TAV: condannati e assolti

per Gabriella
Autore originale del testo: Marco Vittone, Stefano Zirulia
Fonte: altreconomia
Url fonte: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5518

9 febbraio 2016 da Il Manifesto

Diffamò Pepino, pesante condanna per Esposito (Pd)

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No Tav. Il tribunale di Torino: «Avvertimenti trasversali tipici di situazioni ai limiti della legalità»

La delegittimazione delle voci critiche nei confronti della linea ferroviaria Torino-Lione è stata ricorrenti in questi anni. Quando, nel giugno 2012, uscì il libro «Non solo un treno… La democrazia alla prova della Valsusa» di Livio Pepino e Marco Revelli, il senatore «Sì Tav» per eccellenza Stefano Esposito, per un breve periodo anche assessore ai Trasporti a Roma, si spinse ad affermare (senza fondamento alcuno) un presunto «arruolamento» del figlio di Pepino tra i guerriglieri del Kurdistan, al fine di apprendere tecniche di guerriglia da importare in Val Susa. La dichiarazione fu riportata da un articolo pubblicato dal sito di informazione online «Spiffero.com». Nel silenzio del Pd e di buona parte degli intellettuali torinesi (tranne poche eccezioni), l’ex magistrato ed esponente di spicco dell’associazione Magistratura Democratica, citò Esposito davanti al Tribunale civile di Torino chiedendo che si accertasse il carattere diffamatorio delle sue affermazioni con conseguente condanna al risarcimento dei danni.

Dopo oltre tre anni dai fatti, è arrivata in questi giorni la sentenza del Tribunale di Torino che ha stabilito come Stefano Esposito abbia consapevolmente diffamato Livio Pepino per «sminuire la credibilità e l’autorevolezza delle opinioni contrarie da lui ripetutamente e pubblicamente espresse sulla Tav». E lo ha fatto attraverso un attacco al figlio «con una logica che, lungi dal costituire leale confronto di posizioni diverse, evoca fantasmi di inquietante allusività caratteristica di avvertimenti trasversali tipici di situazioni ai limiti della legalità». Altrettanto netta la conclusione della sentenza: «La nota dell’onorevole Stefano Esposito si rivela lesiva dell’onore e della reputazione del dottor Livio Pepino, e quindi illecita e produttiva di danno alla sua immagine, anche perché contenente notizie che sono rimaste in questa sede del tutto prive di fondamento. Nessun elemento di prova è stato fornito in questa sede del fatto che Daniele Pepino si sia recato in Kurdistan “per migliorare alla scuola del Pkk lo studio di tecniche di guerriglia e approfondire il concetto di guerra civile totale”».

Il Tribunale ha sottolineato la totale assenza di prova in ordine alla veridicità dei fatti e ha condannato Stefano Esposito al pagamento, in favore dell’ex magistrato Pepino, a titolo di risarcimento danni della somma di 17 mila e 500 euro.

Questa non è l’unica causa in corso tra Pepino ed Esposito, l’ex magistrato torinese ha presentato, infatti, querela per diffamazione in riferimento a un’altra avventata affermazione del senatore, che disse che Pepino e Fiorella Mannoia (e altri) erano stati i mandanti morali delle molotov rinvenute davanti a casa.
E quella del 2 febbraio non è la prima condanna nei confronti del senatore Pd, lo scorso 26 novembre il Tribunale di Torino ha condannato Stefano Esposito con l’accusa di avere diffamato quattro esponenti No Tav. L’8 dicembre 2011, aveva indicato in alcuni attivisti (e di esponenti del centro sociale Askatasuna) «gli autoproclamati leader di questo movimento che hanno pianificato e diretto le azioni violente». Affermazioni giudicate non fondate. «La critica, anche politica, deve pur sempre fondarsi sull’attribuzione di fatti realmente accaduti, non essendo lecito criticare qualcuno attribuendogli una condotta che in verità non ha tenuto», è sulla base di questo principio che il giudice Paola Rigonat ha condannato, a novembre, Esposito.

L’esponente Pd è stato condannato a 600 euro di multe e al risarcimento delle quattro parti civili con 5 mila euro a testa.

