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di Luciovalerio Padovani
Mi è stato chiesto di svolgere una relazione sui servizi sociali nel territorio genovese, ho colto l’opportunità volentieri anche perché così ci mettiamo avanti con il lavoro sul programma di cui abbiamo parlato nella scorsa riunione. Questo intervento potrebbe servire come prima base di discussione per faciliatare il confronto da realizzare nella commissione tematica che dovremo avviare in tempi brevi. Il tema è complesso, ci sono molte cose da dire ma il tempo che mi è concesso è breve, troppo, non credo che riuscirò a dire tutto, per questo motivo rinvio ad appuntamenti successivi (od alla trascrizione che mi impegno a pubblicare su Commo quanto prima).
ARTICOLO TRE
Il compagno Ranieri, nell’intervento introduttivo ha detto una cosa secondo me decisiva per un partito che sta nascendo e che vuole darsi uno statuto autonomo: l’importante è distinguersi. I nostri ex compagni di strada hanno deciso di darsi un nome ad effetto facendo riferimento alla costituzione. L’articolo uno è un bell’articolo, perché parla di centralità del lavoro e di sovranità popolare, ma io credo che se la nostra costituzione non piace a Jp Morgan ed ai poteri finanziari globali perché “troppo socialista”, molto si deve all’art. 3. L’articolo tre dichiara infatti solennemente che “compito della Repubblica è quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto l’uguaglianza”.
L’articolo tre pone quindi, al centro dell’attenzione dei costituenti, la questione dell’uguaglianza, quella correlata dell’aspirazione allo “sviluppo della persona” nella sua pienezza come diritto, nonché quella dell’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Noi un nome ce l’abbiamo già ed é un bel nome, ma se dovessimo trovarne uno nuovo, facendo un pò il verso ai nostri cugini, sceglierei senza esitazioni “articolo tre”, anche perché al nome corrisponderebbe un bel programma. C’e del resto uno stretto rapporto “isomorfico”, per usare un termine matematico, fra la sinistra italiana ed il welfare state, perché è stato il movimento operaio e socialista che ne ha significativamente contribuito a promuovere lo sviluppo e perché all’interno dei sistemi di welfare tuttora vengono alimentati i valori dell’accoglienza, della solidarietà e del mutualismo che di fatto sono valori caratterizzanti la cultura di sinistra.
In effetti, quando i diritti diventano “concretamente esigibili” ridistribuiscono quote di plusvalore, il welfare altro non è che una delle forme di ridistribuzione della ricchezza prodotta a vantaggio delle classi popolari. L’attacco dei poteri economici ai diritti del lavoro e ai sistemi di welfare ha quindi lo stesso segno, massimizzare la quota di valore da attribuire a vantaggio del profitto (e delle classi dominanti). Non a caso, l’intenzione di “affamare la bestia” affermata dalla retorica neoliberista, motivata dall’imperativo categorico di vincere la competizione sui mercati internazionali, si traduce sempre nell’attacco allo stato erogatore di servizi ed alla spesa sociale percepita come improduttiva, come un costo e non come un investimento che la società democratica fa su di se a vantaggio dei propri cittadini.
CONTESTO E RISORSE
L’attacco, portato dalla cultura liberista diventata egemone, all’investimento “improduttivo” che si incarna nei sistemi di welfare si é tradotto concretamente in politiche che, nel corso del tempo, hanno ridotto drasticamente le risorse da destinare alla spesa sociale. Se nel 2008, ai tempi di Prodi, il fondo sociale nazionale ammontava a circa 2 miliardi di euro, la somma si è ridotta progressivamente di quasi l’85%, attestandosi intorno ai 300 miliardi, almeno fino ad ieri, prima dell’ultimo taglio operato dal governo Gentiloni. Oggi il fondo prevede una spesa di soli 85 milioni. A dispetto di tutti discorsi demagogici circa le politiche “a sostegno della famiglia”, i fondi nazionali dedicati alle politiche sociali si sono quindi nel tempo quasi azzerati.
