Si fa presto a dire famiglia

per Gabriella
Autore originale del testo: Simonetta Fiori
Fonte: la Repubblica, Laterza
Url fonte: http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1735&Itemid=101

Si fa presto a dire famiglia

SI FA PRESTO A DIRE FAMIGLIA – di  MELITA CAVALLO – ed. LATERZA

recensione di Simonetta Fiori, da La Repubblica

Più di un saggio sociologico, più di una indagine statistica. Se si vuole sapere com’è cambiata la società italiana bisogna leggere il libro-consuntivo di Melita Cavallo, che ha appena concluso la sua lunga e fortunata esperienza di giudice minorile. Tre decenni trascorsi tra le famiglie, nell’infelicità domestica più inconfessabile. Storie di crimini affettivi commessi nell’incoscienza, madri incapaci di amare, figli nati per caso, gratuità nelle accuse tra genitori rapaci, diffusa sordità alle ragioni del cuore. Questo — si potrebbe obiettare — riguarda solo una modesta percentuale delle famiglie, quelle che si rivolgono al Tribunale dei minori, dunque colpite da patologia. Vero, ma solo in parte. Perché il disagio che ci racconta il giudice Cavallo non coinvolge tanto gli ultimi, i derelitti, ma investe l’élite del censo e delle professioni, le famiglie del privilegio, rivelandoci un intorpidimento etico e affettivo diffuso soprattutto nei piani alti dell’assetto sociale. È nelle location di lusso che si consumano più facilmente i drammi famigliari — non nelle case povere dei meridionali immigrati come succedeva negli anni Sessanta.

Si capiscono molte cose, dalle storie narrate da Melita Cavallo. Si impara che l’anaffettività, l’ignoranza dei sentimenti e delle emozioni, può fare anche peggio del maltrattamento fisico. E ci si confronta con una varietà tale di famiglie — monoparentali, gay, affidamenti tra zie e nipoti — che la formula “famiglia tradizionale” appare solo una ipocrisia insensata. Si impara che i bambini possono spicciare matasse ingarbugliatissime accogliendo l’omosessualità dei genitori con una semplicità innocente che manca allo sguardo adulto. Quella del cuore e del buon senso sembra l’unica bussola valida, anche per la perigliosa navigazione di Melita Cavallo. Che ci dice come in questi decenni sia cambiata in meglio la giustizia minorile, ma anche come si sia aggravato il disagio nelle case degli italiani, in un crescendo di irresponsabilità ed egocentrismo. Un libro dalla parte dei bambini.

Spesso dietro ai discorsi pubblici sulla ‘famiglia tradizionale’ c’è molta miopia (o ipocrisia). La realtà testimonia che negli ultimi decenni l’arcipelago dei legami affettivi è cambiato in modo radicale e irreversibile, e non si può non tenerne conto. Così come non si può ignorare l’aspra conflittualità diffusa nei rapporti familiari, anche in quelli apparentemente ‘normali’. Attraverso quindici storie vere, Si fa presto a dire famiglia, di Melita Cavallo, giudice minorile dalla quarantennale esperienza, fa luce su questi cambiamenti e sui problemi delle famiglie di oggi e sollecita delle scelte efficaci in tutti coloro che hanno un ruolo educativo verso bambini e ragazzi.

Di seguito un estratto dal libro:

La donna che più frequentemente incontro nel mio lavoro è sempre più spesso diretta verso una sfrenata autonomia, autocentrata e determinata, quale che sia il suo contesto sociale di provenienza, come proiettata a voler ridurre l’uomo alla sola funzione di piacere sessuale o a quella riproduttiva, escludendolo poi dalla condivisione del “prodotto”; ormai al matrimonio la maggior parte delle donne preferisce la convivenza perché le consente facilmente il passaggio al nuovo compagno e questo avviene non più, come accadeva una volta, solo nelle città, ma anche nei piccoli paesi. Qualcuna sceglie anche di recarsi all’estero per l’inseminazione quando non riesce a trovare l’uomo “giusto” per avere un figlio.

