Fonte: Il Riformista
Partigiano, direttore de l’Unità, dirigente di primo piano del Pci, più volte parlamentare. Aldo Tortorella, 94 anni portati splendidamente, nella sua lunga vita pubblica ha sempre saputo coniugare curiosità intellettuale e passione politica, a cui ha sempre accompagnato una dote non comune al mondo della politica: quella dell’autoironia. Nel 1972 viene eletto per la prima volta deputato, ruolo che sarà riconfermato sino al 1994. Tempo dopo è responsabile per le questioni dello Stato, ed anche membro dell’ultima segreteria di Berlinguer e poi di quella Alessandro Natta. In disaccordo con la svolta della Bolognina, ha sempre cercato di privilegiare le ragioni dell’unità a sinistra, una sinistra plurale, non settaria, né residuale o “governista”.
Qual è la vera posta in gioco nel referendum sul taglio dei parlamentari?
Mi sembra evidente che ciò a cui si tende è il rafforzamento della tendenza antiparlamentare ampiamente sostenuta non solo dai partiti cosiddetti “populisti” ma da un pesante ritorno a sollecitazioni autoritarie che si giovano dei troppi errori e delle troppe manchevolezze o colpe di una rappresentanza politica fattasi ceto separato. L’attacco è al ruolo centrale del parlamento, cioè alla funzione costitutiva di ogni liberal democrazia e ancor più nella definizione datane nella Costituzione italiana. La drastica riduzione del numero dei parlamentari non è un dato numerico e meno che mai un dato finanziario, poiché il risparmio è ridicolo e per risparmiare quel poco in Parlamento, ci sarebbero ben altre strade, a partire da retribuzioni divenute eccessive. Si tratta di una riduzione della rappresentatività, del tutto assurda per le regioni minori nel caso del senato, ma comunque tale da allontanare sempre di più l’eletto dagli elettori e da favorire la designazione dei candidati da parte dei gruppi dirigenti di ciascuna parte politica. Per difendere il taglio si citano vecchie proposte della sinistra. Si tratta di paragoni improponibili che rovesciano il vero. Il problema di allora, quale che sia il giudizio su quelle proposte, era quello di dare più potere al parlamento e cioè alla rappresentanza popolare. Ciò a cui si mira oggi, come è evidente anche nella proposta del vincolo di mandato, è uno smisurato rafforzamento del potere esecutivo e dei gruppi di comando interni ed esterni alla politica. Torna lo scontro tra la fatica della decisione democratica e l’apparente funzionalità e simultaneità della decisione degli autocrati. Acconsentire a questa ultima tendenza è estremamente pericoloso. Ancora una volta la difesa della Costituzione e della rappresentanza da essa prevista è necessaria per impedire avventure, soprattutto in questi tempi di gravi turbolenze internazionali e di guerre diffuse. L’autoritarismo mescolato con lo sciovinismo e l’attacco ai diritti civili e sociali forma una pozione letale. Siamo di fronte, mi pare, alla manifestazione tipica dei passaggi d’epoca in Italia come in tutto il mondo. La crisi economica del 2008, i rischi ambientali invano negati, la pandemia imprevista ma non imprevedibile conseguenza di uno sviluppo scriteriato, l’acuirsi delle distanze tra ricchissimi e poverissimi nel mondo e in ciascuna sua parte rendono chiaro che un nuovo ordine sarebbe necessario. Ma il “nuovo” è difficile da definire e da creare e il vecchio ha la forza del già noto, dei pregiudizi, delle paure. I rischi del ritorno all’indietro sono grandi. Qui da noi c’è da condurre una lotta per coloro che stanno entro l’attuale maggioranza di governo e per chi standone fuori tuttavia è preoccupato, come anch’io sono, per la irruenza della destra più pericolosa e per la fragilità delle forze che dovrebbero essere le più rispettose dei valori costituzionali.
