TAV e TAP. Il Risiko gialloverde

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 30 ottobre 2018

La vicenda della Torino-Lione è davvero emblematica. Il ‘no’ di Torino alla realizzazione della Torino-Lione (e dunque il ‘no’ della maggioranza grillina) sta provocando la reazione indignata di un ampio fronte ‘produttivo’ che va dagli industriali, alla Camera di Commercio, ai Sindacati, che chiede invece il completamento dell’opera e l’avvio dei lavori in nome degli investimenti massicci (8,6 mld, di cui 2,9 per il completamento), dei posti di lavoro (4.000 addetti nel picco dei lavori), delle opportunità che la nuova opera offrirebbe. D’altra parte, i movimenti sociali ed ecologisti locali rivendicano la necessità di salvaguardare il territorio da modelli di sviluppo sbagliati, di cui la TAV sarebbe simbolo. Cosa succede allora? Che si stanno contrapponendo pezzi di società rilevanti, producendo un conflitto sano, normale in una società democratica, ma che il governo dovrebbe cercare di comporre pragmaticamente, traendone vigore non motivo di crisi. Come? Trovando soluzioni che soddisfino proporzionalmente le parti in causa. La democrazia moderna funziona così, sennò è una Vandea. E invece le forze di governo (locali, nazionali) che fanno? Alimentano lo scontro, sono incapaci di mediazione, mettono in scena uno psicodramma dai risvolti soprattutto ideologici.

Eppure, che servano investimenti pubblici appare evidente a tutti. Nella fattispecie parliamo di 8,6 mld di euro, di cui solo il 35% sarebbero italiani, mentre il 40% proverrebbero dall’UE (poi dice che l’Europa fa schifo). Che serva, poi, più occupazione (posti di lavoro veri, non alimentati da bonus) è un auspicio diffuso (qui si parla di 4000 addetti). E allora? Si dice: la Val Susa non ha bisogno della TAV, è uno scempio ambientale di cui i cittadini non hanno bisogno. Può darsi. Ma governare significa contemperare esigenze molteplici, trovare un filo che scovi soluzioni efficaci, non contrapporre ideologicamente le parti in causa. Altrimenti, nel balbettio di chi ha vinto le elezioni, non vi saranno mai né investimenti né posti di lavoro ma solo chiacchiere in forma polemica. Mi chiedo dunque: si ha in mente davvero un altro modello di sviluppo? E qual è, visto che nella manovra nazionale solo 3,5 mld di euro vanno a investimenti e il resto a ‘bonus’ in varie forme, quasi tutti per alimentare la domanda individuale di mercato? Forse il modello di sviluppo alternativo è il sussidio, il condono fiscale, il taglio delle tasse per i ricchi, la quota cento (che, poi, quota cento non è)? Meglio la TAV, francamente.

Se esistesse ancora la politica, le grandi energie sociali che si dilaniano attorno a questa opera pubblica, alimenterebbero lo sviluppo invece di contrastarlo in modo astratto. L’esecutivo e le forze che lo sostengono non aprirebbero fronti di guerra civile all’interno del ‘popolo’ (che pure si pretende unito!), ma tenterebbero di contemperare esigenze locali, nazionali ed europee, di far dialogare i pezzi sociali, di individuare con più precisione quel che è davvero l’interesse pubblico, perseguendolo nei fatti. Compito difficile, ma se ci si candida a governare un Paese grande e articolato come l’Italia, lo si deve sapere per tempo, non scoprirlo dopo per offrirne soluzioni solo ideologiche.

Apparentemente ‘ideologiche’, anzi. Perché è quasi scontato lo ‘scambio’ in corso tra TAP e TAV, così per fare contenti un po’ tutti, Lega e 5stelle. Il compromesso che non si sa costruire sulla TAV, tra le forze sociali e nel ‘popolo’ di cui si discetta, in vista del bene del Paese, lo si combina e accrocca bene, invece, tra le forze di governo, attuando uno scambio che è tutto meno che virtuoso, anzi. C’è poco da fare, quindi: la politica tanto aborrita, se non assume i caratteri di una grande impresa condotta da forze dotate di consapevolezza storico-attuale e da una degna classe dirigente, si riduce a un Risiko, a degli ‘schioppetti’ mediatici, dove ci si cannoneggia secondo i criteri tipici del marketing politico, nel più completo disinteresse verso le sorti di un Paese che, pure, si vorrebbe tirar fuori dalla melma in cui appare sprofondato.

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