Sinistra anno Zero

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Peppe Provenzano

di Peppe Provenzano – 13 marzo 2018

(Da questi lunghi appunti, ieri ho tratto il mio intervento in Direzione nazionale. Visto che qualcuno me li chiede, li copio qui. Mi hanno detto che sono stato troppo severo. No, sono severi i tempi)

Per trovare un risultato peggiore, delle forze di sinistra, di centrosinistra, bisogna risalire a un tempo buio. 1924, prime elezioni con il listone fascista, legge Acerbo. La portata storica di questa sconfitta deve interrogarci a fondo. Ho apprezzato lo sforzo di Martina. Nella discussione si è guardato all’Europa, alla globalizzazione, al moto dei pianeti e delle stelle, ma davvero possiamo eludere del tutto un tema? Avevamo un leader amato qua dentro ma odiato fuori. Avremmo potuto indicarne un altro. Non ha voluto. Ha voluto un partito a sua immagine e somiglianza e liste compilate in maniera padronale, in quella notte vergognosa su cui dovremo tornare. Questo ha inciso sulle dimensioni della sconfitta. Ma ovviamente non è solo questo che ha portato la sinistra all’anno zero.

Il Pd è nato tardi, s’è detto. In realtà è nato vecchio. In un mondo stravolto sotto i colpi della Grande recessione: la classe media, già impoverita, era l’unico ancoraggio sociale, in pochi anni veniva spazzata via. Tutta la mitologia fatta di ulivi e di euro, di primarie e buon governo cittadino, all’improvviso, non serviva più. Privo di un’identità, il Pd è apparso presto senza funzione storica. Avremmo avuto bisogno di una sinistra che facesse il suo mestiere: combattere le disuguaglianze, le solitudini, che non sono mai solo economiche, sociali, redistribuire potere e rappresentanza, dare risposte ai ceti popolari all’altezza dei loro bisogni. Noi pensavamo ai diritti. E più a quelli civili. Bene. Solo che erano tornati i bisogni. Erano esplosi con la crisi ma la ripresa li lasciava intatti. Perché anche nella ripresa si stavano allargando i divari: tra i cittadini, tra le imprese. Una minoranza ce la faceva per tutti, la media cresceva, ma la maggioranza non vedeva vie d’uscita. Noi raccontavamo il mondo dei vincenti. Ancora nel 2016 avevamo due milioni di giovani occupati in meno rispetto al 2008: quel disagio lo avevamo visto al referendum. Ma noi cosa gli dicevamo? Che il lavoro è ripartito, grazie al Jobs Act, e che comunque bisogna inventarselo. Start-up. Innovazione. Anche l’innovazione, sulle nostre bocche, perdeva ogni sensibilità sociale. Perché il problema non è solo starci, nelle periferie. Il problema è cosa gli dici, al popolo. Che il tuo capo, dopo la sconfitta al referendum nelle periferie urbane e sociali, se ne è andato da Elon Musk e che fra vent’anni, ad averci i soldi, potranno andare a farsi un giro su Marte? Se c’è un bisogno di sicurezza, di protezione, vuol dire che la sinistra non fa il suo mestiere. La sicurezza sociale, i servizi che funzionano per tutti: scuole, sanità, assistenza. L’austerità ha finito di distruggere lo Stato, dopo il processo di denigrazione e destrutturazione a cui abbiamo contribuito anche noi, la sinistra. Ma se la cosa pubblica non mi protegge, a che serve la politica? È solo un costo. Oppure, nella variante di destra, perché devo pagare le tasse?

Avremmo dovuto ricostruire lo Stato. Questo avrebbe comportato un ripensamento profondo di cosa siamo stati. E non in questi tre anni, ma in questi trenta. La ricerca delle “compatibilità”, il “vincolo esterno”, il governo col “pilota automatico”. E invece, abbiamo perseverato nell’errore. Anche quando c’è stato il coraggio, come sull’Europa, di fare una battaglia contro l’austerità, a cosa l’abbiamo piegata? A qualche punto di “flessibilità” per i bonus o, peggio, abbassare le tasse anche ai ricchi. Ci siamo fatti scavalcare a sinistra perfino dalla Commissione. Abbiamo portato gli investimenti pubblici al livello più basso di sempre, specie al Sud. Ma allora cosa parli di futuro?