Oltre a questa drastica riduzione dei finanziamenti dedicati, c’è da considerare anche la parallela riduzione della consistenza dei trasferimenti dello Stato agli enti locali che sono responsabili dell’erogazione dei servizi ai cittadini in funzione del loro ruolo sussidiario. E’ il Comune che alla fine eroga la quasi totalità dei servizi sociali, ma se i tagli si sommano, “tenere” i sistemi di welfare diventa un compito quasi impossibile. E’ il caso del Comune di Genova, dal 2011 ad oggi sono mancati circa 165 milioni di euro su un bilancio di ottocento (piu o meno il 15% delle risorse). Tutto ciò in una situazione in cui i bisogni sociali sono invece in forte aumento di modo che la “forbice bisogni-risorse” si allarga sempre più: meno risorse, più bisogni!
Il contesto di crisi economica aumenta però esponenzialmente il peso di tutti gli “indicatori” legati alla sofferenza ed al disagio e come se non bastasse, su tutto questo vanno ad incidere negativamente anche le tendenze socio-relazionali in atto all’interno della societa del capitale globalizzato (individualismo esasperato, forte competizione tra individui, frammentazione dei legami sociali) che finiscono per produrre ulteriore isolamento, solitudine, frustrazione, depressione. Processi di de-cotruzione delle relazioni sociali che con la crisi dei legami familiari e di buon vicinato mettono fortemente in crisi gli elementi costitutivi di quella “coesione sociale” che rappresentava la capacità di “resilienza” della comunità, una sorta di “protezione naturale”, un formidabile strumento di fronteggiamento e di adattamento alle situazioni critiche.
In questo quadro di grandissima difficoltà, in cui molti fanno fatica ad arrivare a fine mese, basta poco per diventare “soggetti a rischio”: la perdita del lavoro, la pensione insufficiente, una separazione, un problema di salute, la rata del mutuo da pagare, ma anche semplicemente una cura medica un po’ costosa, un incidente, sono situazioni che in queste condizioni diventano difficili da metabolizzare e si traducono in congiunture negative insormontabili che vanno ad ingrossare l’esercito di persone “vulnerabili”, persone che trovandosi prive di risorse economico-relazionali fanno fatica ad affrontare la crisi con successo e rischiano la povertà e l’emarginazione. Un indicatore abbastanza fedele di quello che sta capitando, ad esempio, è la lunghezza e la composizione sociale delle code di persone che aspettano davanti alle “mense dei poveri” (passo spesso davanti alla mensa di Sant’Egidio).
STRUTTURA DELLA SPESA SOCIALE
Due parole sulla struttura della spesa sociale a Genova. Il Comune spende circa 42 milioni per i servizi sociali (un po’ di più in quest’ultimo periodo visto che arrivano risorse dedicate ai rifugiati). Questa spesa che potremmo definire “storica” (perché per anni è rimasta la stessa) è stata spesso al centro di furibondi attacchi, anche all’interno della maggioranza di centrosinistra, si è messo più volte in dubbio la possibilità e anche l’opportunita’ di mantenerla inalterata. Tuttavia il valore assoluto da solo significa poco, per farlo diventare significativo (e comprensibile) bisogna compararlo con quello delle altre più grandi città italiane.
Il Comune di Genova riserva ai servizi sociali il 5% del suo bilancio (circa 40 su 800 e rotti) ma, a sorpresa, questo lo pone solo al 14º posto (su 15 grandi città italiane) per spesa procapite, siamo subito prima di Palermo e subito dopo Messina. Il dato è confermato dal confronto comparato, il Comune di Genova spende (rispetto alla “mediana” fatta 100) il 56% in servizi sociali e, addirittura, solo al 5% in interventi di prevenzione, mentre investe molto di più, sul trasporto pubblico (il 156%) e sulla struttura amministrativa, (dove siamo a 109%) nonostante la forte “cura dimagrante” imposta dalla giunta Doria (circa 900 dipendenti in meno utilizzando la leva del blocco del turn over).
Altra caratteristica di questa spesa è che è tutta centrata sulla “riduzione del danno”, si interviene tardivamente sui problemi, non ci sono misure strutturali (né a livello nazionale, né locale) che intervengono con determinazione sulle “cause” del disagio e della fragilità, mancano serie politiche di sostegno all’abitare, mancano (o sono insufficienti) gli strumenti a sostegno delle politiche attive del lavoro e soprattutto ci manca completamente lo strumento del reddito minimo (che tutti gli altri paesi d’Europa hanno, a parte noi e la Grecia). Siamo in presenza, di un welfare le cui dotazioni andrebbero implementate e non ridotte, mentre le politiche inistono, come un mantra, al contrario, sulla detassazione. In un seminario al ducale, Chiara Saraceno ricordava che proprio mentre si stava provando con Prodi ad introdurre anche in Italia il “reddito minimo” (per intervenire sulle situazioni di maggiore indigenza sarebbero stati necessari 1,4 mliardi di euro), si cominciò a parlare di taglio dell’IMU (che avrebbe comportato una perdita in termini di fiscalità generale, pari a 4 miliardi di euro). In coinclusione, affrontiamo la crisi senza uno strumento essenziale di protezione con tutte le conseguenze del caso.