(http://ilmanifesto.info/diffamo-pepino-pesante-condanna-per-esposito-pd/)

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di Stefano Zirulia   8 Febbraio 2016 da diritto penale contemporaneo

‘La Tav va sabotata’: Erri De Luca assolto dall’accusa di istigazione a delinquere

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Le motivazioni del Tribunale di Torino (e alcune considerazioni sui rapporti tra libertà di espressione e tutela dell’ordine pubblico)

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Assolto “perché il fatto non sussiste”. È il dispositivo della sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino nei confronti di Enrico (Erri) De Luca, il noto scrittore accusato di istigazione a delinquere (art. 414 co. 1 c.p.) in relazione ad alcune dichiarazioni rilasciate in merito alla tormentata vicenda dell’alta velocità in Val di Susa ed alle azioni di sabotaggio realizzate dagli appartenenti al movimento “No Tav”.

Le motivazioni della pronuncia sono state depositate il 18 gennaio 2016. Nel prosieguo si dà sinteticamente conto della vicenda e dei passaggi essenziali della pronuncia, riservando alla parte conclusiva alcune riflessioni sull’attuale assetto dei rapporti tra tutela dell’ordine pubblico ed esercizio della libertà di espressione.

 

1. L’antefatto

Il 30 agosto 2013 due giovani appartenenti al movimento No Tav venivano arrestati in Val di Susa mentre trasportavano in macchina molotov, fionde, chiodi, maschere antigas, materiale pirotecnico e cesoie. Nel commentare l’episodio, l’allora Procuratore Capo di Torino Gian Carlo Caselli coglieva l’occasione per criticare gli intellettuali che, difendendo l’operato del movimento,  a suo avviso «sottovalutano pericolosamente l’allarme terrorismo in Val di Susa».

 

2. Le dichiarazioni “incriminate”

L’1 settembre 2013, intervistato da Laura Eduati dell’Huffington Post a proposito delle dichiarazioni di Caselli, lo scrittore Erri di Luca rilasciava le dichiarazioni che riportiamo di seguito (evidenziando in grassetto le espressioni successivamente valorizzate dalla procura torinese nel capo di imputazione per istigazione a delinquere).

 

EDUATI: Erri De Luca, ha ragione il procuratore capo di Torino quando paventa il terrorismo No Tav?

DE LUCA: Caselli esagera.

EDUATI: Forse esagera, ma in macchina i due ragazzi arrestati avevano caricato molotov…

DE LUCA: (sorride ironicamente) …Sì, pericoloso materiale da ferramenta. Proprio quello che normalmente viene dato in dotazione ai terroristi. Mi spiego meglio: la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo.

EDUATI: Dunque sabotaggi e vandalismi sono leciti?

DE LUCA: Sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile.

EDUATI: Sono leciti anche quando colpiscono aziende che lavorano per l’Alta Velocità come quella di Bussoleno, chiusa per i continui danneggiamenti? Non si rischia un conflitto tra lavoratori e valligiani?

DE LUCA: La Tav non si farà. È molto semplice.

EDUATI: La posizione è chiara. Ma è antitetica a quella presa dal governo.

DE LUCA: Non è una decisione politica, bensì una decisione presa dalle banche e da coloro che devono lucrare a danno della vita e della salute di una intera valle. La politica ha semplicemente e servilmente dato il via libera.

EDUATI: Di questo passo, afferma Caselli, arriveremo al terrorismo. Lei invece quale soluzione propone?

DE LUCA: Non so cosa potrà succedere. Mi arrogo però una profezia: la Tav non verrà mai costruita. Ora l’intera valle è militarizzata, l’esercito presidia i cantieri mentre i residenti devono esibire i documenti se vogliono andare a lavorare la vigna. Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa.

EDUATI: Politicamente come si risolve?

DE LUCA: Arriverà un governo che prenderà atto dell’evidenza: la valle non vuole i cantieri. E finalmente darà l’ordine alle truppe di tornare a casa.

 

Qualche giorno dopo, commentando la notizia secondo cui la società italo-francese “Lyon Turin Ferroviaire” (L.T.F.) intendeva denunciarlo per istigazione a delinquere, Erri De Luca ribadiva all’ANSA la propria posizione: «Resto convinto che il Tav sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare quest’opera».

