di Francesco M. Bonicelli Verrina
Gli uomini preferirono le tenebre e l’odio di quello che non si conosce ne è figlio. “Accetteremo gli immigrati, ma solo se sono cristiani”, così si è pronunciato Robert Fico, premier slovacco, aggiungendo che in Slovacchia non ci sarebbero abbastanza moschee, il 22 settembre, a Bruxelles. Sarebbe troppo facile dire che questa affermazione, goliardica non fosse vera, già evidentemente poco in sintonia con uno spirito cristiano, stona anche accostata al tormentone pubblicitario: Slovacchia, terra di amici! Infatti in Slovacchia, terra davvero notoriamente ospitale e cuore pulsante della Mitteleuropa asburgica, in una generale disillusione, le percentuali di elettori alle urne sono in caduta libera da tempo. La generosità, che fa notizia solo quando è tedesca, è stata dimostrata sul confine slovacco-ungherese e alla stazione Keleti di Budapest, da moltissimi volontari, che distribuiscono acqua, viveri, cure, vestiti e coperte, da una parte slovacchi e dall’altra ungheresi, accompagnati da cartelli come: This is the people, not its government! Frase eloquente, purtroppo mostrata solo in seconda serata da Gazebo, su Rai Tre, non da Fazio, e poi ai tg fa evidentemente più notizia la macelleria.
Le parole sui cartelli alla stazione Keleti di Budapest, rivendicano dal mondo il rispetto che si deve a un popolo (non al suo governo), amato da Indro Montanelli, come quello magiaro, il quale, durante la seconda guerra mondiale, di rifugiati ne accettò eccome. Non solo ospitò l’ultimo liceo polacco esistente in Europa (a Balatonboglár), dopo che i nazisti abolirono ogni istituzione culturale che non fosse tedesca, in Polonia (assistiti dai sovietici dall’altra parte della linea stabilita da Molotov e Ribbentrop, il 23 agosto 1939), ma prima ancora, pur con la Wehrmacht alle porte, il governo di Budapest ospitò poco meno di centomila polacchi, che fuggirono attraverso un corridoio transcarpatico, ottenuto in maniera poco diplomatica, con il tacito accordo di Churchill, dalla vicina Slovacchia (all’epoca presieduta da un governo fantoccio fascista di futuri esuli in Argentina, guidato da monsignor Tiso), e addirittura, cosa poco conosciuta dagli altri europei, la popolazione ebraica ungherese raddoppiò durante la guerra (per essere poi falcidiata dalle croci frecciate e dalle ss, quando Hitler fece arrestare il governo di Budapest, nel marzo 1944 e poi invase il paese a ottobre, l’epoca in cui entrò in attività Giorgio Perlasca). Furono ospitati anche disertori e oppositori politici dalla Cecoslovacchia e dall’Austria, controllate dal Reich, inoltre l’aeroporto di Budapest fu a lungo usato per un passaggio sicuro di spie inglesi; benché Horthy, l’ammiraglio senza flotta di Cecco Beppe, fosse stato abbagliato, alla fine del 1941, dall’idea di una infausta crociata contro l’Unione Sovietica, unico paese contro il quale mosse realmente guerra l’Ungheria.
Non finisce qui. Un altro motivo che il governo ungherese attuale dovrebbe tenere a mente, è che gli ungheresi sono rifugiati e profughi in Europa dai tempi di Attila e dovrebbero anzi fare da coscienza critica, come fanno infatti i volontari, ben più solerti della burocrazia berlinese. Dovrebbe tenere conto non solo del fatto che gli ungheresi abbiano vissuto sulla pelle la condizione di profughi e perseguitati alla fine della Grande Guerra e nel 1956, non solo che la prima costituzione pluralista e tollerante, in senso moderno, nei confronti di tutte le minoranze, sia stata la Dieta di Torda, Transilvania, del 1568, modello della Rivoluzione Americana, ma anche occorrerebbe richiamare un personaggio poco noto nel resto d’Europa, un personaggio controverso e discusso, con luci e ombre. Egli è Pál Teleki (1879-1941), conte ungherese transilvano, che come moltissimi magiari di Transilvania perse tutte le sue terre alla fine della prima guerra mondiale e visse in semi-miseria. Cartografo, discendente di grandi esploratori, avventurieri e collezionisti di libri e mappe, fu tra i massimi propugnatori dell’idea, un po’ hippie, stravagante e ambiziosa, di una antica società turanica unitaria (uralo-altaica e ugro-finnica), che univa idealmente il piccolo popolo magiaro non solo ai finnici, agli estoni, ai sami, ma anche agli etruschi, ai baschi, ai turchi, ai bulgari, ai persiani, ai curdi, a svariati popoli del Caucaso e della Siberia, fino al Giappone e alle genti native nordamericane. In onore della “fratellanza turanica”, a Budapest, si seguiva trepidanti il destino del Giappone contro la Russia zarista, nella guerra russo-nipponica del 1905.