Si finisce quindi non solo per spendere poco, ma forse anche per spendere male, perché si fa poca prevenzione, si interviene quando ormai il disagio è ampiamente conclamato e non ci si può più sottrarre. Questo elemento strutturale della spesa diventa del tutto evidente se si analizza la sua ripartizione per tipologie di intervento: addirittura 1/3 della spesa complessiva, ad esempio, va a coprire gli interventi residenziali a favore di minori che vengono allontanati dal nucleo familiare. Si tratta in questo caso non solo di “diritti esigibili” ma di “interventi obbligatori” stabiliti dal tribunale dei minori (a cui il comune non può sottrarsi per legge). Ne consegue che quando mancano le risorse, in una sorta di spirale negativa, si tagliano soprattutto gli interventi di prevenzione che, a quel punto per forza di cose, sono considerati un lusso e non un investimento. Stando alla metafora della sanità è come se ci interessatissimo solo alla cura ospedaliera ed agli effetti delle malattie croniche ma non facessimo nulla per prevenirle. E’ evidente che gli interventi specialistici “tardivi” che, per definizione, non possono che limitarsi alla “riduzione del danno”, sono molto costosi, producono pochi risultati e drenano molte risorse.
CHE FARE?
Che fare? In attesa di conquistare il palazzo di inverno, il Comune di Genova potrebbe, ad esempio, sin da subito, non incaponirsi troppo sulle politiche di rientro dal debito. Dal 2011 ad oggi la ”cura Miceli” ha ridotto il debito del comune in modo consistente (siamo passati da 1400 agli attuali 1200, con una serie di vantaggi evidenti meno costi necessari per il suo finanziamento). La direzione intrapresa é certamente virtuosa (non si carica tutto debito sulle spalle delle giovani generazioni) ma in questa fase, con questo stato di cose, credo che bisogna allentare i cordoni della borsa e ricominciare ad investire. Qualcuno ha parlato di superamento dei vincoli del patto di stabilità (citando l’esperienza di De Magistris a Napoli), una cosa è certa, é del tutto evidente che se non vogliamo assistere impotenti alla macelleria sociale, effetto della crisi e dell’aumento delle diseguaglianze non possiamo permetterci politiche troppo rigorose.
Ciò detto, ci sarebbe anche un’altra strada da tentare (persino piu difficile, perché più complessa e sofisticata), quella di provare a “riorientare gradualmente la spesa” (visto che, come detto, oltre a spendere poco si spende anche male), cosa che però si può fare solo con il coinvolgimento attivo dei soggetti di terzo settore che gestiscono la quasi totalità dei servizi. Ai tempi della delibera sul welfare (quella che stabiliva solennemente che i servizi sociali non dovessero essere tagliati e che fu votata all’unanimità) il testo prevedeva anche la stipula di un “patto” per promuovere un percorso di riprogettazione partecipata che andasse in questa direzione (cosa che poi non siamo riusciti a fare).
LAVORO SOCIALE
Due parole per completare il quadro, il settore del “lavoro sociale” a Genova occupa un numero significativo di operatori (circa 2500) si tratta di un settore sostanzialmente quasi completamente “privatizzato”, la cosiddetta esternalizzazione si é realizzata sin all’inizio, quando i servizi nascevano, sul finire degli anni 70. La “legge Stammati” già allora impediva di assumere personale e le amministrazioni di sinistra (forse anche aldila delle loro reali intenzioni) si trovarono di fronte alla necessità, dovendo far nascere servizi nuovi, di avviare le “sperimentazioni” utilizzando lavoratori non alle proprie dipendenze.