Il 10 settembre 2013 il legale rappresentante di L.T.F. sporgeva effettivamente denuncia contro Erri De Luca. Il 9 giugno 2014, all’esito dell’udienza preliminare, lo scrittore veniva rinviato a giudizio per istigazione a delinquere (art. 414, comma 1 c.p.), e in particolare a commettere il delitto di cui all’art. 635 comma 2 c.p. (danneggiamento aggravato), nonché la contravvenzione di cui all’art. 19 comma 2 della legge 183/2011 (ai sensi della quale “fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale di  cui  al comma 1 – ossia le aree del comune di Chiomonte destinate ad accogliere i cantieri Tav – ovvero impedisce o ostacola l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale“; disposizione, quest’ultima, che a sua volta punisce “con l’arresto da tre mesi a un anno, ovvero con l’ammenda da euro 51 a euro 309“, la condotta di “ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato“).

Ricondotte entrambe le dichiarazioni di De Luca sotto l’unicità del medesimo disegno criminoso, l’accusa chiedeva la condanna dell’imputato a 8 mesi di reclusione.

 

3. La sentenza del Tribunale di Torino

Come anticipato, il Tribunale di Torino ha respinto le accuse mosse a De Luca, assolvendolo con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Due sono i cardini fondamentali attorno ai quali ruota l’impianto motivazionale della pronuncia: a) in punto di diritto, l’interpretazione della norma incriminatrice di cui all’art. 414 c.p. alla stregua di reato di pericolo concreto, in linea con la consolidata posizione secondo cui l’istigazione non è punibile se non risulta concretamente idonea ad offendere l’ordine pubblico, ricadendo in tal caso nell’ambito della libertà di espressione; b) in punto di fatto, la constatazione secondo cui le dichiarazioni dell’imputato, quandanche avessero effettivamente avuto contenuto istigatorio, calate nel contesto concreto in cui erano state rilasciate, non risultavano idonee ad indurre alcuno a commettere reati, e perciò erano da considerarsi inoffensive nel senso sopra specificato. Esaminiamo ora entrambi i menzionati punti più nel dettaglio.

Quanto al punto sub a), la pronuncia ricostruisce, con dovizia di particolari, l’evoluzione giurisprudenziale che ha condotto all’attuale e ormai consolidato orientamento in merito alla natura dell’offesa punibile ai sensi dell’art. 414 c.p. (cfr. pp. 6-9 della motivazione). Un’evoluzione maturata alla luce della necessità di tracciare la linea di confine tra la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero (art. 21) e l’esigenza, penalmente presidiata, di tutelare l’ordine pubblico. Ebbene – riportando testualmente i principi sanciti prima dalla Corte Costituzionale e poi anche dalla Cassazione sin dagli anni ’70 del secolo scorso[1] – il Tribunale di Torino ha ribadito che il punto di equilibrio tra i segnalati interessi contrapposti si individua espungendo dall’area della rilevanza penale le istigazioni che non risultino, secondo un giudizio ex ante in concreto, idonee a turbare l’ordine pubblico; ossia, di riflesso, ritenendo punibili soltanto le condotte che «presentano una forza di suggestione e di persuasione tali da poter stimolare nel pubblico la commissione di altri delitti del genere di quello oggetto dell’apologia o dell’istigazione»[2]. Il giudice è dunque chiamato ad accertare «l’idoneità dell’azione a suscitare consensi, e a provocare “attualmente e concretamente” – in relazione al contesto spazio-temporale ed economico sociale ed alla qualità dei destinatari del messaggio – il pericolo di adesione al programma illecito»[3].

In ordine ai criteri che consentono di accertare tale idoneità istigatoria, il Tribunale ha posto l’accento, sempre in linea con la giurisprudenza dominante, sulla necessità di non isolare le singole dichiarazioni di contenuto istigatorio, ma al contrario di calarle all’interno del complessivo contesto nel quale sono state rese. È proprio questo, come si vedrà immediatamente, il principio chiave che apre le porte all’esito assolutorio della vicenda in esame.

