Fonte: sinistrainrete
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di Carlo Clericetti, 25 giugno 2017
Ha ragione Pier Luigi Ciocca, sul fatto che l’uscita dall’euro sarebbe per l’Italia una scelta disastrosa da tutti i punti di vista? O ha ragione Alberto Bagnai, secondo cui queste catastrofi annunciate sono dello stesso tipo di quelle pronosticate per la Brexit, per il referendum costituzionale italiano, per l’elezione di Donald Trump, che non si sono poi verificate?
Rispetto a queste posizioni gli economisti si schierano in modo trasversale rispetto sia alle scuole accademiche che alle aree politiche. Una chiara esposizione dell’una e dell’altra tesi si può trovare nell’Almanacco di MicroMega in edicola da questa settimana, con un titolo che è già un programma: “Solo l’uguaglianza ci può salvare”. Per chi si interessa di queste tematiche è una vera miniera di idee e di analisi, con contributi di numerosi studiosi anche di diversi orientamenti.
Ciocca si basa sull’analisi dei comportamenti dei mercati e degli investitori. Le aspettative di svalutazione e inflazione, afferma, farebbero schizzare in alto i tassi d’interesse e crollare i valori patrimoniali; si renderebbe necessaria una politica che darebbe luogo alla terza recessione dal 2007, e questo probabilmente darebbe il colpo di grazia a un sistema bancario già duramente provato. “Le tensioni da economiche diverrebbero sociali, politiche, istituzionali fino a porre a repentaglio le stesse basi democratiche del vivere”.
Bagnai esamina invece ciò che è accaduto in passato in casi assimilabili, e ne trae la conclusione che nulla di tutto questo dovrebbe avvenire. Non una forte inflazione, perché l’esperienza dimostra che la svalutazione del cambio – che non avviene di colpo, ma in un lasso di tempo di alcuni mesi – non si trasferisce sui prezzi: semmai in piccola parte, ma non è neanche detto: dopo la forte svalutazione del ’92, per esempio, l’inflazione scese. Sbaglia, poi, chi parla di svalutazione del 20, 40 o addirittura 60%: nella media ponderata sarebbe semmai più probabilmente a una cifra. Media ponderata perché bisogna considerare le variazioni del cambio rispetto a tutti i paesi con cui abbiamo rapporti commerciali. Il cambio scenderebbe certamente rispetto all’euro, qualora dopo la nostra uscita esistesse ancora, o al rinato marco tedesco; ma rispetto al dollaro, per esempio, l’euro (e quindi anche l’ipotetica “nuova lira”) si è già svalutato del 20% (mentre, fra l’altro, l’inflazione non ha dato segni di risveglio) e quindi è poco plausibile un nuovo crollo.
Abbiamo solo accennato alle ragioni dell’uno e dell’altro, ma vale la pena di leggere integralmente questi brevi saggi, scritti tra l’altro in modo scorrevole comprensibilissimo per chiunque abbia una conoscenza non specialistica di questi problemi. Così come vale la pena di leggere tutti gli altri interventi, che affrontano gli argomenti più rilevanti dell’attualità, dalla disuguaglianza al welfare al reddito di cittadinanza, dalla piena occupazione all’intervento pubblico, dalla critica delle politiche attuate finora ai programmi che – oltre a superare finalmente questa crisi infinita – sarebbero coerenti con la nostra Carta costituzionale. E poi la storia di come siamo arrivati a questo punto, i problemi del lavoro e della politica industriale, come arginare un sistema finanziario impazzito. Insomma un’ampia disamina dello “stato dell’arte”, di cosa è stato fatto e cosa invece bisognerebbe fare.
Ci sembra utile riproporre qui sotto le sintesi dei vari interventi, così come le ha diffuse la rivista. Dopo la loro lettura, si avranno un po’ più di strumenti per valutare ciò che dicono gli opinionisti dei talk show televisivi e i commentatori degli altri media.
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Antonella Stirati – Distruzione dei ceti medi e redistribuzione del reddito
Viviamo in un sistema caratterizzato da una drammatica polarizzazione della ricchezza e del reddito. Una piccola minoranza continua a veder crescere il proprio patrimonio mentre al polo opposto aumenta la povertà e diminuiscono o ristagnano i redditi da lavoro, tanto che si parla di scomparsa delle ‘classi medie’. E l’Italia non fa eccezione. La difficoltà che ci troviamo di fronte non risiede però nell’individuazione delle misure che potrebbero alleviare tale stato di cose, ma nella mancanza della volontà politica di realizzarle. Una volontà ostacolata anche dall’attuale assetto dell’eurozona.
Maurizio Franzini – Combattere la disuguaglianza per tornare a crescere
Le ragioni per mettere in atto politiche contro la disuguaglianza economica non sono solo di ordine morale. L’attuale boom di questo fenomeno ha conseguenze estremamente negative non solo su coloro che lo subiscono direttamente ma sull’intero sistema economico. Non è affatto vero che l’aumento della disuguaglianza è il prezzo da pagare per la crescita economica. Al contrario: nei paesi in cui essa è più elevata, la crescita è più bassa (ad affermarlo sono Fmi e Ocse). Non bastano le tradizionali politiche redistributive, occorrono anche interventi che modifichino le regole del gioco, prevenendo la formazione della disuguaglianza nei mercati.