Non che non ci abbiamo provato per niente. Ma “troppo poco e troppo tardi”. Il Reddito di inclusione, se l’avessimo finanziato per tutti, magari rifacendo pagare le tasse sulle case dei ricchi, avremmo fatto una cosa giusta e tolto un’arma agli altri. Perché se vi accedono solo un terzo dei poveri, agli altri due cosa gli racconti? Che facciano la guerra tra ultimi e penultimi? Attenzione, perché questo è il meccanismo che ha reso gli ultimissimi – gli altri, gli stranieri, i profughi – il capro espiatorio perfetto di ogni malessere sociale. Era la sfida del nostro tempo. Ma allora non la si poteva lasciare al Ministro dell’interno. Serviva un pensiero alto, sulla demografia, su Nord e Sud del mondo, sulle geografie dello sviluppo, sulla guerra e sulla pace. Da quanto tempo ci manca? Da quanto non organizziamo cultura, grandi campagne, discussione pubblica. È qui che abbiamo perso. La disintermediazione poi ci ha dato poi il colpo di grazia. Abbiamo pensato di fare le riforme del lavoro, della scuola, contro il sindacato, l’unico soggetto che ancora un po’ lo organizza, il lavoro. Andava sfidato a cambiare, ne è consapevole. Ma certo non facendogli la guerra, disconoscendone il ruolo. Perché questo, la sinistra, semplicemente, non lo fa.

Renzi ha rottamato uomini e mondi, ha offeso e provato a umiliare. Ma forse non è la sua colpa più grave: la colpa è aver ripetuto le stesse vecchie idee, con l’aggravante di vent’anni di ritardo. Blair… Conoscono l’obiezione: il popolo non vuole “più sinistra”, altrimenti avrebbe votato LeU… Il fatto è che se vuoi fare Corbyn, non dico che devi proprio essere Corbyn, ma almeno devi avere un minimo di credibilità, poter vantare una qualche coerenza. Non serviva più sinistra? Be’, nel Lazio è servita, e dividerci è stato un errore storico. Non è servito fare un indistinto partito “pigliatutto”, piazzato al centro. Perché qui è crollato anche il centro. Bonino, un flop. I voti di Monti sono andati ai 5S. E il centro crolla anche a destra, dove credevamo (e speravamo) potesse essere Berlusconi. La prospettiva delle larghe intese ci ha danneggiato. Non era vera? Non avevamo sufficiente credibilità per allontanare il sospetto. A qualcuno viene anche adesso: perché non usiamo le stesse parole chiare verso il M5S e verso il centrodestra? Il centro crolla perché siamo all’atto finale della crisi della classe media, proprio dove crolla la “curva dell’elefante”. Non è servito a nulla un partito più di centro. Oggi la cosa che più somiglia a un nuovo centro, se guardiamo alla base sociale del consenso, è il M5S.

Il voto del Mezzogiorno meriterebbe un’altra direzione ad hoc. La Seconda repubblica finisce come era iniziata, con un’Italia divisa sul piano economico, sociale, politico. Ma i 5S hanno raccolto non solo i poveracci, che molti qua dentro continuano a denigrare come assistenzialisti, ma un voto trasversale: professionisti, intellettuali, pezzi di imprenditoria sana. Una vera alleanza sociale, che poteva essere la nostra, è diventata la loro. Perché? Perché la lettura socio-economica del voto è importante, ma non basta. E pone un tema essenziale, la classe dirigente. Al Sud, destra e sinistra sembrano sempre più vasi comunicanti. Dalle elezioni amministrative alle liste alle politiche. Potentati senza più nemmeno potere che muovono clientele, che costruiscono clientele sul ricatto del bisogno. Non ha funzionato più. C’è stato un voto libero, non solo di protesta. Per un’altra classe dirigente.

La nostra classe dirigente è una parte essenziale del problema. Ha fallito. E questo ha trasformato una sconfitta storica in una disfatta senza proporzioni. Interroghiamoci sulla rapida ascesa e il repentino declino renziano. L’idea volgare della rottamazione rispondeva a un bisogno reale: “far saltare il tappo”. I giovani ci speravamo, e alle europee un po’ ci aveva votato. Una volta al potere, siete apparsi come quelli che li avvitavano ancora più stretti i tappi. A braccetto coi poteri forti, con una Confindustria che non rappresenta più nemmeno i suoi, e che non ha perso tempo a ricambiare anni di favori. Se ti vedono così, prendersela poi con le istituzioni come la Banca d’Italia, e persino con Mario Draghi, diventa grottesco, prima che un clamoroso autogoal.