Passando al punto sub b), e dunque ai profili attinenti al caso di specie, giova subito sottolineare come non abbiano trovato pieno accoglimento gli argomenti difensivi tesi a negare il contenuto istigatorio delle dichiarazioni incriminate (cfr. pp. 9-10). Si tratta di argomenti che facevano leva, essenzialmente, su due elementi: da un lato, il fatto che le “cesoie” erano state invocate solo nell’ambito della polemica con il procuratore Caselli, cioè a mero titolo di esempio del fatto che il movimento No Tav si avvale di meri «articoli da ferramenta» e non invece di strumenti terroristici; dall’altro lato, sul carattere polisenso del verbo “sabotare”, che può essere inteso non solo come danneggiamento materiale, ma anche come intralcio, ostacolo, impedimento realizzati con mezzi leciti. Ebbene, pur dando atto della non univocità del contenuto di tali dichiarazioni, il Tribunale ha riconosciuto che l’istigazione a commettere atti illeciti rappresentasse quanto meno uno dei possibili significati ad esse attribuibile.

Ammesso – e, come appena visto, non del tutto concesso – che le dichiarazioni avessero davvero contenuto istigatorio, il giudice ha peraltro riscontrato l’inidoneità delle stesse ad integrare l’offesa tipica del delitto in esame: tanto sulla scorta di argomenti basati – come già anticipato – sull’allargamento del fuoco dell’attenzione dalle singole espressioni verbali isolate nel capo di imputazione la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti»; «hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa»; «resto convinto che il Tav sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare quest’opera») al più generale contesto dal quale dette dichiarazioni scaturivano, giacché – recita la sentenza, citando anche qui alcuni precedenti conformi (cfr. pp. 11 e 12) – il reato può considerarsi integrato «nei casi in cui le parole si calano in un contesto che è particolarmente predisposto al recepimento di un messaggio istigatorio specifico». Un contesto cioè – chiarisce ulteriormente la sentenza – «ove per ragioni contingenti è immediato e attuale il rischio che il messaggio istigatorio eserciti la propria forza suggestiva e persuasiva». Ai fini della descrizione del contesto rilevante, la sentenza in esame ha valorizzato tre ordini di elementi (pp. 12-13).

Il primo elemento sono le fonti che hanno diffuso le dichiarazioni di De Luca, ossia la testata online Huffington Post e l’ANSA. Si tratta, ha evidenziato l’estensore, di «mezzi diretti ad un pubblico nazionale, del tutto variegato», ben diversi dunque dalle «testate locali dell’area valsusina o di ispirazione anarchica…dirette a destinatari più propensi al recepimento anche di un eventuale messaggio istigatorio».

Il secondo elemento è il contesto storico nel quale le dichiarazioni sono state rese, ossia la fine dell’estate 2013. Il quel periodo, si legge nelle motivazioni, le attività del movimento non si differenziavano da quelle che si andavano registrando ormai stabilmente sin dal 2011, sicché le dichiarazioni incriminate non andavano ad inserirsi in un contesto “caldo” e come tale suscettibile di recepirle.

Il terzo argomento, infine, riguarda l’identità dell’autore delle dichiarazioni. Osserva la sentenza che Erri De Luca non solo non fa parte dei gruppi che organizzano ed eseguono le azioni violente del movimento No Tav, ma nemmeno pubblica articoli o rilascia interviste su periodici o fogli di settore teorizzanti l’opposizione violenta all’alta velocità in Val di Susa, di tal ché «non risulta – dall’istruttoria svolta – nemmeno come un personaggio che gode di un particolare seguito tra gli oppositori violenti dell’opera Tav».

 

4. Qualche considerazione “a caldo” sui rapporti tra pericolo per l’ordine pubblico e  libertà di espressione

Come già evidenziato, la sentenza in esame si colloca nel solco del consolidato orientamento giurisprudenziale relativo ai rapporti tra le condotte incriminate dall’art. 414 c.p. e l’esercizio della libertà di espressione: si tratta dell’orientamento in base al quale la pubblica istigazione e la pubblica apologia di reati ricadono nell’esercizio della libertà di espressione solo quando non creano pericolo per l’ordine pubblico, ossia non risultano concretamente e attualmente idonee, alla luce del contesto storico e sociale di riferimento, ad esortare i loro destinatari alla violazione della legge penale.

