Fonte: il Simplicissimus
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di Anna Lombroso per il Simplicissimus – 9 settembre 2015
A qualcuno sarà capitato di tornare a casa e scoprire che non è più casa sua, che anzi lui è malvisto, a stento tollerato, spintonato, deriso, tanto che in certe stanze nemmeno di entra più, anche se sono ancora piene di ricordi, voci del passato, giochi, risate.
A me succede ogni qualvolta torno a Venezia. Che per chi ci è nato o se l’è scelta come città da viverci, città dell’anima e della vita è una piccola heimat, una patria, e anche una casa tanto la sente sua, in ogni calle, ogni campo, specie quelli con quegli alberetti coraggiosi che sembrano venir su dalle pietre e dai masegni, ogni canal. E le voci sono così famigliari da ricordare quelle dell’infanzia, anche se parlavano lingue diverse e cantavano altre ninnananne.
Anni fa un giornale teneva il conto dei giorni che separavano i veneziani e il mondo dalla data di inaugurazione della Fenice rinata da un incendio che bruciava nell’immaginario collettivo da quella sera di gran vento quando le fiamme si alzarono nel cielo buio e tutti capirono e piansero come quando era venuto giù il campanile.
Nessuno, per pudore, per tristezza, per correità, aggiorna ogni giorno il numero di quanti se ne vanno, di quanti veneziani in meno vivono nella loro città. Nel 1951 erano 175 mila, a gennaio del 2015, 56 mila. Mai così pochi, se non ci riferiamo a quegli abitanti di quei “nidi” di uccelli acquatici, messi insieme per sfuggire a incursioni, fame, malattie, su un “suolo” – una pianura liquida le chiama Mommsen – fatto di saline e barene e acquitrini alimentato di piante acquatiche gelatinose, piccole conchiglie, ciottoli, sedimenti, che a poco intrecciarono l’ordito su cui crebbe uno dei miracoli più misteriosi e straordinari nella storia dell’uomo.
Ma mai così tanti sono invece quelli che ci arrivano, per uno o due giorni, a volte poche ore, in fila come condannati, allineati come forzati delle crociere o dei viaggi in comitiva, vomitati giù da pullman e navi multipiano, spaesati, ma concentrati a agitare il bastoncino dei selfie, per immortalare loro stessi e dietro sullo sfondo uno scenario milioni di volte fotografato, dipinti, descritto, tanto che nemmeno ci si sofferma a guardarlo, tanto è noto, stranoto, introiettato grazie a film, spot e ai selfie di chi ci è già passato negli anni scorsi.
Si chiamano posizionali quei beni che almeno apparentemente appagano bisogni non fondamentali, ai quali non tutti possono accedere, o perlomeno non tutti assieme, senza contenderseli e privarsene a vicenda. E sono caratterizzati da un’offerta sostanzialmente rigida, che non può essere aumentata più di tanto nel tempo: o perché scarseggiano in senso assoluto o in senso sociale o perché il loro godimento è deteriorato dall’eccessivo affollamento nella loro fruizione.
Forse quando li ha definiti Hirsch pensava profeticamente a Venezia e presto a tutta l’Italia, che minacciano di diventarne l’allegoria sinistra, posti dei quali i cittadini sono espropriati e dalla cui gestione sono esautorati, per appagare l’avidità di corsari delle crociere, immobiliaristi, compagnie turistiche, sceicchi e pascià, multinazionali del gadget, che altrove in altri posti del mondo sfornano vetri di Murano, pizzi di Burano, gondole in miniatura, insieme a Colossei, torri pendenti, David di gesso o di polistirolo, che tornano qui sugli scaffali di negozi tutti uguali, offerti da commessi distratti e multietnici a turisti altrettanto distratti, multietnici e di poche pretese, impazienti di tornare sul pullman o sulla nave in modo da guardare dall’alto e con superiorità un luogo così estraneo, per poi continuare a digitare sul cellulare, come peraltro fanno in una perversa coazione a ripetere nel lungo e costoso percorso sul Canal Grande, un biglietto 8 euro per 75 minuti di navigazione.
