Nelle ultime settimane si è parlato frequentemente dei drammatici ritrovamenti di fosse comuni e tombe senza nome contenenti centinaia e centinaia di resti di bambini. Queste povere creature, di cui a malapena conosciamo l’esistenza, erano rinchiuse nelle cosiddette factory schools, le suole di assimilazione culturale che, specialmente in Nord America alla fine dell’Ottocento fino alla seconda metà del secolo scorso, con metodi crudeli, si prefiggevano l’obbiettivo di omologare i popoli indigeni alla cultura dominante. A partire, soprattutto, dalla giovani generazioni, che si videro estirpate le loro radici e videro il loro popolo innestato su di un modello che non apparteneva loro. Molte di queste scuole, dirette per la quasi totalità da religiosi cattolici, iniziarono a chiudere in Canada e negli Stati Uniti a partire dalla metà del secolo scorso, ma, man mano che venivano dismesse, emergevano ed emergono atroci verità su cui ancora oggi si tenta in qualche modo di fare luce nonostante tutto il fumo che alcuni sistemi tentano di buttarci contro per nascondere la verità, forse mai del tutto comprensibile. Ma questi campi di concentramento non sono, purtroppo, spariti del tutto.
Sin dalle prime colonizzazioni, gli europei dovettero fare i conti con il fatto che non fossero gli unici sulla terra. Ci si preoccupò, allora, di capire come potersi “liberare del problema”. Lo sterminio “fisico” di queste popolazioni fu, all’inizio, la via più logica e lineare. Quando poi, però, si giunse alla conclusione che tutti questi individui potevano in qualche modo diventare una risorsa economica utile (manodopera a costo zero), ci si domandò come potesse essere possibile che questi popoli fossero sopravvissuti senza conoscere il Vangelo. Ci si ritrovò di fronte, quindi, a due modelli essenziali di conversione di massa: le reducciones dei gesuiti in Sudamerica e le factory schools in Nordamerica. Entrambi i sistemi avevano i loro difetti, ma l’approccio era abbastanza divergente, sia dal punto di vista dell’obbiettivo, sia dal punto di vista dei metodi di confronto con le popolazioni indigene.
Le reducciones furono le prime ad apparire e scomparire a livello temporale. Non appena gli spagnoli ed i portoghesi giunsero in Sudamerica, i gesuiti, ordine religioso preponderante e molto potente all’epoca, seguirono i conquistadores nelle terre del Nuovo Mondo per evangelizzare gli indigeni. Una delle prime domande che si posero fu se questi avessero un’anima o meno, e, successivamente, come potesse essere possibile per un popolo sopravvivere senza conoscere la Buona Novella e gli insegnamenti del Signore. Ebbene, è difficile dire con chiarezza se questi fossero solo pretesti per dichiarare inferiori questi popoli e sterminarli o sfruttarli con un peso in meno sulla coscienza, ma, fatto sta, che i missionari riuscirono a fare qualcosa di straordinario. Imposero, si, la religione cattolica agli indios, ma organizzarono dei villaggi indipendenti dalle colonie, appunto, le reducciones, che in brevissimo tempo divennero centri economici e culturali di notevole spessore. Non esisteva la proprietà privata, tutti vivevano in tranquillità all’interno dei confini del villaggio, si lavorava, studiava, giocava, si costruivano strumenti musicali di notevole fattura, si coltivavano i campi sia per il sostentamento della comunità sia per rivenderli ai vicini. Tutto questo, ovviamente, è stato oggetto di critiche e lodi. Per citarne una rilevante, innanzitutto, bisognerebbe partire dalla lode che Ludovico Antonio Muratori fa di questo sistema nella sua opera Il cristianesimo felice delle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai.
Intorno al 1742, si dedicò alla stesura di un saggio che descrivesse la vita nelle missioni gesuitiche, in particolar modo quelle del Paraguai, poiché, come scrisse in una lettera del ’42 a padre Contuccio Contucci: “Tra tutte quelle missioni che l’infaticabile Compagnia di Gesù ha finora fatto in varie parti del mondo, io ho sempre creduto più utile alla Chiesa di Dio e gloriosa ai pp. Gesuiti quella del Paraguai. E pure di questa poco o nulla si sa in Italia […]. Confesso a V.R. ch’io sono innamorato di quelle missioni perché mi pare di trovarvi la Primitiva Chiesa.”. Nel corso dell’intera opera, un libricino di ventitré capitoli, Muratori elogia in ogni aspetto la vita delle reducciones gesuitiche, tanto da creare un’utopia realmente esistita, presso quelli che, per gli europei, erano solamente dei selvaggi, ma nei quali il Muratori riconosce lo spirito dei cristiani delle origini fatto di fraternità, condivisione ed onestà, il tutto guidato dalla rettitudine dei padri gesuiti. In un momento in cui, in Europa, la religione veniva considerata come un accessorio al governo guidato dalla ragione, ne Il Cristianesimo Felice si prospetta come, proprio grazie alla fede, sia possibile creare un piccolo paradiso terrestre.