C’è un momento in cui la separazione tra élite e popolo diventa intollerabile oltre ogni misura. Quando le élite non risolvono i problemi del popolo, quando non sanno fare il loro mestiere, quando non sono élite. Élite in negativo, e non élite in positivo (come le intendeva Bobbio), un’élite non élite: questo è stato il Pd di Renzi. Maria Elena Boschi, all’indomani delle elezioni, con Francesco Merlo, si rammarica non dei voti che ha fatto perdere al Pd, ma addirittura della “fine di un mondo di letture e buone maniere, di civiltà”. No, cara Boschi, in molte realtà, soprattutto nel Mezzogiorno, i candidati del M5S avevano curricula e profili migliori dei nostri. Cioè, dei vostri. Di quel nugolo di trasformisti e famigli vari raccattati in giro, specialmente al Sud. C’è stato un trapianto di ceto politico di centrodestra nelle nostre fila. E i nostri hanno avuto il rigetto. Avete fatto la polemica sul curriculum di Di Maio? La politica non si fa col curriculum: ma, visto che insistete, qual è il vostro? “Quali sono i vostri libri? Avete studiato?”. Perché oggi, di fronte alla complessità, se non vogliamo cedere alla barbarie, abbiamo bisogno di studiare di più. Se vogliamo farci capire, essere semplici, non bisogna studiare di meno, bisogna studiare di più. Non lo studio delle biblioteche, che pure non guasta. Uno studio vivo, fatto sporcandosi le scarpe. Con intelligenza. Con passione. Anche questo è un partito.

Di quella notte delle liste non rimane solo la prepotenza, restano interrogativi di fondo. Siamo ancora un partito? Rispetto per le minoranze, regole interne, statuto… quella notte è saltato tutto. Eravamo l’ultimo partito rimasto, ma lo siamo ancora? Ci siamo comportati come Forza Italia, come la Lega, come il M5S. Colpa di Renzi? Certo, ma ci fosse stata una classe dirigente, degna di questo nome, non sarebbe potuto accadere. Ecco perché ora la soluzione non è una nuova scorciatoia leaderistica: un nuovo capo, magari meno fastidioso e che piaccia di nuovo a Repubblica. Oppure: via il segretario, lasciamo la segreteria. Diamo “tutto il potere ai circoli”? Bene, solo che non ci sono più: mentre pagavamo i guru americani per il referendum, le sedi chiudevano. La soluzione non è l’ennesima conta alle primarie, strumento di autoconservazione di piccoli o grandi potentati: in molte realtà avremmo più voti alle primarie che alle elezioni.

Il nostro compito, ad ogni livello, è la formazione di una nuova classe dirigente. Siamo un esercito sconfitto e senza “gradi”. Perché quelli che li avevano li hanno persi in battaglia. E bisogna guardare ai giovani. Quelli che sono rimasti, quelli che sono andati, quelli che non sono mai venuti. Aprirsi alla società, al sindacato che avvia un importantissimo congresso a cui guardare con attenzione. Dobbiamo ritessere una trama sociale, con umiltà. Organizzare il conflitto, anche. Qui è il senso, e l’utilità, dello stare all’opposizione. Tornare al popolo. Non per dargli sempre ragione, al popolo. Ma per confrontarsi, anche duramente. Ma senza le tifoserie, i settarismi personali di questi anni. Abbiamo di fronte un popolo offeso. Ma spesso non perché privo di strumenti, ma perché non trova spazio per affermarli. E il Pd non è stato questo spazio. E rischia di esserlo sempre meno: perché poi i populisti sono sempre gli altri, ma noi, che abbiamo abolito il finanziamento pubblico, che cosa siamo? Sapete perché questa è stata la peggiore classe dirigente? Non per averci fatto perdere così tanto, ma per averci lasciato così poco da cui ripartire. Eppure, potete scommetterci, ripartiremo. E non dall’artefatta contrapposizione tra vecchio e nuovo. Ma da ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. E bisognerà scegliere ciò che è giusto. Anche quando non sarà facile.

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