Spesso mi sono trovata di fronte una coppia, o meglio – perché non potrei definirla tale – due persone che non avevano mai convissuto e che si contendevano un figlio con il quale l’una non era mai stata insieme, e l’altra non aveva un rapporto adeguato. Ebbene, più di una volta, nel corso dell’audizione ho domandato alla donna, in relazione alla richiesta paterna di avere una maggiore frequentazione con il figlio, quanto tempo il padre avesse vissuto con lei e con il figlio e la donna, voltandosi verso l’uomo, con aria di disprezzo e disgusto, mi ha risposto: «Ma io, signor presidente, non ho mai convissuto con questa persona, mai… Non avrei potuto…».

Il medesimo atteggiamento di netto e deprecabile distacco ho registrato più volte sul volto di altre donne, sempre piuttosto giovani: siamo, insomma, di fronte a bambini “nati per caso”, che non hanno mai vissuto con entrambi i genitori, che si legheranno in seguito via via ai diversi compagni della madre, costretti prima o poi ad interrompere la relazione di attaccamento. C’è, in altre parole, una fascia della popolazione in cui lo stare insieme per fare famiglia va scomparendo. La convivenza mi appare spesso vissuta nella aprioristica consapevolezza del suo carattere temporaneo, come un giro di valzer in quella grande sala da ballo che è il nostro tempo, pieno di rumori e di un vociare confuso; un legame fugace da un partner ad un altro, senza conoscersi, senza sentimento, senza un progetto di vita.

Ho ascoltato donne sotto i quarant’anni ormai alla quarta convivenza, con figli sparsi un po’ dovunque che di famiglie ne vedono più di una e che alla fine, quando il giudice glielo chiede, non sanno più quale sia realmente la “propria famiglia”; figli che si perdono e si sperdono alla ricerca di un legame significativo che dia senso alla loro vita. In questi “giri di valzer” c’è quasi sempre un partner straniero, e questo finisce col rendere più difficili i rapporti, fino a produrre la complicazione massima: l’allontanamento del genitore straniero che porta con sé il figlio all’estero senza rispettare le regole dell’affidamento disposto dal giudice.

Con la legge 10 dicembre 2012 n. 219 il legislatore ha unificato lo stato giuridico di tutti i figli – legittimi, naturali e adottivi – e conseguentemente ha trasferito la competenza sui casi di richiesta di affidamento del figlio avanzata dal genitore naturale non più convivente dal Tribunale per i minorenni al Tribunale ordinario, da sempre competente sui figli nati dal matrimonio. A seguito di questo trasferimento di competenza i giudici minorili confidavano in una notevole riduzione del carico di lavoro, e soprattutto si sentivano sollevati all’idea di non dover più trattare i procedimenti relativi ad una conflittualità familiare così estrema; hanno invece dovuto registrare l’aumento dei ricorsi per decadenza dalla responsabilità genitoriale, in cui i genitori si sbranano a vicenda per estromettere l’altro, non avendo riportato vittoria al Tribunale ordinario in sede di separazione.

In questi procedimenti la madre utilizza sempre più spesso, come strumento per distruggere il rapporto della figlia con il padre, la denunzia contro quest’ultimo per presunti abusi sessuali agiti sulla bambina; ma accade anche, sia pure con molta minore frequenza, che sia il padre ad utilizzare questo stesso mezzo contro il nuovo convivente della madre. La maggior parte di queste denunzie, dopo un tempo più o meno lungo di sofferenza da parte dei figli, viene archiviata.

La presenza sempre più ampia di stranieri in Italia ha comportato per il Tribunale la necessità di attrezzarsi con interpreti e con giudici onorari con competenze nei percorsi di mediazione interculturale. Spesso, infatti, la conflittualità affonda radici nella differenza di usi e costumi: accade così che il partner straniero rifiuti la cultura italiana e non accetti che i figli vi si omologhino abbandonando quella paterna. I conflitti violenti che insorgono in questi casi degenerano a volte in fatti di sangue.