L’analisi si impernia dapprima su di una visione generale delle missioni cristiane, nominandone qualcuna e descrivendo a grandi linee il loro funzionamento (elogiandone l’impegno nella salvezza delle anime), per poi passare ad una sezione geografica sull’intero Sudamerica per dare al lettore una panoramica vasta a livello territoriale di dove si trovassero queste missioni. Nel terzo capitolo passa direttamente a parlarci del soggetto principale del suo scritto, il Paraguai, inizialmente a livello fisico e storico, ripercorrendo le vicende dei re cattolici in quelle terre a partire dalle prime conquiste sul finire del 1400 e dettagliando la cultura e la vita quotidiana degli indigeni, che non sono solo descritti come selvaggi, ma come individui che vivevano liberi e anche particolarmente predisposti ad accogliere la dottrina cristiana. Nonostante ciò, vi sono state innumerevoli difficoltà sin dall’inizio riguardanti principalmente la convivenza tra indigeni e Spagnoli, che fu per lungo tempo costellata di battaglie e resistenze a livello locale. Tra i casi eclatanti ci nomina il Brasile, dove l’arrivo dei colonizzatori europei fu accolto tutt’altro che amichevolmente. Infine, a partire dal capitolo VII, passa al discorso sulla conversione dei popoli “infedeli” operata dai missionari gesuiti, enumerando le loro tecniche sia di introduzione alla fede cattolica (tra cui spicca il fatto che, contrariamente a quanto si pensasse, il martirio non era il metodo migliore per tentare l’approccio diretto con i nativi), sia per il mantenimento di essa, che, una volta accettata dagli indios, divenne per loro fonte di pace e felicità.
Le reducciones descritteci dal Muratori davvero paiono dei piccoli Eden, dove tutte le cose erano condivise tra i membri della missione (presso cui non esisteva, ad esempio, la cupidigia che in Europa era causa di tanti disordini e problemi), e regnavano l’onesta e la serenità, tanto che, dice, “la maggior parte degli Indiani è di spirito dolce ed amichevole, e che oggidì in essi si trova quella bella semplicità che nel Vangelo viene paragonata a quella dei fanciulli.”. Pare, dalle parole dell’autore, che il fervore spirituale degli indios sia tanto grande da essere invidiabile, che le regole fossero sempre rispettate di buon grado poiché erano alla base della felicità di quell’organizzazione perfetta, presso cui non esistono tutti i mali che vi sono nelle Nazioni comuni, dove l’ospitalità è un dovere morale e tutti i comportamenti negativi sono presto corretti. Erano assidui nella frequentazione della chiesa ed erano abili nella costruzione di strumenti musicali che servivano poi ad allietare ogni momento della vita della reduccion. La relazione che si era venuta a creare tra missionari e indigeni era particolarmente forte, poiché la vita che si conduceva all’interno di queste missioni era particolarmente favorevole per entrambe le parti. Ma, nonostante questo, non mancavano le incursioni di mercenari al servizio dell’una o dell’altra potenza per portare via gli indios e rivenderli come schiavi. Allora, dovettero creare una protezione anche militare per le missioni, che erano in costante pericolo.
Muratori conclude enumerando i problemi che assediavano i missionari, non tanto causati dagli indios quanto dagli europei che disprezzavano il buon lavoro fatto dai padri gesuiti, cercando nelle popolazioni locali solo manodopera gratuita per le piantagioni e le miniere costruite nelle colonie. Quando parla dell’invidia altrui che mina la sicurezza delle missioni, forse l’autore non sapeva che, di lì a non molti anni, la Compagnia di Gesù sarebbe stata sciolta ufficialmente perché non compiva bene l’opera di evangelizzazione affidatagli dalla Chiesa, ma, in realtà, questa dissoluzione era dovuta a delle pressioni da parte dei vari governi europei che non riuscivano a sfruttare a loro favore tutte le risorse umane che trovavano nei territori conquistati. Come oggi noi bene comprendiamo dalla visione di film come, ad esempio, Mission, l’unico vero problema dei territori conquistati erano i conquistatori.
