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di Matteo Pucciarelli 13 aprile 2015
Perché loro sì e noi no? Perché in Grecia e in Spagna è venuta alla ribalta una sinistra – “sinistra” nel senso classico del termine: movimenti che hanno al centro del proprio programma politico la redistribuzione della ricchezza – capace di puntare al governo senza scendere a patti con la propria identità programmatica, e da noi no?
Loro sì e noi no, e viene quasi detto pensando al destino cinico e baro che colpisce indiscriminatamente vittime e colpevoli, alti e bassi, belli e brutti. Ma in politica il destino c’entra fino a un certo punto, soprattutto se – togliendosi di dosso la maglietta del tifoso – ci si accorge che in Italia non è stato fatto nulla di neanche lontanamente accomunabile con una delle due esperienze. Copiare non avrebbe senso, e questo è ovvio; ma ha più senso riempirsi la bocca di Syriza e Podemos e poi non coglierne neanche un aspetto?
Il primo appunto è che il modello greco e quello spagnolo hanno uno stesso punto di arrivo (programmi simili e un’asse di ferro contro l’austerità) partendo da storia, realtà e pratiche completamente diverse. Sarà anche per questo motivo che in Italia, a seconda della propria micro appartenenza organizzativa e partitica, si finisce sempre per tifare per uno dei due, per prediligere un movimento all’altro. Semplificando molto, per una realtà di partito Syriza è qualcosa di più attraente, per una di movimento Podemos ha più punti di contatto. Per una sinistra affezionata a simboli e liturgie, Syriza rimane più vicina; per una sinistra che tenta di emanciparsi “giocando” con la modernità, Podemos dà una sorta di legittimità alle proprie posizioni. Il primo errore e la prima spiegazione del perché loro sì e noi no è questa: in Italia ci si cuce addosso ciò che ci piace di più, i due modelli sono spesso utilizzati in contrapposizione l’un con l’altro, diventando un ulteriore motivo di divisione. Soprattutto, si sceglie un modello e di quello stesso modello si rimuovono i punti scomodi. Tutto, pur di non cambiare se stessi.
Partendo dalla Grecia. Syriza nasce più di dieci anni fa come “coalizione della sinistra radicale” (questa la traduzione dal greco), mettendo insieme tredici organizzazioni fino ad allora divise. Comunisti, socialisti di sinistra, ecologisti, maoisti, trozkisti, eredi dei social forum e così via. Realtà che rimangono autonome fino al 2013 ma che si ritrovano nell’alternatività al Pasok, il partito socialista, che in quegli anni arriva a ottenere anche il 40 per cento dei consensi. Un mondo eterogeneo che però si coalizza attorno alla convinzione che scendere a patti (a livello comunale, regionale e nazionale) con il Pasok è impossibile, perché banalmente il Pasok non incarna più i valori storici della sinistra. Fine del discorso. Si comincia da lì, si tira dritto non senza difficoltà e scissioni “da destra”, da parte di chi riteneva necessario fare un’alleanza di governo con il centrosinistra. La storia dirà che chi prese quella strada è poi sparito dai radar della politica greca, Pasok compreso. Ora, in Italia non esiste alcuna coalizione della sinistra, se non a scopo di volta in volta elettorale; allo stesso tempo tutte le forze della sinistra in questi anni e tuttora hanno praticato un’alternatività verso il Pd quantomeno schizofrenica. A volte sì, a volte no, a livello nazionale sì, a livello regionale no, a quello comunale ognuno fa per sé. Il nodo di fondo del rapporto con il Pd non è mai stato chiarito una volta per tutte, e da nessuno.
Syriza nel corso di questi anni ha rinnovato il proprio gruppo dirigente. Tsipras, a soli 35 anni, è diventato leader della coalizione. E come prima cosa Tsipras “uccise il padre”, Alavanos, vecchia figura carismatica della sinistra, il quale gli aveva concesso la leadership, pensando alla solita e normalissima cooptazione. In questi anni la generazione dei trenta-quarantenni ha preso in mano le redini di Syriza, una “rottamazione” in salsa ellenica che – giusta o meno che fosse – resta un dato di fatto. Inutile dire che in Italia non è stato fatto nulla di questo genere. Se nel 2015 nell’immaginario comune il mondo della sinistra è ancora collegato ai nomi di Bertinotti-Ferrero-Vendola (in questo senso è utile andarsi a leggere i commenti agli articoli di giornale, pur nella loro virulenza aiutano a farsi una percezione), se due dei tre ad oggi hanno ancora in mano le chiavi delle proprie organizzazioni, se insomma la realtà è questa, ecco che un altro punto cardine è completamente cannato.