Stimo Tronti, ma non afferro bene questa catalogazione come antipolitica di ciò che è, in realtà, una politica che si giudica come una minaccia grave o, quando avesse pieno successo, come un aspro avversario contro cui combattere. La dottrina politica originaria cui si ispiravano consapevolmente o inconsapevolmente i 5stelle era composta di parti tra di loro diverse e talora opposte. Alla ben nota posizione “uno vale uno”, di antica origine, si contrapponeva il culto dell’Unico Capo che valeva per tutti. Alla lotta contro i partiti considerati perversi in quanto tali perché verticisti, professionalizzanti, poco o nulla democratici, si contrapponeva una formazione aziendale con marchio depositato di proprietà personale e con metodo detto di democrazia diretta gestito da una ditta privata incontrollata. La critica alla democrazia rappresentativa corrispondeva ad una gara di indiscriminate promesse per conquistare consenso e seggi. La autoproclamazione di una propria essenza né di destra né di sinistra corrispondeva a promesse programmatiche ora di destra ora di sinistra. Questo coacervo otteneva un grande successo di fronte a partiti come il PD, senza radici storiche, divenuto preda di un gruppo portatore di una politica ultraliberista e dunque senza idealità, senza radicamento sociale se non in talune località memori di un’antica tradizione, peraltro abbandonata. Ma la conquista della maggioranza relativa in Parlamento e il dovere di governare costringeva a scegliere tra le interne contraddizioni. Si rivelava insostenibile l’accoppiamento con la formazione (la Lega salviniana) che appariva vicina perché ostile ad un passato spacciato come tutto sinistrorso, ma le cui pulsioni e decisioni mostravano chiaramente l’appartenenza alla peggiore destra eversiva. E con un capo tanto grottesco e narcisista da rendere credibile e temibile la sua smania di potere assoluto. Il successivo incontro con un centro-sinistra molto moderato comportava concessioni da entrambe le parti con gravi turbamenti interni nelle due formazioni, come si è visto in alcuni casi per i Cinque stelle e come si vede ora entro il PD che ha contraddetto le sue passate decisioni e i suoi voti in Parlamento, ostili al taglio, in nome della stabilità del governo. Tesi, sia detto in parentesi, smentita dai precedenti. Non caddero i governi di centro destra e di centro sinistra sconfitti nei precedenti referendum costituzionali. Nei loro scacchi successivi pesò anche questo, ma di più la politica da ciascuno seguita. Quanto alla naturalità o innaturalità degli incontri politici metterei in guardia da ciò che appare immutabile. Leggo che c’è un movimento di destra estrema che si chiama “secondo natura” per cancellare il diritto ad una maternità responsabile, alla autodeterminazione della donna, alle diversità sessuali, alle insorgenze sociali e per arrivare sino all’esaltazione del cesarismo. La naturalità esiste ma è difficile discernere bene ciò che è naturale da ciò che è prodotto di abitudini pregresse o di culture passate. Esiterei a chiamare innaturale un incontro tra diversi ove non vi siano contrapposizioni sostanziali. Ogni incontro tra diversi è anche uno scontro o, almeno, un braccio di ferro. Il problema è, nel caso in questione, che la parte che si considera più vicina alla Costituzione non abbia il braccio di latta.
La nostra democrazia si è fondata, per decenni, sul sistema dei partiti. È ancora così e cosa sono diventati oggi i partiti?
C’è stata una lotta dura a partire dai tempi lontani degli ultimi due decenni del secolo passato contro quella che fu chiamata la partitocrazia e contro i partiti. I guasti nel sistema politico italiano, che dipendevano dalla sua particolarità, furono addebitati al sistema dei partiti in quanto tali. La particolarità italiana dipendeva, come si sa, dalla convenzione, dovuta alla guerra fredda, per escludere il maggiore partito di opposizione (che rappresentava un terzo dell’elettorato), cioè il Pci, da ogni possibile intesa di governo. Anche quando, con Berlinguer, la rottura con il sistema sovietico era stata proclamata, oltre che in termini politici e finanziari, in termini teorici. Ed è ben nota e tragica la fine del tentativo di Moro di arrivare ad un sistema di alternanza passando attraverso una maggioranza di governo con il Pci, sia pure con un monocolore democristiano. Un assassinio che fu un capolavoro di destra pensato ed eseguito, per la coincidenza degli opposti, da gente che si credeva rivoluzionaria. La inalterabile presenza al governo sempre dei medesimi partiti non poteva che portare alla loro degenerazione. Ma il tema era quello del loro rinnovamento non la ideologia della loro soppressione che fu vincente. La parola partito fu resa impronunciabile. Ma siccome una democrazia non può fare ameno di corpi intermedi, sono nate aggregazioni attorno a singole persone. Aggregazioni incoraggiate da scelte legislative (elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione, leggi elettorali spesso bocciate dalla Corte costituzionale) e favorite dalle nuove forme di comunicazione di massa. Che le persone divenute boss politici siano state un discutibile capo azienda o un attore comico, un capopopolo padano o un giovanotto televisivo, non ha mutato la comune caratteristica delle loro formazioni. Ognuna di esse è stata concepita escludendo ogni interna democraticità, dato che gli ammiratori o i tifosi di questo o di quello, fino ai livelli minori, hanno sostituito la partecipazione politica. Ognuna delle nuove sigle, nonostante le abborracciate identità e le pretese di non aver traccia del passato, non ha potuto non manifestare la propria inclinazione da una parte o dall’altra, a destra o a sinistra. Sarà molto difficile costruire partiti politici con una vita democratica vera. E non si potrà farlo ignorando la nuova trama di relazioni interpersonali creata dalla rivoluzione digitale.