Oltre a ciò, Teleki fu un serio geografo, stimato nelle accademie di tutto il mondo. Nel 1924 fu chiamato dalla Società delle Nazioni a stabilire il destino di Mosul e dell’area circostante. In tale veste fu il primo a difendere l’identità curda, affidando Mosul al protettorato britannico, anziché alle grinfie turche, con l’invito a Londra, disatteso, di preservare e tutelare l’identità curda della zona. Tant’è vero che ancora oggi Teleki è un quasi eroe nazionale curdo, commemorato anche sui siti internet ufficiali, inneggianti all’indipendenza del Kurdistan, l’unico stato, che pur essendo ancora nel mondo dei sogni, abbia dichiarato guerra senza quartiere all’Isis. Teleki, che si sparò all’alba del 3 aprile 1941, mentre le armate del Terzo Reich stavano penetrando in Ungheria, compì l’atto estremo come facevano gli antichi capi centro-asiatici, per liberare il proprio popolo dal male, diventando l’emblema, forse, di un ideale tanto forte.
I siriani che bussano alle porte dell’Europa, non hanno le armi con cui arrivarono gli ottomani nel 1683, sono solo armati di speranza e l’UE avrebbe attualmente bisogno di una terapia intensiva a base di fiducia e speranza. Essi sono prima di tutto esseri umani che partono con l’idea che arrivando o affogando per lo meno porranno fine alle loro sofferenze (un punto estremo a cui forse nessun essere umano al mondo dovrebbe arrivare) e, in secondo luogo, molti di loro sono curdi, o hanno sangue curdo, sono quelli stessi curdi perseguitati e dispersi, difesi da Teleki, che in quanto accademico fu e dovrebbe ancora essere, al di là di sterili polemiche antistoriche, un orgoglio per l’Ungheria e l’Europa.
Al clima attuale hanno probabilmente contribuito gli atteggiamenti ostili dei benpensanti europei che hanno spacciato un’immagine distorta dell’Ungheria, decretandone un isolamento che ha giovato solo ai neonazi di Jobbik (Il destro/Il meglio), ben prima degli ultimi fatti. Probabilmente i radical-chic erano disgustati dal fatto che nella nuova costituzione magiara del 2013, il presidente Viktor Orbán colpisse pesantemente e penalmente le speculazioni bancarie a cuor leggero, ma senza dubbio gli abbracci fra Orbán e Vladimir Putin, a febbraio di quest’anno, non fanno ben sperare. Il Sole 24 Ore ha definito i contratti sulle forniture di gas russo all’Ungheria (in tempi di sanzioni), al limite dell’accettabilità, per Bruxelles.
Ad unirsi a Orbán, in proclami veementi contro le sanzioni, è stato anche Miloš Zeman, il presidente socialdemocratico della Repubblica Ceca, ben diverso dal coltissimo predecessore Václav Havel, che aveva l’erre moscia e il fare dei timidi, gli unici che a volte lasciano il segreto del coraggio al mondo (secondo il filosofo praghese di Charta 77 Jan Patočka).
Zeman, che con il suo premier Bohuslav Sobotka non ha rifiutato l’invito russo ai festeggiamenti per la vittoria della Grande Guerra Patriottica, ha definito la crisi ucraina poco più di un raffreddore e ha invitato alla commemorazione dell’Olocausto, a Praga, anche il fraterno amico Vladimir Jakunin, numero uno delle ferrovie russe e diplomatico di rilievo di Mosca fin dagli anni ‘80, con note simpatie anti-semite in Ucraina. Forse è stato lui a suggerire come un macabro scherzo il ritorno della numerazione sul braccio, ai profughi che arrivavano nelle stazioni. Nel frattempo i leader dei Paesi di Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), nati con tutt’altro scopo, ovvero per essere coscienza e memoria storica dell’UE, in quanto accomunati dall’essere stati vittime delle peggiori tragedie del Novecento europeo, si riuniscono, pare, solo più per inventare sempre nuove scuse contro l’ospitalità. Proprio noi, ricordava l’anziano Lech Wałęsa, in una intervista per Sottovoce, relegato in tardissima serata, su Rai Uno, il 16 giugno di quest’anno, proprio noi, che avevamo lottato per abbattere tutti i muri e i confini e affinchè non ce ne fossero mai più. Ma Wałęsa è stato da tempo messo da parte in Polonia, Solidarność è stata quasi subito definita, dopo la vittoria strumentale usa e getta (con dieci milioni di iscritti), un movimento socialistoide e retrogrado, in contrasto col nuovo turbocapitalismo avanzante. In compenso la Polonia è diventata un paese dove però si possono anche pubblicare libri di fanta-storia che se la prendono con la “brevità di vedute” del governo del 1939, che non ebbe l’intelligenza, secondo questi fantomatici “storici”, di allearsi con il Reich contro l’URSS.
