Fonte: micromega
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di Angelo d’Orsi 17 giugno 2016
Alberto Asor Rosa, un “cattivo maestro” che stimo da sempre, due giorni fa sul Manifesto, ha firmato un articolo allucinante, il cui succo è che per sconfiggere Renzi occorre votare per i candidati PD. Concordo sul fatto che un’alleanza di centrosinistra avrà bisogno non tanto del PD (come sostiene Asor Rosa), quanto piuttosto di una parte cospicua del suo “popolo”, ma per ora occorre lottare contro questo PD, che io ritengo irrecuperabile, come lo fu la DC, di cui sostanzialmente ha preso il posto nella scena politica nazionale. Il che vuol dire che questo PD deve essere sgretolato, e se c’è una parte “sana” nella sua classe politica non deve attendere oltre per rompere con Renzi e uscire dalla porta principale. La fedeltà alla “ditta”, per riprendere la stolta terminologia di Bersani, è del tutto fuori luogo. E chi oggi rimane dentro, finendo per fare ogni volta quello che il capo comanda, si assume responsabilità gravi davanti al suo stesso elettorato.
Questo PD, oggi impegnato nelle ultime battute di una pessima campagna elettorale, rappresenta un grumo di interessi di cricche, di gruppi di pressione di varia natura, e in generale rappresenta la vera destra sociale oggi nel paese. In più, da quando è al suo governo Matteo Renzi, il partito è divenuto un suo feudo personale, di cui dispone a piacimento, una base per costruire consenso nella mappa nazionale, e piazzare in sede locale una serie innumerevole di fedelissimi, a gestire gli enti territoriali.
Le elezioni che si stanno per concludere nel loro secondo turno (legge a mio avviso sciagurata), hanno un chiarissimo, forte significato politico nazionale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di Renzi, che subodorando la sconfitta (già in parte incassata al primo turno), cerca di derubricarle a fatto locale. E non c’è dubbio che l’esito positivo ai ballottaggi dei candidati sostenuti da Renzi sarebbe da lui annessa al carniere delle sue proprie vittorie personali, secondo del resto la ben nota logica della vittoria che trova subito almeno un padre mentre la sconfitta solitamente è orfana. E si tratterebbe di un passo per lui importante, nella corsa a cui ha impresso una formidabile accelerazione verso l’ottobre referendario. La logica dell’“o con me o contro di me”, insomma avrebbe funzionato, e la lotta contro la “deforma” costituzionale e l’osceno Italicum, ne uscirebbe indebolita.
Ma non è certo questa la ragione numero 1 per non sostenere i candidati del PD ai ballottaggi, e in generale in queste elezioni. Certo, come si è visto al primo turno, la sinistra quando si è presentata come tale, con i suoi quarti di nobiltà identitaria, ha avuto risultati deprimenti, mentre ha avuto successo solo nei casi in cui ha saputo dar vita a più ampie aggregazioni, intorno a candidati sindaci credibili, o innovativi nel linguaggio e nei modi di far politica.
Rimane, piaccia o no, il Movimento 5 Stelle. L’accusa di populismo ormai appare del tutto risibile, trattandosi un carattere assunto da quasi tutti i soggetti politici in campo: non è forse populista Renzi? E sarebbe anche ora di prendere atto che, davanti alla crisi profonda e irrimediabile della rappresentanza, il populismo è non soltanto un sintomo, ma una risposta, e una risposta che molto spesso, se non sempre, si rivela efficace. Dunque smettiamola di demonizzare, e proviamo a decrittare anche i codici del populismo, per capire se si possa in qualche modo cavalcare la tigre piuttosto che contrapporle forme oggi in crisi di azione politica.
In ogni caso, qui, in questa tornata elettorale, vanno tenute in conto le ragioni e le vicende locali. E che cosa possiamo dire? Che a Roma, la defenestrazione di Ignazio Marino è stato uno dei più clamorosi esempi di azione antipolitica, di violazione di ogni legalità sostanziale (al di là degli espedienti da azzeccagarbugli come le firme davanti al notaio per far decadere giunta e consiglio comunale!), e uno dei gesti più odiosi della vita politica nazionale dell’intero dopoguerra. Di tale azione Renzi porta la gran parte della responsabilità, ma anche M5S, e pure le frattaglie della sinistra (SEL, nella fattispecie), sono stati complici, sia pure in subordine, e mostrando via via segni di cedimento se non di tardivo pentimento. Non foss’altro che per questo che occorrerebbe battersi contro Giachetti, pur nei limiti evidenti dell’antagonista Raggi, limiti che peraltro la accomunano a tutta l’élite pentastellata. Al di là della colpa d’origine tuttavia è chiaro che Raggi a Roma, come Appendino a Torino siano espressione di una idea di città diversa e sostanzialmente alternativa a quella dei consules renziani in sede locale, autentica espressione dei “poteri forti”, graniticamente convinti delle ferree “leggi del mercato”, acritici sostenitori di uno “sviluppo” i cui frutti vanno redistribuiti in modo direttamente proporzionale allo status sociale: chi ha di meno, riceve di meno, chi ha di più riceve di più. Una proporzionalità iniqua, di cui però le statistiche danno conto.
Alle città che consumano suolo, alle città gestite dalle banche, alle città che privatizzano i beni pubblici, alle città che per fare cassa vendono le proprietà comunali, alle città che sono lanciate nella inesausta follia delle “grandi opere”, M5S contrappone un modello di città esattamente rovesciato. “Solo slogan e ideologia!”, si replica da parte del PD e dei suo innumerevoli sostenitori a livello giornalistico. Sarà pure ideologia, ma non ce n’è forse bisogno? La “politica del fare” dove ci ha condotto? Vogliamo o no rimettere in discussione un modello urbano, un progetto politico, una filosofia sociale che si sono rivelati esiziali?