Conversando con Il Riformista, Achille Occhetto ha rivendicato la giustezza della scelta della Bolognina ma ha aggiunto che in seguito furono commessi gravi errori nella gestione del post-Pci. Guardando a quei giorni con gli occhi del presente, qual è la tua valutazione?
Non mi pare che gli eventi successivi a quella scelta abbiano smentito le preoccupazioni che, insieme ad altri, manifestai a suo tempo. Non contestavo la necessità di un rinnovamento sostanziale, di fronte al mutamento in atto nel mondo, e dinnanzi alle trasformazioni nel lavoro e nella società indotte dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Mi preoccupava il taglio delle radici, il rigetto di motivazioni morali, sociali, economiche che non avevano perso la loro validità. Trovavo ingiusto accomunare nei fatti la esperienza comunista italiana, ispirata al pensiero critico di Gramsci, a quella opposta dei partiti sovietici che ci avevano avversati e combattuti. Con Berlinguer, dopo l’assassinio di Moro e il fallimento del governo detto di solidarietà nazionale, un radicale rinnovamento era iniziato. A partire dal ristabilimento delle ragioni etiche dei partiti e di un partito di sinistra (questo era la “questione morale”, non una mera caccia al ladro) e dalla messa in luce dei temi e delle contraddizioni indotte dallo sviluppo, pur nella consapevolezza della permanente antitesi tra il carattere sociale della produzione e il controllo in mani private sempre più ristrette della ricchezza prodotta. Di qui il tentativo, nella riconferma del dovere della vicinanza agli sfruttati e agli ultimi, di una svolta ecologista e di un primo adattamento agli sconvolgimenti nella produzione e nella società derivati dal progredire della scienza e della rivoluzione informatica. E, insieme, l’apprezzamento del nuovo femminismo (la priorità – e l’inaccettabilità – del dominio maschile rispetto all’avvento del capitalismo), la riscoperta del pacifismo, eccetera. Questo tentativo dell’ultimo Berlinguer, già assai poco capito mentre era in vita, venne etichettato alla sua morte come una sorta di deriva identitaria, mentre era l’unica strada per una nuova identità rispettosa del proprio passato. L’abiura, al contrario, avrebbe avuto l’effetto del suo contrario, cioè del conservatorismo encomiastico. Entrambi hanno il medesimo risultato. Quello di rifiutare ogni indagine seria sul proprio passato per discernere i meriti dagli errori, politici e teorici. E così è stato. È certo vero che sono intervenute sbandate successive. Però non vennero a caso, ma in conseguenza di un avvio che era fatto solo di una partenza senza meta. Nacquero dal PCI formazioni senza fondamenta. La conseguenza è stata quella di un succedersi di sigle, dall’una e dall’altra parte dell’avvenuta separazione, nella oscillazione tra una nostalgia in sé sterile e un nuovismo vacuo, aperto a tutti gli errori e a tutte le avventure, come abbiamo visto. L’esito sconfortante è sotto gli occhi di tutti, con una trasmigrazione di tanti da ciò che si dice sinistra o di centro-sinistra al polo opposto. Ma non voglio indulgere allo sconforto. Di ogni situazione c’è sempre il peggio. Ogni volta bisogna cercare di evitarlo.