Un altro aspetto delle situazioni familiari attuali è sicuramente la diffusione del consumo di droghe e di alcol: sia da parte di genitori che, consumatori e spacciatori, entrano ed escono da Rebibbia; sia da parte dei ragazzi, per i quali la droga arriva persino nelle scuole, attraverso sottili strategie di aggiramento, oltre che naturalmente nei luoghi di ritrovo. Ho sempre pensato che il ragazzo abituato fin dall’infanzia a ingurgitare pillole di vario colore, per il mal di testa, il mal di pancia o lo stress, finisca inevitabilmente per essere più predisposto al consumo di droghe, sicché la proposta di buttare giù una pillola per sentirsi più forte e reggere meglio una serata da sballo in discoteca viene accettata come del tutto normale. E invece ci si può rimettere la vita, come provano i tragici fatti riportati non infrequentemente dalla cronaca.

Questi giovani che affollano il nostro Tribunale, ma non solo, sono molto incerti sul proprio futuro, e ciò li rende fragili. Fino a venti anni fa un ragazzo che si allontanava da casa sapeva indicarne i motivi, aveva un’idea precisa di cosa fare, e spesso riusciva a realizzare il suo obiettivo; oggi, invece, non sa dare una ragione specifica, dice semplicemente “non mi andava più di stare là”, senza sapere dove dirigersi e che cosa fare; così il più delle volte si perde strada facendo. Sono tutti ragazzi che non hanno ricevuto attenzioni sin dall’infanzia oppure da quando la separazione dei genitori li ha sballottolati di qua e di là, privandoli di una base sicura; ragazzi che sono sempre on line e vivono sui social network, esposti a tutti i pericoli nella solitudine di una stanza, o in un gruppo che si lascia assordare dalla musica, perennemente lontani mille miglia da coloro che sono fisicamente vicini: una nuova droga?

Ho dovuto poi constatare con desolazione l’aumento di disturbi psichiatrici nei giovani e l’impossibilità di dare loro una risposta adeguata per l’assenza – quasi totale nel territorio laziale – di comunità idonee ad accoglierli, con la conseguenza che questi ragazzi alternano brevi e turbolenti periodi di rientro in famiglia con altrettanti brevissimi passaggi per la comunità, la quale purtroppo apre loro la porta per liberarsene, ritenendoli assolutamente ingestibili; seguono così lunghe permanenze per strada o presso amici problematici alla stessa maniera.

Ci sono donne che fanno uso di eroina da quando avevano quindici o sedici anni e partoriscono bambini che sistematicamente vengono allontanati alla nascita perché in crisi di astinenza e affetti da patologie connesse e perché la madre non è in grado di offrire loro cure adeguate; talvolta questi bambini vengono abbandonati alla nascita e dati in adozione. E ci sono ragazze con gravi problemi psichiatrici espulse dalla famiglia che partoriscono bambini senza padre i quali finiscono quasi sempre nell’area dell’abbandono. Sistematicamente il giudice ritrova nomi di ragazzi a lui già noti nei nuovi procedimenti che vengono alla sua attenzione, e la catena dei giovani allo sbando si allunga sempre più, perché il sostegno che può dare il Servizio sociale diventa del tutto inefficace, se l’intervento è tardivo.

Un ulteriore tratto tipico del nuovo millennio è il flusso migratorio che riguarda l’Italia, soprattutto a seguito degli sbarchi sulle nostre coste. Sui ragazzi – che spesso tali non sono, ma si dicono minorenni per ottenere una migliore (anche se provvisoria) sistemazione – sovrintende il giudice tutelare per la nomina di tutore e quant’altro; se ne occupa invece il Tribunale per i minorenni quando cadono nell’area penale.