Grande scuola di fanta-storia è poi la tv di stato russa, Rossjia 1, che, come racconta Andrej Kurkov nel suo Diari Ucraini, è stata in grado di convincere i russi e gli ucraini che l’UE li avrebbe costretti all’omosessualità, riuscendo a coniugare nelle sue martellanti accuse ai liberali ucraini (perché invece i neonazi che hanno sostenuto Porošenko sono quasi tutti veterocomunisti riciclati) di essere al contempo comunisti (parola pericolosissima e impronunciabile sotto il regime di Stalin), fascisti, gay e sionisti! La stessa tv di stato russa diffonde un documentario, Varšavkij dogovor, dove si sostiene che nel 1968 le benevolenti armate del Patto di Varsavia hanno invaso la Cecoslovacchia per proteggerla da un’imminente aggressione NATO. In linea con tale visione Robert Fico, premier socialdemocratico della nuova Slovacchia e fedele allievo di Gustáv Husák, riuscito a sconfiggere il liberale Mikuláš Dzurinda grazie a una fondamentale alleanza strategica con l’ultranazionalista revisionista ed apertamente razzista, Ján Slota, nel 2007, criticò, con Mosca, le basi antimissilistiche USA in UE, aderì ad una joint venture per la produzione di armi pesanti con la Russia, ottenne la costruzione di un paio di centrali nucleari da Medvedev, il passaggio dei gasdotti, cancellò il debito sovietico nei confronti del suo paese. Non solo nel 2009 il premier slovacco partecipò ai festeggiamenti all’ambasciata cubana a Bratislava, ma non ha mai mancato a un festeggiamento per la vittoria a Mosca, in corteo con le icone votive ritraenti Stalin (l’invito quest’anno è stato rimandato al mittente, dal nuovo presidente della Repubblica slovacco, Andrej Kiska) e benchè ci sia una lista di ottantanove uomini politici europei interdetti dalla Russia, nemmeno uno è slovacco.
Fico è stato autore nel 2007 di una legge che ha riportato l’Europa al 1918, ma pochissimi ne hanno parlato, essa ha negato ai cittadini slovacchi di avere doppia cittadinanza, fatta ovviamente per colpire i cittadini della minoranza magiara e riportarli ad essere “optanti”, termine che si trovava solo più sui libri di storia da un bel pezzo. Ironia della sorte, hanno dovuto rinunciare alla seconda cittadinanza più che altro simbolica, i numerosi cittadini canadesi di origine slovacca.
Ma come ai tempi di János Kádár e Gustáv Husák, fra Orbán e Fico, tutto sembra appianato, in virtù di un “interesse superiore”. Quello stesso interesse superiore che invocava la dirigenza andreottiana, quando il 13 dicembre 1981, durante il golpe del generale Jaruzelski, anche detto Pinochetski, l’ambasciata italiana a Varsavia veniva circondata dai carabinieri per impedire l’ingresso di profughi (compreso lo storico Bronisław Geremek), come mi raccontò una volta Francesco Cataluccio.
A Bratislava, negli anni 1970, i compagni di Husák, il grande e benevolo “normalizzatore”, distrussero barbaramente una delle più importanti sinagoghe europee, per costruirvi un grande ponte che congiungesse la città nuova oltre Danubio, Petržalka, alla città vecchia. Ma allora le tenebre venivano coltivate, perché le tenebre conservano i regimi, le tenebre producono l’odio e il rifiuto di quel che non si conosce, come diceva anche Montaigne e perché non solo i muri abbiano efficacia ma anche i ponti, non quelli mostruosi che devastano le città, ma i ponti della ragione e della tolleranza, bisogna conoscersi reciprocamente, accogliersi reciprocamente, perché il futuro forse può essere solo sognato, mettendoci noi stessi quello che di questo passato merita di essere conservato e coltivato, ma bisogna aprirsi, non solo agli immigrati, ma contemporaneamente alle nostre storie nazionali, spesso travolte e sotterrate, senza cadere nel pericoloso reciproco isolamento. Un’Europa di paesi che guardano con pregiudizio e superiorità la storia altrui è un’Europa che non può che guardare con sospetto e svogliatezza chi arriva per trovare sicurezza, pace, libertà, benessere concreto; la sofferenza è strumentale sia a chi non fa vedere i cartelli alla stazione Keleti, sia a chi vuole seminare l’odio sociale e il razzismo.