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di Luca Billi 2 dicembre 2015
Io non credo e quindi per me il presepio non ha un particolare significato religioso, però lo faccio, per mia moglie, e perché trovo naturale rispettare questa tradizione.
Il termine latino traditio, -onis significa propriamente consegna e deriva dal verbo tradĕre; è la stessa etimologia della parola tradimento, un uso che deriva peraltro dalla traduzione latina dei vangeli. Ad esempio, in quello di Luca, Gesù dice a Giuda: osculo Filium hominis tradis. La tradizione è dunque la consegna di una serie di valori, in genere da una generazione all’altra; perciò la tradizione è una forma di educazione.
Ogni anno alcuni cretini montano una polemica che ha una qualche eco sui giornali – i cretini evidentemente fanno sempre notizia – perché in alcune scuole valutano se e come fare il presepio a scuola. Da nessuna parte è stato vietato il presepio, è solo il tentativo di riflettere su un tema non semplice, in realtà – come ce ne sono tante nel nostro paese – in cui i bambini stranieri sono molti, a volte sono di più di quelli italiani. Quando io andavo alle elementari il problema semplicemente non si poneva: era normale fare il presepio, perché tutte le nostre famiglie lo facevano a casa e tutti sapevamo cos’era. Credo che adesso sia davvero un po’ più complicato.
Al di là del folclore di quelli che sono andati davanti alle scuole a consegnare dei presepi – immagino abbiano comprato quelli realizzati dai cinesi, per spendere poco – e a cui non interessa nulla di questa tradizione, ma basta raggranellare qualche voto e una comparsata in televisione, la questione è interessante. Personalmente credo sia sbagliato sia evitare di fare il presepio, per paura di urtare le suscettibilità di qualche famiglia, sia farlo in maniera automatica – come lo facevamo noi – per compiacere il bigottismo di alcune altre. Per i bambini che vengono da altri paesi e che diventeranno un giorno cittadini italiani credo sia utile sapere non solo la storia che il presepio racconta, ossia la storia di una famiglia che ha una vita piuttosto tribolata, fatta di viaggi, di fughe, di povertà – una vicenda forse troppo simile a quella delle loro famiglie – ma anche la storia di come sia nata questa tradizione, che si inserisce in un contesto in cui era naturale rappresentare le storie della vita di questo dio, di cui nella loro classe c’è l’immagine appesa a un crocefisso. Sul presepio c’è tanto da raccontare, anche perché ogni regione ha una propria tradizione, propri personaggi caratteristici, modellati su quelle realtà, sui lavori tipici di quei paesi. Immagino che un bambino di oggi possa vedere cosa fa un falegname solo attraverso una statuina del presepio.
E credo che queste spiegazioni, che naturalmente dovranno essere calibrate in base alle età e alle competenze dei bambini, siano utili non solo agli stranieri, ma forse di più ai nostri. Sta crescendo una generazione per cui il Natale è solo l’ennesima occasione per avere un regalo, in cui non si ha memoria di nulla, in cui si perdono i valori, in cui non si conosce la cultura in cui si è nati. Tutto è omologato e probabilmente i nostri figli potrebbero convincersi che il menù tipico del pranzo di Natale sia hamburger, patatine fritte e Coca-Cola.
I miei, quando ero piccolo, non andavano in chiesa, ma non ricordo una vigilia in cui non si sia mangiato di magro. Quando i miei genitori erano bambini si mangiava sempre di magro, tutti i giorni, perché la carne era un lusso che i miei nonni, sia paterni che materni, non si potevano permettere, e quindi la sera della vigilia, quando si mangiava l’anguilla – piatto tutt’altro che magro per i nostri standard nutrizionali – era una festa. Per loro continuare a mangiare di magro la vigilia, quando ormai la carne poteva essere mangiata tutti i giorni – anzi abbiamo imparato che ne hanno mangiata troppa, con conseguenze sulla loro salute – era un modo per ricordare quei tempi lontani di povertà e in qualche modo per spiegarla anche a me, che fortunatamente, grazie prima di tutto ai loro sforzi e al loro lavoro, non ho dovuto provarla. E io la vigilia continuo a mangiare di magro, per essere fedele a questo insegnamento, a questa tradizione. E, se ne avessi avuto l’opportunità, l’avrei spiegato in questo modo a mio figlio o mia figlia.
Al di là del fatto che si faccia o meno il presepio, al di là del fatto che si creda o non si creda che quel bambino sia il figlio di dio, c’è un’etica della festa, e quindi un’etica del lavoro, con tutto quello che ne consegue, che i nostri bambini – tutti i nostri bambini, ovunque loro siano nati – dovrebbero imparare. Spero che un insegnante che prova a fare con coscienza il proprio lavoro – che è sempre più difficile – riesca a insegnarglielo. Immagino farebbe un po’ meno fatica se qualcuno la smettesse di sbraitare e soprattutto se li mettessimo in condizione di farlo.