Tale indirizzo costituisce a sua volta l’applicazione, e lo sviluppo, del principio affermato dalla Corte Costituzionale nella risalente sentenza n. 65 del 1970, avente ad oggetto la compatibilità della fattispecie incriminata dal comma 3 dell’art. 414 c.p., ossia l’apologia di reato, con la libertà sancita dall’art. 21 Cost. Pronunciando una sentenza interpretativa di rigetto, i giudici costituzionali ritennero legittima la previsione codicistica, a condizione però che restassero espunte dall’area della rilevanza penale le condotte prive di potenzialità criminogena, da considerarsi – soltanto loro – esercizio della libertà di espressione. Alla base della decisione, la Consulta pose la considerazione secondo cui «la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21, primo comma, della Costituzione, trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell’esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema (sentenze n. 19 dell’8 marzo 1962, n. 87 del 6 luglio 1966, n. 84 del 2 aprile 1969)». Coerentemente, i giudici delle leggi conclusero nel senso che la propalazione punibile «non è (…)la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti».

In dottrina si è osservato che l’intervento dei giudici delle leggi ha nella sostanza prodotto l’effetto di trasformare l’apologia di reato in un «inutile doppione»[4] dell’istigazione a delinquere incriminata dal comma 1 dell’art. 414 c.p.: limitare la rilevanza penale dell’apologia ai casi in cui l’elogio del reato produce effetti criminogeni significa infatti, nella sostanza, ri-descrivere la fattispecie in termini di istigazione indiretta, ipotesi già di per sé riconducibile al comma 1[5].

Al di là di tali considerazioni, quel che è certo è che la giurisprudenza successiva all’intervento della Consulta ha indifferentemente applicato il principio enucleato dai giudici delle leggi all’una o all’altra delle ipotesi punite ai sensi dell’art. 414 c.p., facendone così il canone ermeneutico volto ad armonizzare l’intera norma incriminatrice con il principio di offensività[6]. Inoltre, seguendo le indicazioni provenienti dalla dottrina[7], alcune pronunce hanno ulteriormente ritagliato la fattispecie attorno alle sole condotte capaci di provocare la commissione di reati nell’immediato, o quanto meno in un futuro prossimo, e dunque alle situazioni dal carattere immediatamente aggressivo dell’ordine pubblico[8].

Questa sintetica ricostruzione dello status quo nei rapporti tra l’art. 21 Cost. e l’art. 414 c.p. consente ora di spostare il discorso verso il profilo sul quale si intende maggiormente focalizzare l’attenzione.

Seguendo la giurisprudenza sin qui esaminata, la libertà di espressione viene in rilievo nella fase del giudizio in cui l’interprete definisce il perimetro dell’offesa tipica ai sensi dell’art. 414 c.p. L’ambito di applicazione di tale norma incriminatrice viene infatti ridotto alla sole dichiarazioni concretamente ed immediatamente idonee a ledere la sicurezza pubblica, cioè dotate di elevata potenzialità criminogena, mentre si assegna a tutte le altre ipotesi il rango di esercizio della libertà di espressione.

Tale impostazione riconosce dunque all’art. 21 Cost. un ruolo strutturalmente diverso da quello che la stessa disposizione svolge quando viene invocata, ai sensi dell’art. 51 c.p., come causa di giustificazione di dichiarazioni integranti reato. Si prenda, quale esempio di quest’ultima situazione, il caso dei rapporti tra diffamazione e diritti di cronaca e di critica: qui la libertà di espressione consente di verificare se la condotta, ancorché tipica dal punto di vista dell’offesa (cioè effettivamente lesiva dell’altrui reputazione), sia da considerarsi nondimeno lecita alla luce di un corretto bilanciamento tra gli interessi confliggenti in campo. L’istigazione e l’apologia, invece, sono considerate lecite non quando risultano tipiche e scriminate dalla libertà di espressione, bensì quando sono atipiche ai sensi della norma incriminatrice interpretata alla luce del principio di offensività. Tanto è vero che la formula assolutoria utilizzata in questi casi – come si nota anche nella sentenza torinese – è quella indicante non la sussistenza di una scriminante (“perché il fatto non costituisce reato”), bensì l’assenza dell’elemento oggettivo del reato (“perché il fatto non sussiste“).

