Solo la cultura alimenta la democrazia

per stefano01

di Stefano Casarino 31 marzo 2019

Riflessioni sugli interventi di G. Zagrebelsky e M. Cacciari alla Biennale Democratica di Torino

Abbondante e di alta qualità l’offerta culturale della Biennale Democrazia, svoltasi quest’anno a Torino dal 27 al 31 marzo: tra i tanti interventi, particolarmente interessanti e ricchi di suggestioni e di stimoli critici sono state le conferenze di giovedì 28 marzo del Prof. Gustavo Zagrebelsky e del Prof. Massimo Cacciari, entrambe nello splendido spazio del Teatro Carignano, la prima alla mattina alle ore 10, la seconda al pomeriggio alle ore 16.

Di Democrazia degli atti quotidiani ha trattato magistralmente Zagrebelsky: dalla constatazione dell’odierna degenerazione dei rapporti sociali è subito passato ad evidenziare l’attuale crisi della democrazia, che probabilmente ha anche deluso per le troppe “promesse non mantenute”, tanto che oggi è possibile parlare di “democrazie illiberali” e di “postdemocrazia” o addirittura di “democratura” (neologismo che fonde “democrazia” e “dittatura”), alla quale qualcuno vorrebbe contrapporre l’ “epistocrazia”, “il governo di coloro che sanno”, riprendendo l’antica (e mai davvero realizzata) proposta platonica, come se il popolo, tutto sommato “indegno” della democrazia, sia capace di aspirare solo alla “demagogia”: voglia, cioè, non “farsi rappresentare”, ma “farsi condurre” dai politici di successo, ai quali chiede rassicurazione e protezione.

Secondo Zagrebelsky, sovranismo e suprematismo bianco crescono e prosperano all’insegna della paura, come è dimostrabile leggendo il testo fondativo di tutto ciò, il Leviathan (1651) di Th. Hobbes (1588-1679): gli assolutismi, i regimi forti si basano sempre sulla paura, che è certamente più immediatamente istintiva e più fortemente persuasiva della benevolenza, della solidarietà e della tolleranza.

La paura genera fatalmente due teorie perniciose, quella del “capro espiatorio” e quella del “complotto”; individua (anzi spesso fabbrica) dei nemici e dei salvatori, ad esempio “i partiti della Nazione”, dividendo il mondo nelle facili categorie degli “amici” e dei “nemici”.

La paura genera il conformismo, la forza del branco, gli uomini-massa; si propaga coi “parlatori d’odio”, con le parole che aggrediscono, col tripudio del rancore.

Quali i possibili antidoti? Zagrebelsky ne individua due, la fiducia e la reazione al disinteresse, la volontà di reagire, citando il sermone di Martin Niemöller: Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Giustifica persino la disubbidienza alle leggi, spinoso e attualissimo problema che egli affronta non dal punto di visto etico, ma prettamente giuridico, richiamandosi all’art. 54 della Costituzione e sostenendo che la nostra Carta fondamentale non vuole affatto una supina acquiscienza e un’obbedienza assoluta (il perinde ac cadaver di gesuitica memoria!), come ha dimostrato anche la prima sentenza emessa dalla Corte Costituzionale nel 1956.

A conclusione di un intervento appassionato e lucidissimo, più volte interrotto da applausi del numeroso pubblico presente, bilancia perfettamente la sua tesi: se la base di ogni autocrazia è la paura, l’unica, vera base su cui si può e si deve fondare la democrazia è il coraggio. Perchè, come icasticamente ha detto: La democrazia non sa che farsene degli imbelli, di coloro che pensano solo alla loro tiepida sicurezza e gli imbelli non sanno che farsene della democrazia.

Diversissima e inizialmente francamente spiazzante la conferenza pomeridiana di Massimo Cacciari, dedicata alla Realtà riflessa: per speculum in aenigmate: una densa esegesi del famoso passo della Prima Lettera ai Corinzi (13,12) di San Paolo: Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.

Destreggiandosi con ammirevole bravura tra il greco (il difficilissimo greco paolino!), il latino e il tedesco, Cacciari compone una straordinaria lezione di epistemologia e di etica, a conclusione della quale deduce che la conoscenza umana è quella, parziale ed imperfetta, di uno “specchio” che deve però sempre essere tenuto pulito. Se non si riconosce che la nostra conoscenza, di ciascuno di noi, è sempre e comunque parziale ed imperfetta e che ha bisogno di integrarsi e completarsi con quella degli altri, si finisce per credere di conoscere perfettamente e per sempre, in un tempo che resta identico a se stesso e non prevede né una fine né un fine. Alla base della crisi della democrazia, c’è proprio questo: l’arroganza di una conoscenza che si autorizza a fare a meno degli altri, che distrugge ogni esigenza di “philia”, di “agape” e ogni possibile “foedus”. Cioè, ogni spinta verso l’altro, ogni solidarietà, ogni possibile alleanza tra esseri umani.

Per Cacciari, l’autentico spirito della democrazia è quello dell’armonizzazione, della conciliazione e della riconciliazione: è un ethos, un sentimento, una passione. Senza di ciò, non può valere nessuna ingegneria costituzionale.

Questa vibrante e appassionata definizione di “democrazia come energia fenomenale” si accorda perfettamente con quanto ha sostenuto in precedenza Zagrebelsky, partendo da tutt’altro punto di vista: riprendendo Cacciari, i due diversi “specchi” dei due relatori ci hanno fatto vedere il volto della nostra democrazia. Così fragile e così indispensabile per tutti noi.

 

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