Elena Granaglia – Luci e ombre del reddito di cittadinanza
Che la struttura odierna dei mercati non sia equa è fuor di dubbio. Ma il reddito di cittadinanza, da alcuni proposto come rimedio, è una misura realmente realizzabile? In questo saggio vengono analizzati in dettaglio e senza pregiudizi gli argomenti a favore (alcuni molto convincenti, soprattutto sotto il profilo dell’equità) e le obiezioni (rilevanti). Nonostante forse non sia ancora giunto il momento di una sua introduzione nell’attuale sistema, vale sicuramente la pena portare avanti la discussione e magari adottarne già oggi alcuni degli aspetti più interessanti.
Roberto Ciccone – Il welfare promuove la crescita economica
‘Non ce lo possiamo più permettere’: è questo il mantra che viene spesso ripetuto per giustificare tagli drastici allo Stato sociale. Come se le misure universali del welfare state – istruzione, sanità, sistema pensionistico in testa – fossero esclusivamente un costo a carico del sistema. Quando invece, in quanto ‘salario sociale’, rappresenta un formidabile strumento a sostegno della crescita economica e, con essa, della pace sociale. Due obiettivi che dovrebbero stare a cuore innanzitutto ai capitalisti.
Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro – La Costituzione come programma economico
La teoria neoclassica è riuscita ad accreditarsi come l’unica ‘vera’ teoria economica, ignorando o disinnescando le critiche, potenti e molto fondate, che le sono state rivolte. Ma l’economia è una scienza in cui, a differenza delle scienze ‘dure’, l’elemento politico ha un peso determinante e sostenere il contrario è ignoranza, o malafede. In Italia, peraltro, le ricette economiche neoclassiche sono sostanzialmente incostituzionali. La nostra Carta infatti traccia un preciso programma economico, in cui gli interessi dei privati sono subordinati al primario interesse pubblico. Oltretutto, è la via più realistica.
Thomas Fazi – Una crisi iniziata quarant’anni fa
Per comprendere la crisi iniziata nel 2008 occorre tornare a quegli anni Settanta che videro le prime crepe nel sistema keynesiano-socialdemocratico che aveva dominato le economie occidentali dal dopoguerra. Fu allora che il compromesso di classe su cui si basava cominciò a vacillare. E la sinistra europea finì di fatto per avallare ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione alla sopravvivenza del capitalismo. Ma la crisi del modello keynesiano non riguardò solo la sfera economica e distributiva, investì anche la sfera politico-istituzionale attraverso una riduzione della partecipazione popolare alla vita politica, avvilendo la democrazia.
Francesco Saraceno – Il fallimento dell’austerità
L’austerità ha fallito non solo perché ha devastato il tessuto sociale dei paesi in cui è stata applicata, ma anche perché la contrazione che ne è seguita ha fatto aumentare, anziché diminuire, il rapporto tra debito pubblico e pil, rendendo le finanze pubbliche ancora più insostenibili. Ad ammetterlo sono ormai quelle stesse istituzioni che l’hanno imposta per anni, Fmi in testa. Occorre dunque cambiare decisamente rotta, riconoscendo l’incapacità dei mercati di autoregolarsi e la necessità di una seria politica industriale.
Aldo Barba – L’austerità espansiva tra scienza e falsa coscienza
Le politiche di austerità, agendo da freno e non da stimolo all’attività economica, rallentano nel breve periodo gli affari e generano costi sociali. È per questo che tutti gli economisti – e non solo i keynesiani – sono sempre stati consapevoli che l’austerità si può adottare tutt’al più in periodi di crescita, non certo in fase di recessione, come invece è stato fatto negli ultimi anni, seguendo la bizzarra idea dell’austerità espansiva. Una tesi oggi messa pesantemente in discussione persino dai suoi più convinti turiferari.
Enrico Sergio Levrero – Vizi privati e pubbliche virtù? I limiti del mercato e la necessità dell’intervento pubblico
Oggi un luogo comune estremamente diffuso e difficile da estirpare mette in relazione qualunque intervento pubblico nel mercato con situazioni di inefficienza e corruzione. Ma la produttività del lavoro non è mai aumentata come nella fase del ‘compromesso keynesiano’ e la costante deregolamentazione dei mercati a partire dagli anni Ottanta ha determinato uno spreco di lavoro e un impoverimento di larghi strati della popolazione.
Sergio Cesaratto – L’imperativo della piena occupazione
“La piena occupazione sarebbe perseguibile in un’Europa che fosse politicamente più simile agli Stati Uniti, ma purtroppo non è così. Sarebbe alternativamente possibile in un paese che decidesse di andare per proprio conto auspicando, ma non ritenendolo dirimente, un contesto internazionale favorevole. Questo implica un coraggio politico e un sostegno popolare formidabili. Lo status quo promette solo un declino sociale irreversibile di questo paese e della sua identità storica. Ma a questo, specie nella sinistra radicale, si guarderà con cinico favore”.