Tanto premesso, sorge il seguente quesito: nei casi in cui la propalazione (realizzata sub specie di istigazione o di apologia) risulta effettivamente idonea ad esortare i suoi destinatari alla commissione di reati, residuano margini per valutare l’antigiuridicità della condotta ai sensi degli artt. 51 c.p. e 21 Cost.? Sussistono, cioè, spazi per il contemperamento tra libertà di espressione e tutela dell’ordine pubblico nel caso concreto? Oppure la definizione dei rapporti tra tali interessi confliggenti deve considerarsi esaurita a monte, una volta per tutte, sul piano della tipicità offensiva?

Del tutto evidente è la rilevanza pratica del quesito. Ipotizziamo ad esempio che, nel caso oggetto della sentenza torinese, il giudice avesse ritenuto le dichiarazioni dell’imputato concretamente idonee ad istigare gli appartenenti al movimento No Tav a commettere nuovi atti di sabotaggio. Ebbene, in tal caso se si fosse applicato pedissequamente il principio enucleato dalla Corte Costituzionale l’imputato sarebbe stato senz’altro condannato. Viceversa, qualora si fosse riconosciuto all’art. 21 Cost. anche il ruolo di causa di giustificazione in senso stretto, allora il giudice sarebbe stato chiamato a svolgere un ulteriore bilanciamento tra gli interessi contrapposti nel caso concreto, e la partita della responsabilità penale dell’imputato si sarebbe riaperta sul piano dell’antigiuridicità della condotta.

In termini generali, riconoscere all’art. 21 Cost. il ruolo di causa di giustificazione di istigazioni criminogene solleverebbe immediatamente il problema di individuare i limiti dell’esercizio della scriminante, posto che l’ordinamento non potrebbe evidentemente tollerare il pubblico incitamento a commettere qualsivoglia reato. D’altra parte, ad analoga esigenza si è data fruttuosamente risposta, mutatis mutandis, sul citato terreno dei reati contro l’onore e la reputazione (dove i requisiti per l’esercizio dei diritti di cronaca e critica sono stati elaborati a livello dottrinale e giurisprudenziale), sicché non si vede per quale ragione l’operazione dovrebbe essere a priori preclusa sul terreno qui in esame. Verosimilmente, tra i limiti di una tale scriminante si dovrebbero annoverare il divieto di istigare atti di violenza contro le persone (costantemente ribadito dalla giurisprudenza Cedu[9]), nonché la rispondenza delle dichiarazioni ad un interesse pubblico. A quest’ultimo proposito, si è autorevolmente osservato che «un’azione costituente reato può ben essere portatrice, oltre che del disvalore tipicamente connesso con il realizzarsi dell’illecito penale, anche di valori etico sociali di segno positivo: tant’è vero che lo stesso codice penale, nell’articolo 62 n. 1, prevede l’ipotesi che un reato possa compiersi “per motivi di particolare valore morale o sociale”»[10]. La valutazione dell’interesse pubblico nel quadro del giudizio di antigiuridicità consentirebbe, oltretutto, di portare alla luce del sole considerazioni riguardanti il contesto politico-sociale di riferimento, evitando così il rischio – paventato da autorevole dottrina[11] – che le stesse condizionino indebitamente il giudice al momento della valutazione in ordine all’offensività della condotta.

Queste brevi riflessioni non hanno certo la pretesa di fornire una risposta compiuta al quesito sollevato in ordine alla rilevanza dell’art. 21 Cost. in chiave scriminante di istigazioni autenticamente criminogene. Esse mirano, molto più semplicemente, a stimolare il dibattito su una questione che appare suscettibile, al contempo, di incidere sull’esito dei processi per reati d’opinione e di contribuire alla più ampia riflessione sul tema della repressione penale del dissenso.

Un tema al quale la dottrina penalistica si è dedicata più intensamente in passato, ma che oggi sta progressivamente tornando al centro dell’attenzione, anche grazie a vicende processuali come quella in esame. Emblematici di questa rinnovata attenzione sono, da ultimo, alcuni autorevoli contributi comparsi pochi giorni fa sul nuovo numero di Questione Giustizia[12] e specificamente dedicati al “valore del dissenso”. Ci pare utile riportarne alcuni passaggi fondamentali.