L’opera di Muratori ha riscosso sin da subito un successo clamoroso, tanto che, in poco tempo, si trovò ad ampliare la prima edizione con altri materiali tanta era la richiesta. Ovviamente, però, vi sono visioni molto contrastanti sulla vita in Paraguai all’epoca. Tra le più illustri troviamo la critica che Voltaire fa in Candide, per cui Cacambo racconta di come in quelle terre i padri abbiano tutto ed il popolo nulla, e di come non esista tutta la felicità descritta dal Muratori. Le critiche furono e sono ancora tante, forse più verso l’attitudine dell’autore che ritrae tutto come una fiaba – tanto da sembrare una narrazione assolutamente irrealistica – più che per la reale negatività della situazione delle missioni. In ogni caso, indubbiamente, l’organizzazione instaurata dai padri gesuiti era funzionale sia al proselitismo (loro fine principale), sia al sostentamento delle reducciones che divennero velocemente fiorenti centri economici e culturali.
Critiche a parte, sicuramente il sistema dei gesuiti, sebbene si proponesse un obiettivo simile alle factory schools del Nordamerica, vale a dire la conversione degli indigeni, non costituì una minaccia grave per questi popoli, a differenza delle altre scuole, che non solo puntavano all’evangelizzazione, ma all’annientamento totale dell’identità dei popoli colonizzati. I gesuiti, infatti, tra le varie accuse che ricevettero e portarono poi allo scioglimento temporaneo della Compagnia, ricevettero l’ammonimento di adattarsi troppo agli usi ed ai costumi dei popoli che dovevano convertire, senza adempiere perfettamente al compito a loro affidato dalla Chiesa. Invece, gli istituti cattolici in Canada e negli Stati Uniti rispecchiavano a regola d’arte l’idea colonizzatrice di imposizione totale della cultura dominante recentemente instauratasi nei territori strappati agli “infedeli” che per centinaia di anni risiedettero in quelle zone.
Gli orrori perpetrati in questi luoghi sono ancora in buona parte non esattamente ricostruibili. Dalle testimonianze dei pochi sopravvissuti, possiamo intendere solo in parte le torture fisiche e psicologiche alle quali migliaia di bambini furono sottoposti per trasformarli da “pesi sociali” in “veri cittadini”. Dobbiamo, infatti, anche pensare al nome di queste scuole: fabbriche. Basta pensare alla dicotomia classica del Nord industriale e del Sud agricolo degli Stati Uniti per adattarla facilmente anche a questo “sistema educativo”. Il Nord del continente americano non si impose la semplice conversione, ma l’annientamento delle popolazioni che di diritto si trovavano nei territori che sono oggi diventati il simbolo del multiculturalismo.
Si passava da preghiere collettive a torture psicologiche di massa, imponendo un regime di terrore all’interno della comunità, fino a traumatizzare completamente i bambini, principali vittime dei “missionari”, e addirittura a lavori estenuanti ed abusi di ogni genere. Molto poco ci è noto, e i superstiti, in molti casi, morirono a causa di malattie o dipendenze da alcol e droghe che svilupparono in seguito alla loro uscita da questo incubo. Era loro insegnato che essere nati indigeni era sbagliato. Che erano sporchi, peccatori, dannati, inferiori, che dovevano convertirsi, diventare come i bianchi, buoni, ma soprattutto produttivi. Il simbolo del capitalismo inteso in senso moderno era l’uomo “bianco e cattolico che si impegnava a creare denaro con la sua fatica, e che doveva fare i conti con quell’enorme peso sociale che era l’indiano infedele ed improduttivo”. Era questo il problema, la loro produttività. E queste scuole-fabbrica dovevano produrre su vasta scala questi produttori di ricchezza.
Purtroppo, come denuncia Survival International, molte scuole di questo stampo sono ancora in attività, specialmente in India ed in zone limitrofe, e molte di esse rimangono ancora avvolte da una nebbia fomentata soprattutto da chi ha interesse a distruggere intere comunità e tradizioni.
La verità è lungi dal venire a galla, nonostante le ripetute pressioni fatte da diverse associazioni e governi perché vengano desegretati i documenti dove possiamo trovare per lo meno di sicuro i nomi di questi bambini. Abbiamo solo stime di quanti potessero essere. Si parla di 6.000, 10.000 o addirittura di più, di cui pochi sono sopravvissuti e hanno raccontato la loro tragica esperienza. A testimonianza di ciò sono le centinaia e centinaia di tombe che ogni anno vengono ritrovate presso le scuole ormai dismesse. Tombe senza un nome, una vita, un immagine. Numeri che una volta erano vite, speranze, ma soprattutto tasselli di un patrimonio culturale che abbiamo contribuito a distruggere.