di Alfredo Morganti – 23 ottobre 2017
Giovanni Sartori, qualche anno fa, pubblicò un libro intitolato Videocrazia. Testimoniava la convinzione diffusa, e non peregrina, che la politica e il potere fossero una funzione dei dispositivi televisivi e della regole della comunicazione mediatica. Vero per molti aspetti, ma riduttivo e persino fuorviante per altri. Io credo che l’essenza effettiva della politica sia invece la teatralità, per quanto la tv incida profondamente sul consenso e condizioni in termini rilevanti linguaggi e forme del potere. Credo cioè che la politica si esprima più veracemente sulla scena ‘teatrale’, esibendo forme precipue di drammatizzazione, indossando maschere e soprattutto rivolgendosi a un pubblico vasto, che della politica appunto conosce e apprezza soprattutto le maschere allo scopo di formarsi un’opinione. Quanto volte abbiamo letto dell’ “ira di Renzi”, quante volte abbiamo assistito alle facce funeree delle figure del potere dinanzi alla morte di un giusto, quante volte abbiamo assistito a un confronto tra protagonisti del potere, che hanno occupato la scena ribattendo colpo su colpo sui giornali? E il ministro che “rilancia”? E l’altro che “si batte come un leone”? E poi i ‘ruoli’ in scena, il gioco delle ‘parti’, il duello? Sono solo esempi, ma indicativi.
Quando si dice “rappresentanza” politica, d’altronde, l’associazione con il termine “rappresentazione” è immediata. Cos’è se non una rappresentazione del potere quella a cui si assiste quotidianamente? Cos’è se non un visione mediata (mediatica) e ‘leggibile’ del potere stesso, ossia indiretta, affidata appunto a maschere e protagonisti che calcano la scena per rivolgersi a noi secondo leggi drammaturgiche, declinate in termini tragici, comici, satirici o da commedia? Una visione ‘diretta’ del potere è impossibile, ma la scena ce ne propone un’efficace sintesi raffigurativa, così da essere didascalicamente chiara a tutti. È una procedura che risponde alle regole della società di massa e non solo, al fatto che l’opinione pubblica non è costituita tutta da esperti o appassionati, alla necessità di una ‘propaganda’ di massa, come si diceva una volta, al bisogno di conquistare consenso con un linguaggio che si affidi a ‘figure’ piuttosto che a concetti complessi. Quasi un’ideografia della politica, affidata direttamente ai suoi attori in scena.
Leggo così l’intervista di Speranza a Repubblica. Che, se avesse voluto fare l’accordo con Renzi, non si sarebbe certo affidato alla stampa, l’avrebbe fatto e basta, fuori scena, senza maschere e soprattutto senza pubblico. Cosa fu il Patto del Nazareno, se non un patto segreto? Interpreto, dunque, quell’intervista così come lui stesso l’ha definita: una sfida. Una sfida portata in scena, un modo per marcare i confini, per indicare il non plus ultra, la linea di demarcazione insuperabile, i punti su cui non si transige: no al Rosatellum, no al Jobs Act, no alla buona scuola, no alla legge di bilancio scritta coi bonus e le regalie. Speranza, sulla scena, ha indossato la maschera dello ‘sfidante’, ha indicato con cura i confini di un dialogo che, a queste condizioni, per Renzi sarebbe impossibile a meno di snaturarsi e buttar via quattro anni. Ha tentato di imporre al segretario del PD la maschera dell’ipocrita, che ‘apre’ apparentemente ma poi non ‘apre’ affatto. Lo scopo non era appunto un accordo, quanto un messaggio indirizzato all’elettorato, che i giornali a queste condizioni (grazie alla palese teatralità della sfida) rilanciano subito, perché ne colgono l’effetto drammaturgico, comunicativo.
Che dice Speranza? Questo: “se tu (Renzi) ci presenti come ‘divisivi’, e ci accusi perciò di far vincere la destra e chiedi il voto ‘utile’, io sono qui pronto a smentirti, a proporti il dialogo e a chiederti di vedere le carte. Non perché io non le conosca, ma perché vorrei le conoscessero per davvero i cittadini e gli elettori. Affinché siano chiare le tue intenzioni e così le nostre”. Perché, diciamocelo, chi si occupa di politica ogni giorno, e si informa costantemente, queste cose già le sa, e non dovrebbe nemmeno perdere tempo a commentarle, anche se è legittimo che lo faccia, ovvio. Ma l’opinione pubblica è strapiena di chi non ha tempo e modo di informarsi, e si siede in platea ogni tanto solo a vedere lo spettacolo di successo, quello da molte repliche, e ad informarsi tanticchia, non di più. La sinistra per fare il pieno in platea e avere un riflesso sui giornali, deve scegliere un melodrammone dove reciti anche Renzi, sennò siamo invisibili, ‘Repubblica’ compresa. Ed ecco, quindi, l’intervista di Speranza. Che serve, a mio parere, a tracciare linee di demarcazione ben più di quanto tenda a unire surrettiziamente. A segnare uno spartiacque, non a confondere le linee. E magari pure a scuotere la sinistra interna al PD che appare dormiente, le cui contraddizioni e la cui iniziativa sarebbero molto utili invece se si manifestassero, ma che non si vedono, e perciò si è costretti a stuzzicarle, a fare leva su di esse, a scuoterle. Tutto qui. E credo proprio che non ci sia nulla più di questo. E se ci fosse ne sarei molto sorpreso.