Altra questione fondamentale. La piccola Syriza diventa grande quando Tsipras, da poco leader, inverte la marcia, ed è un cambiamento epocale, perlomeno a livello mentale: Syriza, dice, vuole diventare una forza di governo. È finita l’epoca della sinistra di opposizione, dei no, del rassicurante recinto minoritario, tra convinzioni irremovibili e irrilevanza rispetto al potere decisionale. Tsipras – tra le ironie degli avversari e quelle dei suoi stessi compagni – per la prima volta si pone un obiettivo ambizioso: il governo. Non entrando in una maggioranza, ma diventando maggioranza. Il “socialismo” non è un anelito, non è il sol dell’avvenire, non è la progressione della storia o un’utopia, è qualcosa da interpretare ma soprattutto costruire oggi con gli strumenti che ti dà il presente. È un salto qualitativo che all’inizio compresero in pochi, ma che ha permesso a Syriza di allargare il proprio consenso. Sono gli anni pre-crisi, poi arriva la crisi, e in quest’ottica di unificazione dei ceti popolari e di conquista della maggioranza Syriza mette «le mani nella merda»: si butta a capofitto laddove c’è protesta, in mezzo alle contraddizioni e non di rado alle violenze delle piazze.
Tutto questo si accompagna a un vasto lavoro nel sociale, nel mutualismo, reso ancor più necessario dall’impatto drammatico della crisi. Per tutti questi motivi Syriza cresce e diventa credibile: agli occhi dei greci si è dimostrata realmente alternativa al vecchio sistema di potere; si è aperta alla società e all’opzione di governo e soprattutto ha praticato i propri valori nelle strade, nei quartieri, laddove ci fosse conflitto. Rinnovando la propria immagine grazie allo stesso Tsipras. Inutile aggiungere che in Italia ad oggi nessuna di queste caratteristiche, nell’insieme e nel particolare, è rintracciabile da qualche parte.
Il modello spagnolo è una storia a parte, ed è una storia capace di spiazzare e mettere in discussione tutti i totem della sinistra classica. Podemos nasce come cartello elettorale in vista delle elezioni europee di un anno fa, quindi esordisce con un nuovo simbolo, un nuovo leader, un nuovo gruppo dirigente, in contrapposizione con Izquierda Unida e Psoe.
Non c’è alcuna intenzione di «unire la sinistra», né di mettere insieme pezzi di gruppi dirigenti di partiti e sindacati. Il fine è il consenso, e per raggiungerlo si utilizzano mezzi che sanno di marketing. Una forte esposizione mediatica della figura carismatica (Pablo Iglesias), un utilizzo totalmente aperto di internet per la comunicazione da un lato e per la partecipazione dall’altro. Il tutto, però, partendo da un’analisi della società spagnola e di ciò che in quella società, dal punto di vista della domanda politica, c’era bisogno. Quindi un nuovo movimento (elemento di novità), una forte attenzione ai temi cari ad un pubblico giovane e cittadino, una critica serrata al bipartitismo e alla casta politica e finanziaria, il richiamo ossessivo alla riconquista della democrazia accompagnato però da una dimostrazione pratica, cioè la possibilità data agli spagnoli di decidere, votare – per esempio – le candidature del movimento.
Come Tsipras, Iglesias sin da subito, tra lo scetticismo generale, parla di conquista della maggioranza. Podemos vuole governare, e la propria radicalità nei contenuti diventa l’elemento di forza. Non si cerca la moderazione, perché la jente non è moderata: è incazzata. E mentre la sinistra classica punta il dito contro il populismo (e in certi casi il paraculismo) di Podemos, Podemos diventa il primo partito spagnolo, secondo in sondaggi. Lo fa grazie anche al grande esperimento di democrazia diretta che è stato tutto il farraginoso meccanismo che ha trasformato il movimento in un partito, a metà tra web e assemblee.
Podemos abbandona tutti i santini della sinistra, almeno a livello immaginifico. La parola “sinistra” viene riposta in un cassetto. Non conta se si parla di sinistra, conta se si fa la sinistra. Non servono le analisi del sangue, occorre una risposta alla crisi (economica e di sistema). Conta allargare il consenso, la propria capacità di parlare a tutti, anche a chi storicamente viene da un altro mondo ma che – ecco la grande opportunità offerta dalla crisi – vive sulla propria pelle il peso delle politiche recessive e di austerità.
Sia Syriza che Podemos hanno beneficiato dei vari movimenti che le rispettive società hanno prodotto in questi anni. Dagli scioperi generali ad Atene agli indignados a Puerta del Sol, a Madrid. Entrambi i paesi sono giovani democrazie, quindi e probabilmente con un elettorato più ricettivo e cosciente. E però in entrambi i casi, così diversi tra loro, si intravede lo sforzo di guardare fuori dai propri recinti. Con coerenza, coraggio, ambizione; accettando le nuove forme della politica, comprese quelle più liquide. Facendo ciò che si dice, o almeno provandoci. Con una forte dose di pragmatismo, tra luci e ombre, ma garantendo sulla qualità (sul fine) di quel pragmatismo.
Perché loro sì e noi no?