Solo tre parole. Sconfitta, popolo, egemonia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 2 novembre 2018

Ci sono due modi di affrontare un problema. Uno sceglie di privilegiare l’analisi del soggetto, l’altro prende in carico soprattutto l’oggetto. Anche nella politica teorica (e in quella quotidiana) è così. Da una parte c’è chi (si) infligge frustate, quasi a espiare chissà cosa. Ed è tutto un fiorire di errori fatti, di occasioni non colte, di sviste, abbagli, malintesi, equivoci compiuti nel tempo sino a produrre la Sconfitta storica, quella con la ‘S’ maiuscola, inemendabile, quasi un peccato originale da cui nemmeno un’autocritica potrebbe salvarci. Una ricerca della salvezza senza nemmeno la possibilità di una salvezza, in fin de’ conti. Come una mosca in trappola in una bottiglia. Dall’altra, invece, c’è chi ostinatamente si confronta con il contesto, le vicende reali, i rapporti di forza e dunque la forza dell’avversario, le battaglie perdute, le sconfitte patite, la condizione di minorità, l’anno zero. Facile dire che hanno entrambi ragione, come la botte piena e la moglie ubriaca, ma non è così.

Il primo, quello che “personalizza” e martirizza se stesso nella lunga elencazione degli errori compiuti, vive in un mondo circoscritto, ridotto al sé, dove l’altro non c’è e se c’è è marginale – dove il contesto è una mera derivazione, anzi è paradossalmente ‘fuori contesto’, e dove conta solo la potenza (o impotenza) personale. Un’analisi condotta secondo questi parametri induce diritto all’autocritica, magari pubblica, con sequela di scuse e inchini dinanzi a un ‘popolo’ della sinistra che funge da giudice risentito perché evidentemente ‘tradito’ (la storia della sinistra è stracolma di dirigenti o militanti ritenuti ‘traditori’, a partire dai social-traditori o socialfascisti di un tempo).

Il secondo invece, quello che riconosce la sconfitta, ne misura la portata, ne analizza i cardini e getta uno sguardo sul mondo grande e terribile in cui viviamo e che non scompare mai, il secondo appunto non ritiene che tutto emani da sé e dalla propria persona, o che la totalità sia una funzione della singolarità, ma è pronto ad ammettere la forza dell’altro, la sua capacità egemonica, la sua palmare vittoria. È pronto ad ammettere che la realtà non è solo funzione di una potenza del sé, ma esiste con una sua ruvidezza, direi quasi una oggettività o singolarità. Solo a partire da questo è possibile capire il da farsi, non prima. Non prima di aver compreso che, se sei uno sconfitto, magari non dipende unicamente dai tuoi errori e dalle tue scelte, ma dalla forza soverchiante dell’altro. Nel momento in cui si connota se stessi come unici artefici delle proprie vittorie e delle proprie sconfitte, si è già in un clima autistico, che è un deciso segnale di sconfitta, chiaro effetto della medesima, dato soggettivo che ne testimonia uno oggettivo ben più profondo.

Questo vale, perché no?, anche per la sinistra. C’è chi parla solo di pecche e di errori ‘nostri’ – e chi al contrario si concentra sulla sconfitta egemonica, sulla propria impotenza, intesa anche come una funzione della potenza dell’altro. Anzi, ciò che contraddistingue le due modalità è proprio il riconoscimento dell’altro: non solo in quanto ‘nemico’, ma come variabile indipendente, dotata di una sua consistenza e di una sua potenza autonoma. Se si riconoscesse questo come dato a priori, sarebbe anche più corretta la successiva ricerca degli ‘errori’, che diverrebbero quel che sono, non il peccato capitale o il vizio originario di una classe dirigente di malviventi incapaci o in cattiva fede, ma semplicemente un dato tattico-strategico da correggere. L’ascesa del neoliberismo si è avvalsa di una potenza, di risorse e di un fondo ‘materiale’ fatto di beni e lusinghe di mercato che la sinistra se li sognava. L’impressione di un ‘cedimento’ derivava anche dalla potenza dell’avversario, dalla sua capacità di segnare le strade da percorrere, di imporre l’agenda al ‘popolo’, di egemonizzare anche i sentimenti di quest’ultimo, e dunque di ‘costruirlo’, di fare società, di contrassegnare il sociale in modo soverchiante, in base al proprio disegno egemonico liberista. La Sinistra ha perso, questo è il fatto, non solo per proprie colpe e per nefandezze personali, anzi. Dentro questa sconfitta, ha tentato comunque di lasciare un segno giocando di rimessa, cercando di seguire un tracciato che riteneva senza alternative, ovviamente disponendo di quello che passava il convento, con risorse di molto inferiori al ‘nemico’. Ci sono stati errori? Sì. Ma magari il problema fossero stati solo i nostri errori.

E vengo al dunque. Oggi è venuto il momento dell’inattualità. La fase offre nuove opportunità e tempi improcrastinabili. È il momento di seguire un tracciato meno esposto alla forza egemonica dell’avversario, più reattivo contro i valori che esso ha impresso al ‘popolo’ in termini devastanti. Oggi è il momento di operare in controtendenza alla personalizzazione della politica, alla sua liquidità, alle disintermediazioni, al ‘vuoto’ istituzionale – in controtendenza ai valori di mercato, di competizione assoluta e di individualismo sfrenato che segnano le nostre vite da decenni. Lo si può fare sviluppando una battaglia egemonica, delle idee, della presenza sociale e culturale consapevole. Pensando un nuovo soggetto politico che non voglia semplicemente ‘vincere’ a tutti i costi, come il più realista del re, ma lasciare il segno sul ‘sociale’, ricostruendo la società e il ‘popolo’ in termini di solidarietà, partecipazione organizzata, visione dell’altro, indicando un nuovo senso di comunità. Non la ricerca spasmodica della ‘vittoria’, ma un progressivo ribaltamento di forze. Questo è il terreno della sinistra, il terreno della ricchezza sociale e dell’equità, contro quello della ricchezza individuale e delle disuguaglianze. Non c’è nemmeno un bivio dinanzi a noi: è una strada diritta, si tratta solo di scorgerla. Dobbiamo solo creare le condizioni più favorevoli alla traversata.

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