Serve un pensiero lungo, altro che guru della narrazione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Michele Prospero
Fonte: Left
Url fonte: https://www.facebook.com/notes/michele-prospero/serve-un-pensiero-lungo-altro-che-guru-e-narrazione/1144499112278818

di Michele Prospero – 9 luglio 2016
L’Europa attraversa una crisi profonda e la leadership politica appare in molti Paesi inadeguata alle sfide che svelano una generale crisi di rappresentanza. Un tempo storico così incerto, che vede ampie fasce di società respingere i vecchi partiti che si isolano tra le risorse dell’amministrazione, e quindi sono percepiti come omologati a un pensiero unico che celebra il mercato e sacrifica i bisogni, esigerebbe classi politiche autorevoli. Dall’Austria alla Francia, dalle nuove democrazie dell’Est alla più antica democrazia inglese, tutti i sistemi politici vagano alla ricerca di statisti, una merce preziosa che però manca. Travolto da un referendum che aveva convocato con furbizia per ricevere un’investitura di popolo ritenuta scontata, Cameron è solo l’ultimo episodio di una decadenza dei ceti politici del vecchio continente.
Se, con il canone di Machiavelli, grande politico è solo chi costruisce ordini, edifica cioè Stati nuovi introducendo, per farli durare, degli istituti e legami, Cameron appartiene senza dubbio alla figura del puro destrutturatore: sfascia istituzioni fragili, manda in rovina ordini ancora incerti e alimenta velleità secessioniste nel regno di sua maestà britannica. La pochezza nel mestiere di governo palesata da Hollande che sfida i sindacati e si inchina alla precarietà conduce la sinistra francese all’esaurimento, incapace i dare rappresentanza a disagi, a paure. Senza una propria lettura dei processi sociali, la sinistra imita le ricette della destra e spesso viene travolta, come in Austria dove prometteva il muro contro i migranti. I nuovi ceti politici europei studiano più comunicazione e marketing che i grandi dossier e le maniere efficaci per la gestione di organizzazioni complesse di potere. Servirebbe un pensiero lungo per l’arte di governo nell’età della globalizzazione e invece in Italia si convoca il guru Messina per trovare lumi effimeri entro una crisi organica che esigerebbe grande politica e quindi interpreti all’altezza.
I politici di Machiavelli dovevano “leggere le istorie”, quelli odierni si affidano a guru per inventare una narrazione. Dinanzi alle emergenze storiche perciò franano come dilettanti privi di ogni capacità di comprensione, di guida, di decisione. Scrivere un tweet o comparire come figurante in Matteorisponde (le dirette che il premier fa su facebook) è altra cosa che prendere una decisione e imporla nella weberiana dimensione tragica della politica. Non solo all’italietta sfugge il senso del tragico, che scandisce la politica nei suoi passaggi critici. Anche la leadership europea più forte, quella della Merkel, mostra lo stesso deficit quando esercita sugli altri Paesi un dominio di pura potenza, senza apertura all’egemonia che prevede strumenti più complessi.
In un momento di elitismo senza grandi élite, il progetto europeo naufraga miseramente. Senza partiti con una cultura politica davvero fondativa di visioni del mondo alternative, senza sindacati capaci di condurre una lotta di classe su scala continentale, il laboratorio europeo si ritrova nel silenzio della mediazione politica e sociale ed è agevolmente conquistato da fantasmi censurati come populistici che cavalcano l’immediatezza, l’estraneità rispetto ai riti di un ceto politico che ha dimenticato ogni voce dissonante, ogni capacità di mobilitazione di una parte di società.
In nome del contenimento del populismo, la cancelliera tedesca piega i grandi obiettivi strategici europei, che esigerebbero invenzione politica e istituzionale, alla convenienza teutonica più immediata, misurata con il metro alquanto riduttivo di proteggere il potere attuale da nemici interni, ora in stato dormiente. La moneta senza il sovrano, la concorrenza senza la legittimazione, non garantiscono la presa di massa del disegno europeo che incontra alienazione, allarme, rivolta nelle forme di un quadro simbolico populista che registra l’assenza di una combattiva sinistra di popolo. Nessun ordine nuovo del resto si afferma nella coscienza dei ceti popolari con la promessa della concorrenza, con i miti dell’austerità e del rigore. Cioè con la richiesta ai popoli di aderire a una causa grazie alla quale è certa la prospettiva di stare peggio che in passato – quanto a diritti di cittadinanza – peggio rispetto a quando – così recita una stantia litania – i cittadini europei hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità.
