Autore originale del testo: Mariana Mazzucato
Fonte: facciamo sinistra
Url fonte: http://facciamosinistra.blogspot.it/2016/12/senza-una-nuova-politica-industriale.html
Fonte: facciamo sinistra
Url fonte: http://facciamosinistra.blogspot.it/2016/12/senza-una-nuova-politica-industriale.html
di Mariana Mazzucato 27 dicembre 2016
A parte le posizioni di ciascuno nel recente referendum italiano sulla riforma costituzionale, è chiaro che Matteo Renzi ha sbagliato nell’identificare il voto per il Si con la sua carica di primo ministro. Ciò ha implicato che qualcuno ha votato No solo per estrometterlo, mentre altri hanno votato Si per evitare l’instabilità che sarebbe seguita a un voto per il No. La riforma del Signor Renzi è stata respinta, ed egli si è debitamente dimesso. Cosa accadrà ora? Cosa si può apprendere dai suoi errori, e da quelli dei suoi predecessori? L’economia italiana soffre di bassa produttività e bassa crescita da più di 20 anni. Principalmente, i problemi sono iniziati prima dell’introduzione dell’euro, e sono peggiorati alla fine degli anni ’90 una volta che è stato necessario ottenere surplus fiscali per centrare i criteri di deficit fissati nel trattato di Maastricht.
Soltanto Haiti e lo Zimbawe hanno avuto una crescita della produttività più bassa dell’Italia nello stesso periodo. Dato che la produttività è uno dei fattori chiave per il prodotto interno lordo, la sua stagnazione ha avuto un ruolo fondamentale nell’inerzia dell’Italia. E’ stato facile attribuire la colpa ai soliti sospetti: corruzione, burocrazia lenta e rigidità nel mercato del lavoro. Troppo poca attenzione è stata posta sulla scarsità di investimenti pubblici e privati nei fattori chiave della produttività: educazione, ricerca, formazione di capitale umano e innovazione. Da primo ministro, Renzi ha posto la maggior parte delle sue energie nell’affrontare ciò che ha visto come il problema, le rigidità nel mercato del lavoro. Si è concentrato nella riforma dell’Articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che permetteva il reintegro nei casi di licenziamento ingiustificato.
Soltanto Haiti e lo Zimbawe hanno avuto una crescita della produttività più bassa dell’Italia nello stesso periodo. Dato che la produttività è uno dei fattori chiave per il prodotto interno lordo, la sua stagnazione ha avuto un ruolo fondamentale nell’inerzia dell’Italia. E’ stato facile attribuire la colpa ai soliti sospetti: corruzione, burocrazia lenta e rigidità nel mercato del lavoro. Troppo poca attenzione è stata posta sulla scarsità di investimenti pubblici e privati nei fattori chiave della produttività: educazione, ricerca, formazione di capitale umano e innovazione. Da primo ministro, Renzi ha posto la maggior parte delle sue energie nell’affrontare ciò che ha visto come il problema, le rigidità nel mercato del lavoro. Si è concentrato nella riforma dell’Articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che permetteva il reintegro nei casi di licenziamento ingiustificato.
L’Italia ha disperatamente bisogno di riforme, ma non aveva bisogno di questa. L’Art. 18 si applicava ad aziende con più di 15 dipendenti, mentre la dimensione media in Italia è di 3,9 lavoratori, contro una media Europea di 6,8 lavoratori. Per capire come mai le aziende italiane sono piccole e non crescono, è importante guardare alla Germania. Mentre in Germania vi è una forte banca pubblica, la Kfw, che fornisce capitali a lungo termine per l’innovazione, la banca pubblica italiana, la Cassa depositi e prestiti, è ancora troppo orientata verso piccoli investimenti infrastrutturali degli enti locali, e finanzia troppo poco le imprese innovative. E poi, in Germania vi sono dei legami fra scienza e industria, attraverso l’istituto Fraunhofer, che in Italia mancano completamente. La spesa media italiana per ricerca e sviluppo negli ultimi 20 anni è stata dell’1,1% del PIL, mentre in Germania nello stesso periodo è stato investito il 2,49% del PIL. La mentalità del sussidio, piuttosto che stimolare l’investimento, ha creato un ecosistema parassitario pubblico-privato che ha generato inerzia da ambo le parti. L’attuale problema del sistema bancario italiano è in parte un risultato di questo clientelismo. Per cambiare bisogna fare richiamo a uno specifico tipo di riforma che non può essere riassunto in termini di semplici tagli al settore pubblico.
E’ stato detto che quando la Fiat si è recata negli USA per acquistare la Chrysler, Barak Obama ha fatto l’accordo a condizione che Fiat investisse in motori efficienti a energia ibrida. La Fiat ha accettato. Né Renzi, né ognuno dei suoi predecessori hanno pensato di fare un accordo simile. Si sono limitati a chiedere alle imprese cosa desiderassero, e la risposta è stata ovvia: meno tasse, meno norme, e favori. Dall’Europa si possono imparare diverse lezioni su come attuare dei cambiamenti trasformativi che possono avere un impatto sulle esportazioni. Una moneta comune è impossibile in una regione con tali differenze nella competitività. La diagnosi sbagliata sulle economie della ‘periferia’ sta provocando un aumento delle differenze con il ‘centro’. Un incremento degli investimenti è essenziale per il futuro dell’Italia e quindi per una più forte Unione Europea, dato che è fondamentale cambiare il rapporto fra pubblico e privato per renderlo meno basato su favori e sussidi, e più su opportunità di trasformazione. Finchè questo non avverrà, resterà valido il famoso detto di Lampedusa nel romanzo ‘Il Gattopardo’: “tutto deve cambiare, affinchè tutto resti com’è”.
Articolo pubblicato su Financial Times
Traduzione per facciamosinistra! a cura di Sergio Farris