Risultato, se si fa eccezione per il “servizio sociale professionale” che è interamente erogato dall’ente pubblico, la quasi la totalità dei servizi é interamente gestita dal privato (il 96% secondo l’assessore Dameri). Il sistema dei servizi del comune è quindi artatamente diviso “lungo l’asse verticale” tra chi lavora nel pubblico, in genere assistenti sociali, che è in posizione UP (in quanto committente) e chi lavora nel privato, educatori, operatori assistenziali, che é in posizione DOWN (in quanto fornitore). Per paradosso, questi ultimi, che gestiscono la questi totalità delle responsabilità per quanto riguarda l’erogazione dei servizi diretti al cliente, hanno in definitiva poca voce, poca capacità di farsi ascoltare e di essere riconosciuti per le competenze maturate.
Ci troviamo così oggi, a distanza di anni da quelle scelte che hanno disegnato l’attuale presente, da un lato, di fronte ad una “professione altruista” che lavora prevalentemente in organizzazioni private di tipo non lucrativo, (i cui comportamenti sono, o dovrebbero essere, orientati al lavoro di cura, all’ascolto, alla solidarietà, all’empatia ed al mutualismo) e, dall’altro, siamo in presenza di una categoria di “woorking poors”, di lavoratori poveri, lavoratori che scontano attraverso uno scarso “riconoscimento”, sia dal punto di vista del reddito sia dal punto di vista del ruolo lo scarso potere negoziale (perché privati) e la debole rappresentanza (perché frammentati). Fanno un lavoro che non solo è poco remunerato ma che è anche molto parcellizzato (prevalgono, sempre più per esigenze legate all’organizzazione del lavoro, i contatti a tempo parziale se lo sviluppo delle carriere praticamente inesistente, il futuro pensionistico comporterà per loro una serie di brutte sorprese e problemi molto rilevanti sul piano economico, con il rischio, non remoto, di diventare essi stessi “utenti’ a fine carriera.
Si tratta di un settore, a mio avviso, molto interessante per un partito di sinistra che si candida a fare gli interessi dei più deboli, perché questi lavoratori sono alla fine essi stessi deboli come i loro utenti: dimmi per chi lavori e ti dirò chi sei!
COOPERATIVE
L’organizzazione del lavoro interna alle cooperative presenta luci e ombre. Le cooperative sono, almeno potenzialmente, dei formidabili strumenti di “democrazia del lavoro” (una testa un voto, ruolo preminente, statutario, del socio lavoratore, culltura orientata alla valorizzazione delle risorse umane ed al mutualismo) ma purtroppo troppo spesso solo sulla carta. Strette tra scarsità delle risorse a disposizione, esigenze di bilancio e derive aziendaliste, diventano anche, spesso loro malgrado, uno strumento di compressione dei salari e dei diritti del lavoro.
Come sappiamo, anche in funzione della competizione in un mercato legato agli appalti pubblici, per definizione privo delle risorse adeguate, lo strumento cooperativa è stato spesso utilizzato per permettere che i servizi fossero gestiti ad un costo conveniente per l’ente pubblico, senza che però fossero sempre garantiti fino in fondo i diritti dei lavoratori. Di certo c’è il fatto che probabilmente senza cooperative (che, per loro natura, hanno una capacità di adattamento molto alta, una sorta di eccezionale resilienza anticiclica) il sistema dei servizi sociali non sarebbe come lo conosciamo o sarebbe già crollato sotto i colpi dei tagli. Se abbiamo ancora un sistema di welfare a Genova, degno di questo nome, molto merito va a questi lavoratori.
Ci troviamo quindi di fronte una contraddizione: senza cooperative il sistema non starebbe in piedi ma bisogna salvare le cooperative dalla tendenza di introdurre modalità di gestione delle risorse umane che comportano lo snaturamento della loro missione storica. Per la sinistra la questione delle cooperative è quindi una questione tutta da approfondire, si tratta di distinguere fra chi cooperativa lo é sul serio e chi non lo è. Altrimenti ci si limita alle invettive sulle cooperative tipiche di certa destra, dando per scontato che la partita sia persa. Salvare le cooperative (anche da se stesse) in quanto realizzazione concreta di un modello innovativo di organizzazione del lavoro figlio della creatività del movimento operaio è un compito che, secondo me, un partito di sinistra che non vuole essere manicheo deve darsi al più presto.