Quante volte chi come me sentiva l’appartenenza all’area ormai erosa della sinistra ha reclamato la possibilità per tutti di godere dei beni comuni, della bellezza, del paesaggio, frutto della creatività e della storia di un paese, mantenuti grazie alle imposte pagate dai cittadini. Per un paradosso facilmente spiegabile ed esemplare, man mano che vengono alienati, man mano che ne veniamo espropriati, pare ci vengano invece elargiti. Nel modo peggiore ovviamente, in modo da sfiorarli, da passarci accanto prima che diventino monopolio esclusivo di chi ha già tutto e esige anche questo, in modo che il loro accesso e uso moltiplichi profitti di impresari del consumo dei territori come delle merci, in modo che una crociera nella quale si può fingere per una settimana di essere ricchi, possa mitigare senso di frustrazione. ma anche in modo che quel passaggio fugace, quell’occhiata disattenta giustifichi tasse, oboli, balzelli. E in modo che lo sguardo svagato dei ragazzi della Buona Scuola in gita, legittimi la cancellazione delle ore di storia dell’arte, della superficialità dei testi di storia, della cancellazione ormai antica dell’educazione civica.
Contro le invasioni qualcosa si potrebbe fare: anche in questo caso meglio non contare sull’Europa e men che mai sul nostro governo assoggettato a quei padroni che hanno fatto di Venezia, Roma, dell’Italia, un laboratorio sperimentale nel quale saggiare l’oltraggio, l’esproprio, la svendita, il brutto, grazie alla cessione generosa a magnati e mecenati, grazie a partite di giro: un cubo di cemento in cambio di parcheggi (per i clienti del cubo di cemento, ovviamente), licenze facili per B&B e case vacanze in cambio di flussi ininterrotti di turismo straccione e maleducato, pigioni elevatissime in cambio di negozi omologati che vendono paccottiglia omologata di firme globali, un Fontego, una delle più amate e ammirate costruzioni veneziane, in cambio di un centro commerciale che sancisce l’occupazione militare di una dinastia spregiudicata.
Si, qualcosa si potrebbe fare: porre un limite giornaliero agli ingressi, una soglia di presenze media che la città, a causa della sua struttura socio-economica, non superi, pena lo stravolgimento completo di tutte le attività non legate direttamente al fenomeno turistico. Rivedere l’opportunità di una diversificazione di percorsi del trasporto pubblico. Una tassa turistica il cui scopo dovrebbe essere quello di ridurre il surplus del consumatore, rendendo l’attrattiva della visita alla città meno interessante per chi non è disposto a pagare per «l’esperienza» – in particolare i turisti «mordi e fuggi» – ottenendo un effetto disincentivante sull’afflusso di visitatori «pendolari» e contribuendo, allo stesso tempo, alle entrate del sistema locale. Introdurre un sistema inflessibile di prenotazioni, in modo da non concentrare gli accessi e la pressione negli stessi giorni e negli stessi orari, come si fa da anni a Luxor, a Petra, a Sanaa. Ogni volta che qualcuno ha presentato una proposta in tal senso, si è preso due accusa di senso uguale e contrario. Quella di essere uno snob intento a limitare la legittima fruizione del bello al popolo. E quella di andare a toccare gli arroccatissimi e fortificatissimi interessi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, ormai delle multinazionali, dei potentati finanziari, degli sceiccati, che, per lucrare sulla fruzione turistica della città storica di Venezia da anni e da decenni la stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando.
Il fatto, banale nella sua semplicità, è che bisognerebbe come si diceva una volta, cambiare il modello si sviluppo. Punire il patrimonio e la rendita immobiliare che ha espulso i cittadini per convertire Venezia un complesso alberghiero diffuso. Imporre tasse elevatissime a chi vende prodotti Made in Venice realizzati a Taiwan o in Boemia. Cancellare le difese crescenti, i benefici del Jobs Act per rilanciare l’artigianato, o meglio l’arte applicata, e la formazione dei giovani apprendisti. Impedire la svendita del patrimonio comune, per convertirlo in accoglienza qualificata. Combattere l’evasione e indirizzare i proventi dell’attività di recupero nella manutenzione della città. Fermare le grandi opere che sono servite solo a realizzare i profitti della corruzione, per contrastare il dissesto idrogeologico della laguna.
Lo so sembra Utopia. Ma se non ci proviamo a realizzarla nella città che è un’utopia praticata, dove fu stampata per la prima volta nel 1550, dove altro potremmo tentare di salvarci dalla barbarie.