Quello europeo è così rimasto un mito freddo, nato nel laboratorio delle tecnocrazie illuminate che disegnano regole comuni per affrontare le insidie della globalizzazione e reagiscono stizzite ai segnali di alienazione politica generati proprio dalle loro alchimie mercatiste e da ricette di integrazione tramite moneta e concorrenza prive di ogni apertura sociale. Il vizio originario dell’esperimento europeo è quello di aver contrapposto l’integrazione attraverso il lavorio responsabile, cooperativo e competitivo delle élite, e le inclinazioni e i bisogni del popolo temuti come fonti di irrazionalismi, di trivialità. Molti politologi teorizzano la necessità di diffidare del popolo come fondamento del potere e di affidare i compiti di regolazione, gestione, negoziazione a istituzioni non elettive. Questo originario deficit democratico che impianta una rappresentanza debole non rimane sprovvisto di conseguenze sociali. Nei giochi riservati a élite e burocrazie si insinuano interessi organizzati, gruppi di pressione, lobby, ma il popolo è temuto con una fonte di disturbo. Anche per questo deficit di sostegno popolare al potere ovunque riaffiora il rimpianto del sovrano, la nostalgia dello Stato che dava protezione. La destra, non solo in Inghilterra, promette di uscire dai processi storici avviati in Europa e con un percorso del gambero intende restituire alla macchina statale lo scettro della sovranità perduta. Certo, sino a quando il conflitto di classe si giocava nel terreno della nazione, il principio democratico assegnava una straordinaria capacità di penetrazione alle ragioni dei ceti subalterni e alle loro istanze di una strategia della cittadinanza. Ma il trentennio glorioso, quello dei diritti e della mobilità sociale ascendente, è stato interrotto anche dalla mossa strategica del capitale che puntava alla globalizzazione dei mercati per recuperare margini di profitto essiccati entro le grandi democrazie di massa.
La sinistra tradizionale, senza un ruolo nel conflitto sociale, ha concentrato la sua attenzione al piano dei valori. E così ha conquistato i ceti riflessivi delle metropoli postmoderne (che approvano il progetto europeo) ma ha perso però radici, non avendo più organizzato il conflitto fondamentale (per dare un orizzonte di senso a quelle classi popolari spaesate attratte dai simboli di una guerra difensiva contro le culture altre e quindi conquistate dall’euroscetticismo come risposta alle paure scatenate da un capitale che decide senza più controllo, limite). E proprio l’abbandono del conflitto sociale per l’eguaglianza da parte della sinistra ha avvelenato il trionfo del capitalismo, che, senza più la fatica di doversi cimentare con la capacità di lotta del movimento operaio che richiede diritti e piccole libertà solidali, si trova a operare come regista solitario di un pensiero unico, quello che afferma la logica della merce e la impone sin dentro la politica, il diritto, la cultura, la salute. L’Europa si disintegra perché ha dimenticato il Novecento, ovvero la necessità di coniugare democrazia e diritti sociali per sviluppare la forza civilizzatrice della politica, necessaria per la stessa sopravvivenza del capitale, che ha bisogno di un antagonista forte che con la grande politica ne raffreddi la follia costitutiva.
Il populismo non è una pura escrescenza patogena che parla un dialetto blasfemo, è la fisiologica manifestazione di rivolta di nuove precarietà e incertezze che nei sistemi di potere esistenti non trovano tracce di rappresentanza. Nelle giunture critiche emergono interessi, sensibilità, credenze che danno voce a una lotta contro la politica ritenuta omologata entro un sistema che non sfida le esigenze funzionali del capitale e dei mercati, per tramutare l’Europa da puro spazio di mercato in territorio coperto da diritti di cittadinanza.
E a salvare le istituzioni comunitarie incapaci di andare oltre lo Stato-sovrano non basterà la ragione calcolatrice dell’élite infastidita dalle paure della sfrenata massa piegata dalla crisi, dalla precarietà, dall’eutanasia dello spazio pubblico capace di eguaglianza. Senza una democrazia che vive nel conflitto, lo canalizza e agita un’ideologia mobilitante per la massa colpita dalle esclusioni della postmodernità, non esiste autonomia della politica dagli interessi dominanti e quindi non maturano classi dirigenti autorevoli ma solo scialbe figure della comunicazione.
Michele Prospero (da “Left” del 09/07/2016)
Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.