Senza cadere nell’insopportabile retorica della decrescita felice, riconosce la necessità, per invertire questa tendenza, che gli Stati intervengano direttamente facendosi promotori di politiche industriali adeguate.