Alberto Bagnai – Project Fear: media e democrazia al tempo dell’euro
Calo dei redditi, azzeramento dei risparmi, chiusura delle aziende: gli scenari dipinti dai media in caso di uscita dall’euro sono cupi e angoscianti. Ma è tutto vero? L’autore ne propone una disamina volta a confutare la tesi che non ci sia alternativa all’euro. Perché la posta in gioco è molto più alta di quanto si pensi: prima di essere una questione economica, è una questione di democrazia.
Pierluigi Ciocca – Uscire dall’euro non è la soluzione
Spira anche in Italia da qualche tempo un vento che vorrebbe affibbiare all’euro tutte le colpe della crisi economica in cui versa il nostro paese. Ma, se da un lato è vero che la politica economica europea non è riuscita a unire alla stabilità dei prezzi il progresso dell’attività produttiva, dall’altro è indubbio che le ragioni della mancata crescita dell’Italia sono tutte interne al paese, indipendenti dalla partecipazione all’area dell’euro.
Enrico Grazzini – Quando la moneta ufficiale non funziona è il momento delle monete alternative
Il dibattito sull’euro si incaglia di solito nell’alternativa secca rimanere/uscire. Eppure esistono anche altre strade percorribili, compatibili con gli attuali trattati europei e con il mantenimento dell’euro. Per esempio quella, qui descritta, di una moneta fiscale parallela. Un progetto certamente radicale, al quale non sembrano però esserci alternative concrete e altrettanto efficaci.
Marco Vitale – Errori e colpe del sistema bancario italiano
La stella polare di una buona banca risiede, o almeno dovrebbe risiedere, nella fiducia di cui gode, nell’onestà degli amministratori e in rapporti equilibrati tra le varie forme di attività e passività. Ma la corsa degli ultimi decenni all’assunzione di sempre maggiori rischi con la conseguente tendenza al ‘gigantismo’ bancario ha fatto perdere di vista questo semplice principio. Togliete dal conto di tante crisi bancarie gli effetti delle fusioni o acquisizioni mal fatte e scoprirete che il sistema bancario italiano sarebbe in discrete condizioni, nonostante la crisi. Una deriva in cui non secondarie sono state alcune discutibilissime scelte dei vertici di Bankitalia.
Massimo Pivetti – Per una finanza a servizio dell’economia reale
Il settore finanziario è divenuto sempre meno fonte di servizi per l’economia reale e sempre più autoreferenziale. Andrebbe dunque radicalmente riformato, a partire da una tanto necessaria quanto però osteggiata nazionalizzazione delle banche. Ma anche senza arrivare a questa soluzione ideale, altri rimedi per ricondurre la finanza a un ruolo ancillare dell’economia reale sarebbero possibili, se non fosse che il progetto di unificazione europea non è stato concepito per promuovere alti livelli di occupazione, rafforzare la protezione sociale e distribuire più equamente la ricchezza e il reddito all’interno delle nazioni che vi partecipano, ma per massimizzare i profitti.
Andrea Pannone – Industria 4.0 e disoccupazione tecnologica: né apocalittici né integrati
Le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni hanno riproposto l’annoso dibattito sui rischi di disoccupazione tecnologica nelle economie moderne, tema già sollevato da Keynes nel 1930 (in realtà le controversie in materia risalgono almeno a Ricardo). Non c’è dubbio che le innovazioni tecnologiche abbiano effetti negativi sull’occupazione nel breve periodo. La domanda corretta è però come gestire questi processi in modo da tutelare i lavoratori che ne subiscono le immediate conseguenze e, allo stesso tempo, riconvertire il sistema per utilizzare pienamente la nuova capacità produttiva.
Alessandro Arrigoni / Emanuele Ferragina / Federico Filetti – Dallo Statuto dei lavoratori al Jobs Act
Dal Pacchetto Treu al Jobs Act passando per la legge Biagi: sono i momenti fondamentali di quella strategia di svuotamento delle garanzie a danno dei lavoratori che, partendo dai margini (i giovani, le donne, i migranti), è arrivata a intaccare anche i contratti a tempo indeterminato. Gli autori smontano la vulgata dominante che flessibilizzare il mercato del lavoro senza creare delle misure di assistenza sociale universale possa contribuire alla crescita economica e al benessere dei cittadini.
Pierfranco Pellizzetti – Alla ricerca della manifattura perduta
Si fa presto ad attribuire la colpa della caduta di competitività della fabbrica Italia a cause recenti ed esogene, come la crisi finanziaria del 2007-8 o all’euro. In realtà essa risale ad antiche ragioni strutturali ed endogene, prima fra tutte la serrata degli investimenti nel corso degli anni Settanta. Non c’è nessuna possibilità di rigenerazione produttiva, infatti, senza un decisivo ruolo pubblico. Come insegnano tutte le esperienze di successo nel mondo, a partire dalla tanto invocata Silicon Valley.