Nell’editoriale, Renato Rordorf introduce il tema parlando di quel «dissenso che nel corso della storia è stato spesso oggetto di repressione, ma che, nondimeno, ha sempre costituito la molla di ogni progresso umano», e rivendicandone con forza il ruolo di «migliore antidoto contro ogni forma di autoritarismo»[13]. Guardando poi specificamente al “pensiero dinamico”, quello cioè capace di influenzare i propri destinatari al punto di farli passare all’azione, l’editorialista osserva: «sarà pur vero che le lezioni dei “cattivi maestri” possono indurre sconsiderati discepoli ad azioni pericolose o eversive, ma…il prezzo che, in termini di libertà, si paga nel volere reprimere il pensiero per prevenire l’azione è sempre troppo alto»[14].

Rispetto al valore del dissenso evocato da Rordorf, tuttavia, la nostra giurisprudenza non solo è rimasta impermeabile, ma al contrario – ci ricorda Marco Pelissero – «ha confermato in buona parte l’assetto di tutela ereditato dal regime fascista»[15]. Non ci si può attendere –  prosegue l’Autore – «che in questi ambiti il pericolo concreto possa fungere da argine all’espansione del controllo penale», in quanto «la funzione selettiva di tale elemento è fittizia se non ha ad oggetto eventi specifici, che mancano nell’istigazione a delinquere e nell’apologia di delitto»[16].

Le vicende storiche di Rosa Parks, Martin Luther King e don Milani – evocate nel contributo di Andrea Natale – testimoniano come la disobbedienza, e le incitazioni a disobbedire, siano suscettibili di contribuire al progresso della società. «Certo – ammette Natale – quelle manifestazioni di dissenso ebbero dei costi. Per chi disobbedì, subendo critiche, processi e perfino privazioni della libertà. Per le istituzioni, fortemente messe in discussione da un’opinione contraria, radicale e intransigente. Per la società, attraversata da conflitti – purtroppo non sempre limitati al livello verbale e ideologico – che ne hanno minato la tranquillità. Ma è altrettanto vero che – a chi levò quelle (ed altre) parole di dissensooggi noi non possiamo che rivolgere un devoto ringraziamento»[17].

Sarà forse la storia, allora, a dirci se anche ai militanti della valle di Susa, così come a chi li ha difesi e incitati, dovremo rivolgere un analogo ringraziamento, per aver opposto resistenza ad un’opera che reputavano – a torto o a ragione – dannosa per la loro comunità, per l’ambiente e in definitiva per il paese intero, in frontale contrasto col potere costituito e con l’opinione dominante. Già da ora, tuttavia, i tempi sembrano maturi per iniziare a riaprire seriamente la discussione relativa ai limiti che la repressione penale del dissenso può legittimamente incontrare in una società che aspiri ad essere autenticamente pluralista e democratica.

 

 


[1] Il passaggio dal risalente orientamento giurisprudenziale che ravvisava nell’art. 414 c.p. un reato di pericolo presunto, all’attuale posizione che viceversa esige la prova del pericolo concreto, è avvenuto a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 65 del 1970, la quale, con specifico riferimento all’ipotesi di apologia di reato (art. 414 co. 3 c.p.) ha respinto una questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla libertà di espressione ex art. 21 Cost. Il principio della necessaria idoneità lesiva delle dichiarazioni, ribadito mutatis mutandis dalla stessa Consulta nella successiva sent. n. 108 del 1974 (relativa alla fattispecie di pubblica istigazione all’odio tra classi sociali di cui all’art. 415 c.p., dichiarata in quella sede incostituzionale «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità»), è stato successivamente accolto anche dalla Cassazione, che l’ha applicato in una nutrita serie di casi (cfr., ex plurimis, Cass. pen., 14 giugno 1988, imp. Pierattini, in Foro it., 1989, II, 147; 3 novembre 1997, n. 10641, imp. Galeotto; 5 giugno 2001, n. 26907, Rv. 219888, imp. Vencato; 23 aprile 2012, n. 25833, Rv. 253101, imp. Testi; 20 gennaio 2015, n. 7842, in D&G, 2015, 23 febbraio).