Anche la presenza dei rom è diventata più massiva e problematica. I comuni garantiscono nei campi la presenza di servizi per far sì che i bambini vengano vaccinati e scolarizzati, ma questo non sempre avviene perché la grande mobilità delle famiglie consente loro di sfuggire ai controlli. Alcuni bambini e ragazzi continuano purtroppo ad essere utilizzati nell’accattonaggio, nel furto in abitazione, nel borseggio e in altre attività illegali; spesso accompagnano il padre o un altro adulto del campo in questi colpi, tenendo il sacco o il carrello per ricevere la refurtiva.

L’intervento del Tribunale, che li allontana dal campo e da genitori irreversibilmente inadeguati per collocarli in case-famiglia e garantire loro istruzione e cura, non viene accettato; e l’eventuale ripresa di rapporti con i genitori, per dare loro modo di constatare i miglioramenti dei figli nel comportamento e nell’istruzione ai fini dell’adesione al progetto, diventa sempre l’occasione per sottrarli all’autorità e allontanarsi dal territorio, rendendosi irreperibili. Eppure questi bambini sono tutti intelligenti e capaci di repentino recupero, come prova il fatto che gli affidamenti e le adozioni che li riguardano hanno dato esiti assai positivi, e molti di loro hanno raggiunto traguardi inimmaginabili tenuto conto del punto di partenza. Forse una migliore e più funzionale organizzazione dei campi, insieme a una maggiore presenza di operatori sociali, potrebbe favorire la sana crescita di questi bambini.

Mi rendo conto che lo scenario descritto è a tinte molto fosche, ma bisogna considerare che un giudice minorile viene a contatto, un po’ come il medico, con la patologia della famiglia: si tratta di situazioni difficili e problematiche vissute da una umanità dolente, senza valori autentici e riferimenti positivi. Fortunatamente, le famiglie sane e funzionali alla crescita dei figli sono, nel nostro paese, ancora la grande maggioranza: nei parchi, nelle spiagge, negli aeroporti, davanti alle scuole vediamo madri affettuose e padri premurosi verso figli che appaiono sereni e gioiosi.

È ovvio, e persino banale, sottolineare che la risposta alla patologia familiare va ricercata in una più attenta ed efficace strategia di prevenzione, come del resto da sempre indicano gli esperti e gli operatori del settore. Voglio tuttavia precisare che, a mio parere, non si tratta soltanto di potenziare gli aiuti alla famiglia e rafforzare i Servizi socio-sanitari – cosa pur auspicabile anche in un periodo di difficoltà economiche –, ma di utilizzarli meglio e più precocemente rispetto all’insorgere del problema. Un bambino, infatti, incontra le istituzioni molto presto e molto frequentemente: il primo contatto avviene già in tenerissima età, al momento della prima vaccinazione; poi va al nido e successivamente alla scuola dell’infanzia; viene seguito dal pediatra di base; entra nella scuola dell’obbligo; vive in un contesto sociale con un parentado e un vicinato.

Possibile che nessuno veda sul volto di un bambino i segni di sofferenza per una condotta maltrattante? Possibile che ancora oggi alcuni dirigenti scolastici ignorino la segnalazione di un insegnante per non “mettere in difficoltà la scuola e le altre famiglie”? Possibile che alcuni pediatri – pochi, per fortuna – si limitino a prescrivere per il bambino ciò che l’accompagnatore chiede, senza nemmeno guardarlo in viso e scorgerne le molteplici ecchimosi, o credano che quel bambino non faccia altro che cadere dalle scale? Possibile che nessuno dei vicini o dei parenti si accorga di una condotta maltrattante verso un bambino? Possibile, insomma, che la situazione debba essere portata all’attenzione dell’Autorità giudiziaria quando il danno è avvenuto ed è magari irreversibile? 

Melita Cavallo, Si fa presto a dire famiglia

 


Melita Cavallo è presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, dove ha portato avanti iniziative di rilevanza nazionale. Ha lavorato nel settore della famiglia come giudice minorile a Milano, Napoli e Roma. Per l’impegno in campo minorile ha ricevuto alti riconoscimenti, quale il Prix Femmes d’Europe 1995 dal Parlamento Europeo e la Légion d’Honneur dal Presidente della Repubblica francese nel 2012.

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