MODALITÀ DI ASSEGNAZIONE
Altra questione. non secondaria quindi è quella dei meccanismi di assegnazione e di concessione. E’ evidente che, in questo caso più che in altri, visto che si tratta di servizi ad alta intensità del personale, il costo del lavoro ha un peso rilevante nella definizione dell’offerta. Le modalità con cui vengono costruiti gli appalti, attraverso le gare competitive ad evidenza pubblica, possono fare la differenza: ad esempio se i sistemi di calcolo del punteggio sono in grado o no di riconoscere, in misura sufficiente, la qualità effettiva o se insistono troppo sull’elemento prezzo. Basta molto poco (l’applicazione di una diversa formula) per creare “ecosistemi” in cui, in base alle regole di contesto definite dallo stesso ente pubblico, si fanno largo i pescecani e non coloro che hanno comportamenti etici e coerenti con la missione di queste organizzazioni. Per arrivare poi, a cose fatte e a danno avvenuto a piangere sul latte versato ed al riconoscimento tardivo che non si è fatto fino in fondo l’interesse degli utenti.
C’è da dire, di passaggio, che le gare stanno di fatto per essere sostituite in modo sempre più massiccio dalle procedure di accreditamento. Accreditamento, che per definizione, se non opportunamente governato, lascia aperta la porta a meccanismi competitivi di mercato che anch’essi non sempre premiano la qualità, soprattutto quando l’offerta, lasciata alla libera iniziativa dei privati, diventa eccedente rispetto alla domanda ingenerando dinamiche di sofferenza nei servizi e mettendo in discussione il rispetto effettivo degli standard.
Il problema chiave per il pubblico é comunque riuscire a mantenere al proprio interno quelle competenze in fatto di valutazione e orientamento strategico del sistema che garantiscono la qualità effettiva. Risulta quindi decisivo introdurre seri sistemi di valutazione della qualità, basata su dati certi e su evidenze, che si traducano in sistemi di monitoraggio e di costruzione di regole certe nell’assegnazione dei servizi che siano in grado di privilegiare chi la qualità la fa sul serio. E’ quindi assolutamente necessario che la pubblica amministrazione mantenga al proprio interno le competenze valutative necessarie a governare il processo. Un po’ di tempo fa avevo sentito un collega esprimersi in merito attraverso l’uso di un sillogismo illuminante: “il saper far fare è fondato sul saper fare e il saper fare è fondato sul fare”. Questo per dire che se l’amministrazione non mantiene al suo interno competenze anche gestionali è molto difficile che mantenga la capacità effettiva di indirizzo e di governo dei processi produttivi visto che non ne comprende più fino in fondo le modalità organizzative.
POTENZIALITÀ
Riassumendo, ci troviamo in una situazione in cui a prescindere dalle dichiarazioni di principio contenute nell’articolo tre della costituzione, citato all’inizio, abbiamo una seria difficoltà a garantire che i diritti delle persone siano effettivamente esigibili, visto che siamo in presenza di una contrazione progressiva delle risorse che può alla lunga mettere in crisi la sostenibilità stessa del sistema. La spesa va difesa ma anche, se possibile, qualificata e la qualificazione della spesa nella direzione auspicabile può essere realizzata solo se si ci si mette al tavolo con i soggetti che le competenze gestionali le hanno sul serio, cioè con le organizzazioni di terzo settore, riconoscen-done fino in fondo ruolo e progettualità.
Si è detto quindi dei rischi ma è giusto sottolineare in conclusione anche le enormi potenzialità di un settore di intervento in cui prevalgono ancora, per definizione, comportamenti legati all’accoglienza, al mutualismo, alla solidarietà isomorfici alla cultura della sinistra. Si diceva sopra che nella società del neoliberismo vincente prevalgono spinte non inclusive che generano isolamento, solitudine e frammentazione dei legami sociali, per fortuna queste spinte trovano un potenziale antidoto nei movimenti di cittadinanza attiva che si stanno sviluppando, naturalmente ed in modo spontaneo sui territori. Sono sempre di più le persone coinvolte in pratiche mutualistiche rivolte alla cura dei beni comuni ed all’animazione di spazi pubblici e comunitari. Esperienze che per fortuna stanno diventando virali, ogni giorno nascono nuove case di quartiere o si progettano e realizzano centri in cui produrre nuova cultura e nuove forme di socialità. La sinistra se vuole tornare a radicarsi nella società deve quindi, oltre che difendere sistemi di welfare e promuoverli, anche contribuire a valorizzare i processi di aggregazione che stanno nascendo spontaneamente al loro interno, contribuendo ad animarli, riconoscendoli come luoghi che provano a costruire un progetto sociale alternativo, comunità di pratiche in cui i valori della solidarietà, della cooperazione e del mutualismo tornano ad essere attuali.