[2] Si tratta di un passaggio della sent. 3 novembre 1997, n. 10641, imp. Galeotto, cit., testualmente ripreso nella pronuncia in esame.

[3] Ibidem.

[4] Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, Vol. I, V ed., p. 481.

[5] Così Fiore C., I reati di opinione, Padova, 1972, p. 104 ss.: «riescono quindi incomprensibili le ragioni per le quali (…) la Corte Costituzionale non abbia, poi, ritenuto di far luogo senz’altro alla dichiarazione di illegittimità dell’art. 414; visto che, per l’incriminazione della condotta “diretta e concretamente idonea” a provocare la commissione di reati, sembra che basti, e avanzi, il primo comma dell’articolo 414» (p. 106), osservando conclusivamente che «la Corte costituzionale ha dunque mancato ancora una volta l’occasione, che le si offriva, per una squalificazione di norme penali, che si sono sempre volenterosamente prestate ad una funzione di controllo ideologico, in sostanziale violazione del principio della libertà di espressione» (p. 107). Contra De Vero G., Tutela penale dell’ordine pubblico, Giuffrè, 1988, p. 225-229, che contesta il presupposto-base della tesi opposta, ossia la riconducibilità dell’ “istigazione indiretta” al primo comma dell’art. 414 c.p.

[6] Per una critica all’impostazione inaugurata dalla Corte Costituzionale e seguita dalla giurisprudenza successiva, v. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico, cit., p. 229 ss.

[7] Cfr., ad esempio, Piffer G., In tema di istigazione a delinquere, in Jus, 1977, p. 445; Fiore C., I reati di opinione, cit., p. 134.

[8] In questo senso, oltre alla sentenza torinese sopra esaminata, cfr. Cass. pen., 3 novembre 1997, n. 10641, imp. Galeotto, cit.; 17 novembre 1997, n. 11578, imp. Gizzo, Rv. 209140. Significativa, a tale proposito, la sentenza 16 ottobre 2008, n. 40684, che – pur non richiamando espressamente il principio di “immediatezza” in esame – ha annullato l’assoluzione di un consigliere comunale della Lega Nord accusato di istigazione per avere esortato una folla di cento persone, inferocita contro un campo rom, a occupare il campo e spostare la protesta al suo interno (cosa che era poi effettivamente avvenuta, degenerando in atti di vandalismo).

[9] Cfr., da ultimo, C. eur. dir. uomo, 31 marzo 2015, Öner e Türk c. Turchia. Il ricorrente era stato condannato per il reato di apologia di terrorismo, in ragione delle critiche espresse, nel corso di un comizio, sull’operato del governo Turco relativamente alla “questione curda” ed alla detenzione di Öcalan. I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la violazione dell’art. 10 Cedu, avendo in particolare constatato che le dichiarazioni del ricorrente non contenevano incitazioni alla violenza, all’insurrezione o alla resistenza armata, e che per questa ragione la sua condanna non poteva essere considerata “necessaria in uno Stato democratico”.

[10] Fiore C., op. cit., p. 50. Identiche considerazioni, del resto, aveva espresso la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 65 del 1970.

[11] Pelissero M., La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione Giustizia, n. 4/2015, p. 42.

[12] Questione Giustizia, n. 4/2015, pp. 4 – 91.

[13] Rodorf R., Editoriale, in Questione Giustizia, cit., p. 4.

[14] Id., p. 5.

[15] Pelissero M., La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione Giustizia, cit., p. 38.

[16] Id., p. 39. Nel prosieguo l’autore chiarisce di condividere la posizione della giurisprudenza che delimita l’ambito di applicazione dell’istigazione a delinquere ai casi in cui sussista «un pericolo immediato e concreto di commissione di reati» (p. 42). E tuttavia soggiunge: «e anche vero che in questo ambito il pericolo concreto mostra scarse capacità selettive, rimessa al potere discrezionale del giudice, lasciato privo di criteri direttivi controllabili e facilmente condizionabile dal contesto politico-sociale» (Ibidem).

[17] Natale A., Introduzione: Il valore del dissenso, in Questione Giustizia, cit., p. 7.

 

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