Prendiamo Torino: il giornalista Maurizio Pagliassotti in una coppia di libri preziosi di qualche anno fa (Chi comanda Torino e Sistema Torino, sistema Italia entrambi editi da Castelvecchi rispettivamente nel 2012 e nel 2014) ha rappresentato perfettamente la situazione della città più indebitata d’Italia, dopo i Giochi olimpici invernali del 2006, sui quali si sono costruite ineffabili fortune politiche oltre che economiche. Tutti i visitatori notano e sottolineano i cambiamenti della città, che sono stati in parte frutto della febbre olimpica e della pioggia di denaro che essa ha scatenato. Ma quei cambiamenti (“Torino è diventata più bella”, “Torino è oggi meta turistica”, “Torino città dell’eccellenza”, e via seguitando) innanzi tutto sono evidenti nel centro e nelle zone dove risiedono le classi dominanti; le periferie sono peggiorate, con una divisione nettissima della città che corrisponde alle classi sociali.
I poveri o i nuovi impoveriti (certificati dalla Caritas), e gli immigrati sono ormai tutti collocati nelle zone esterne al centro: e come accadeva ai tempi del primo dopoguerra, e notava Antonio Gramsci, la città mostra chiaramente di essere divisa in due gruppi sociali contrapposti, senza mediazioni: borghesi e proletaria, scriveva Gramsci; oggi possiamo semplicemente parlare, peraltro riprendendo il lessico dell’ultimo Gramsci, di “dominanti” e “subalterni”.
In sostanza la politica delle grandi opere, la privatizzazione dei beni comuni, i grandi eventi hanno portato ricchezza e benessere a chi già ne godeva, e hanno impoverito gli altri strati sociali, sia con la tassazione volta a ricuperare i fondi sperperati per gli eventi stessi, sia con la svendita di pezzi di città. I servizi sono stati ridimensionati, a dispetto delle affermazioni del sindaco uscente Fassino o il suo sodale in Regione Chiamparino. Si pensi per un solo esempio all’Ospedale Evangelico Valdese, classificato nei poli dell’eccellenza sanitaria regionale (falso, ma tant’è). Ebbene ai tempi della Regione in mano a Roberto Cota (quello delle mutande verdi pagate con fondi regionali…), quell’ospedale venne chiuso, per la logica degli accorpamenti a fine di far cassa: il PD sostenne la campagna per il no, convintamente. Oggi quello stesso PD insediato al governo regionale minaccia la chiusura dell’Ospedale Oftalmico, esempio rarissimo in tutto il territorio nazionale. Certo si parla di Regione, e non di Comune, ma la logica politica è la stessa, il partito al potere lo stesso, il personale politico è lo stesso.
Il sistema Torino, al di là della parentesi leghista in Regione, dura da 23 anni e ieri Chiamparino ha garantito che saranno 28, dando per acquisita la vittoria del suo amico Fassino. Il quale sta sui carboni ardenti: fino al 5 giugno dava, con tutto il suo partito e la coalizione, per certo di vincere al primo turno; e il fatto che abbia perduto oltre 100 mila voti rispetto a cinque anni fa, certo non è un bel segnale. “Non si vota contro”, ha sentenziato Giuliano Pisapia venuto sotto la Mole a dar man forte al collega torinese; e invece, caro Pisapia, si vota sempre contro, prima di votare per.
E oggi a Torino, come a Roma, si deve votare per le candidate Cinque Stelle, prima di tutto contro una idea di città iniqua e dannosa; ma votando contro quella idea si vota naturalmente, per così dire, per una idea opposta. “Loro vogliono una Torino più piccola”, ha concluso Fassino; “noi guardiamo allo sviluppo, ad una Torino più grande”. Grandezza, da perseguire vendendo suolo pubblico, alienando beni comuni, facendo giochi finanziari spesso oscuri, in un circuito vizioso in cui i beneficiari sono gruppi privati che ricevono denaro pubblico, oltre a garantirsi profitti dalla mercantilizzazione della città.
Un esempio finale, una delle più grandi e interessanti aree industriali dismesse, quella degli stabilimenti Westinghouse. Un progetto per trasformarla in una biblioteca civica degna di questo nome (l’attuale è un penoso residuo dei primi anni Sessanta), progetto pagato oltre 16 milioni di euro, viene accantonato con una semplice variante al piano regolatore e dopo un passaggio intermedio in cui invece della biblioteca si decide per un centro culturale (di cui la biblioteca sarebbe stata parte), si opta per una soluzione gradita a soggetti privati che intervengono accanto al Comune a sostenerla: un centro commerciale! (Si legga l’articolo di Sergio Pace su Historia Magistra, n. 18/2015).
Ecco, basterebbe questa penosa vicenda a rifiutare il “sistema Torino”, che è il “sistema Italia”, oggi, e le logiche, affaristiche (di profitto e di rendita) che lo sostengono e votare, anche senza sentirsi contigui al Movimento 5 Stelle, per chi a tale sistema si oppone, a Torino, a Roma, in Italia. “Un salto nel buio”, ha concluso Sergio Chiamparino nel suo appassionato endorsement per Piero Fassino. Può darsi. Ma tra una realtà nota che non ci piace, e una realtà ignota che si presenta come opposta alla prima, non esito a scegliere la seconda.